lunedì 9 luglio 2012

Un libro di Serge Latouche

Serge Latouche, Per un'abbondanza frugale, Bollati Boringhieri 2012.


La diffusione delle idee legate alla decrescita ha suscitato, come è naturale, discussioni e controversie, che molto spesso nascono da preconcetti indipendenti da quanto effettivamente sostengono coloro che stanno delineando i tratti di questo nuovo filone di pensiero.  Ha fatto molto bene Serge Latouche, che della decrescita è probabilmente l'esponente internazionalmente più noto, a raccogliere in un volume, breve e denso, e soprattutto di grande chiarezza espositiva, alcuni dei malintesi più comuni che ruotano attorno al concetto di “decrescita”, discutendoli e cercando di dissipare la confusione.
Il primo e più importante di tali malintesi è quello che confonde  “decrescita” e “recessione”:



“Non è raro, soprattutto a partire dal 2008, con l'esplosione della crisi, che il partigiano della decrescita si senta ribattere: “Ma la decrescita c'è già!”. Questa obiezione può venire tanto da avversari quanto da simpatizzanti male informati. Si tratta di una confusione classica  da parte di tutti quelli che non hanno capito che la parola “decrescita” non deve essere intesa come la negazione della crescita, la crescita negativa.” (pag.25).
La decrescita non coincide cioè tout court con la diminuzione del PIL. Il PIL può diminuire in molti modi diversi: per una recessione, per una guerra termonucleare che distrugga l'umanità, o appunto per una politica di decrescita. Quest'ultima rappresenta un modo specifico di diminuire il PIL aumentando l'autentico benessere collettivo e impostando la fuoriuscita della società dal dominio della logica del profitto e del consumismo. Per dirla con le categorie logiche classiche, la diminuzione del PIL è il genere di cui recessione e decrescita sono differenti specie.
Con la stessa chiarezza Latouche argomenta come non sia vero che la decrescita rappresenti un'impostazione antiscientifica o antimoderna, come essa non implichi il ritorno ad un ordine sociale di tipo patriarcale, e neppure il rifiuto di combattere la miseria (quella annidata in mezzo ai ricchi paesi del Nord e quella diffusa nel Sud).
Frai molti altri temi interessanti trattati nel libro, ne indichiamo qui alcuni di grande rilevanza teorica.
Nel testo si discute se la decrescita sia compatibile con il capitalismo. Su questo punto Latouche dice parole molto chiare, e forse, a nostra conoscenza, è la prima volta che egli si esprime con tale nettezza: “Essendo la crescita e lo sviluppo rispettivamente crescita dell'accumulazione del capitale e sviluppo del capitalismo, e dunque sfruttamento della manodopera e distruzione senza limiti della natura, la decrescita non può che essere una decrescita dell'accumulazione, del capitalismo, dello sfruttamento e del saccheggio (…). La decrescita è necessariamente contro il capitalismo” (pag.78-79).
Laotuche non manca di notare che “si potrebbe addirittura presentare la decrescita come un progetto autenticamente marxista (…). La crescita in effetti non è altro che il nome “volgare” di quello che Marx ha analizzato come crescita illimitata del capitale, fonte di tutti i vicoli ciechi e di tutte le ingiustizie del capitalismo” (pag.86).
Si tratta, nel caso della decrescita, di un anticapitalismo che si distacca coscientemente dalla tradizione culturale del movimento operaio e del socialismo, proprio perché questa tradizione appare imbevuta degli stessi presupposti produttivistici e industrialistici che vengono rifiutati nel capitalismo.
Un'altra grande questione teorico-politica è se la decrescita sia da considerarsi “di destra o di sinistra”. In sostanza Latouche sembra ammettere che possa esistere una versione “di destra” della decrescita, anche se “per la maggioranza degli obiettori di crescita” è “un fatto scontato” che “la decrescita sia un progetto politico di sinistra” (pag.85; “obiettore di crescita” è il termine con il quale Latouche indica i sostenitori della decrescita). Su questo punto c'è forse ancora spazio per un approfondimento. Infatti, se si ammette la possibilità di una decrescita “di destra” accanto a quella “di sinistra” (e quest'ultima è senz'altro quella che Latouche sostiene), ciò sembrerebbe indicare che la decrescita, in sé, non sia né di destra né di sinistra. A parere di chi scrive le cose stanno proprio così, e la decrescita è appunto un esempio di come alcuni temi fondamentali per il pensiero critico e l'azione antisistemica siano oggi difficilmente inquadrabili nello schema destra/sinistra.
Infine, un altro tema di grande importanza è quello del rapporto fra decrescita e occupazione. Infatti la crescita economica viene usualmente vista come l'unico modo per combattere la disoccupazione, e quindi la decrescita viene identificata con l'aumento della disoccupazione. Latouche risponde a questa critica mostrando come una società della decrescita sia in grado di generare in vari modi occupazione per tutti i suoi membri, per esempio con la rilocalizzazione delle attività (movimento opposto a quello delle delocalizzazioni) e con la creazione di posti di lavoro nei settori della riconversione ecologica dell'economia. Latouche accenna qui (pag.68) ad un tema teorico di grande interesse, cioè il fatto che la decrescita avrà l'effetto di diminuire la produttività del lavoro. Si pone allora il problema di come assicurare un livello di vita accettabile per tutti in presenza di una produttività calante. La risposta, in un certo senso, è rappresentata dall'intero programma della decrescita. Una trattazione specifica su questo tema, che deve probabilmente ancora essere approfondito dai teorici della decrescita, sarebbe utile per dissipare altri possibili malintesi.
Osserviamo infine come anche Latouche sia spinto, dalla dinamica della crisi attuale, a prendere posizioni forti su un tema come quello dell'euro. Egli afferma infatti che, di fronte alla crisi,  “sarebbe opportuno il ricorso all'iniezione di liquidità, e cioè a una inflazione controllata (diciamo di più o meno il 5% all'anno). Questa misura keynesiana, che significa il ricorso a una moneta che crea e stimola l'attività economica, senza entrare però nella logica della crescita illimitata, favorirebbe la soluzione dei problemi sollevati dall'abbandono della religione della crescita. In effetti, il primo obiettivo della transizione dovrebbe essere il perseguimento della piena occupazione per rimediare alla miseria di una parte della popolazione. Questo potrebbe essere ottenuto attraverso una rilocalizzazione sistematica delle attività utili, una riconversione progressiva delle attività parassitarie, come la pubblicità, o nocive, come il nucleare o l'industria degli armamenti, e una riduzione programmata e significativa dell'orario di lavoro. Ovviamente questo bel programma è più facile da enunciare che da realizzare. Nel caso della Grecia (o dell'Irlanda) presuppone quanto meno l'uscita dall'euro e il ritorno alla vecchia moneta nazionale, con quello che ciò comporta: controllo dei cambi e ristabilimento delle dogane. Il necessario protezionismo selettivo di questa strategia farebbe orrore agli esperti di Bruxelles e dell'Organizzazione mondiale del commercio. Ci si dovrebbe dunque aspettare delle misure di ritorsione e dei tentativi di destabilizzazione esterni, uniti al sabotaggio da parte di interessi interni colpiti. Questo programma, peraltro ancora molto lontano dalla necessaria 'uscita dalla economia' che la decrescita persegue, oggi appare quanto mai utopistico, ma quando toccheremo il fondo del marasma e della vera crisi che è in agguato, apparirà desiderabile e realistico” (pagg.20-21).
(M.B.)

1 commento:

  1. Credo che la decrescita sia da inserire in un contesto marxista, come anche lei e Bontempelli scriveste in un saggio di qualche anno fa. Le assonanze sono diverse e credo che solo con il socialismo si possano perseguire obbiettivi di decrescita. Già Marx parlava di riduzione dell’orario di lavoro per riappropriarsi del pluslavoro rubato dal capitalista, fermando così il fenomeno di accumulazione alimentato da merci che producono altre “merci feticcio”. La rappresentazione produttivistica che abbiamo visto con le economie pianificate russe e cinesi sono un cattivo esempio ed una errata trasposizione del marxismo. Al socialismo si può arrivare però con la creazione di piccole comunità che a poco a poco si riappropriano del proprio spazio lavorativo, sociale e quindi politico. Occorre educare le persone a valorizzare i rapporti sociali e lo stare in comunità, così da sostituire con la forza dello stare insieme e della condivisione, le merci che ci inducono a rimanere soli con illusione che la felicità=possesso di merci.

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