mercoledì 17 ottobre 2012

Come lo spread cambia la Costituzione: l'esempio degli Enti Locali

 Claudio Martini

Tutti i nostri lettori conoscono il Fiscal Compact, scalpo giuridico voluto da Angela Merkel per fare agli stati del sud la grazia di sequestrare le loro politiche di bilancio. Sappiamo che la stragrande maggioranza dei nostri valenti parlamentari lo ha votato senza fiatare. Sappiamo che anche il piddino parigino Hollande lo ha fatto approvare dall'Assemblea Nazionale francese, facendo finalmente qualcosa di sinistro.


Di solito quando si parla delle modifiche costituzionali conseguenti al patto fiscale si cita il solo art. 81, dove si è introdotto il principio del "pareggio di bilancio" (anche se forse sarebbe più opportuno parlare di "equilibrio"). In realtà, la revisione costituzionale ha interessato ben altri 3 articoli: il 97, 117 e 119. Il primo fonda i principi dell'azione della Pubblica Amministrazione. Gli ultimi due sono norme cardine dell'ordinamento regionale italiano.
Il nuovo primo comma del 119 recita: I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea, e il concetto di equilibrio fa capolino anche il penultimo comma, quello che riguarda le spese d'investimento.
Con la modifica al 117 si va oltre; tra le competenze esclusive dello Stato ora c'è anche l'armonizzazione dei bilanci pubblici.

è del tutto evidente come questa riforma "imbrigli" regioni e enti locali nella loro capacità di spesa, e cioè nella loro possibilità di attuare concretamente il proprio indirizzo politico; e come una competenza indeterminata del tipo della "armonizzazione dei bilanci pubblici" configuri un enorme ampiamento dei poteri di "intrusione" dello Stato centrale.

Questi interventi si inseriscono in una fase che vede progressivamente ridursi lo spazio d'autonomia ottenuto negli ultimi anni dalle regioni e dagli altri enti locali. Noto è il destino delle Province: decurtate nel numero e nelle funzioni, hanno perso addirittura il loro carattere elettivo (come in epoca pre-costituzionale). E mentre sui vari Fiorito si scatena un fuoco di fila mediatico-giudiziario con pochi precedenti, il Governo ne approfitta per ridurre il peso (come con la riduzione dei conisglieri mediante legge ordinaria)  e le prerogative delle Regioni.
E non si tratta di modifiche di poco conto, come anche la dottrina costituzionalistica non ha mancato di notare (qui una voce parecchio mainstream).

Tutto molto interessante. Dopo due decenni passati a discutere di improbabili "federalismi" e sciagurate "devolution", nel cuore della crisi lo Stato si scopre accentratore. Dal punto di vista normativo il risultato non potrebbe apparire più schizofrenico: dopo una riforma costituzionale di decentramento estremo, che ha addirittura parificato il ruolo istituzionale dello Stato, delle Regioni degli altri Enti locali (nuovo articolo 114), ecco che l'esecutivo Napolitano-Monti impone il testacoda all'ordinamento. Il pretesto sono i costi della politica, come sempre; e il bersaglio forse non sono nemmeno i servizi sociali che pure si andranno a tagliare. Forse la verità è che il vincolo esterno deve piegare ogni componente della Repubblica, senza eccezioni; ed è meglio avere tutto sotto controllo a Roma, per conto di Bruxelles, che lasciare tante competenze (e tanti soldi) nelle mani dei cacicchi locali italiani, così poco bocconiani.

Negli ultimi anni molti avevano visto nel decentramento un corollario naturale del processo di integrazione europea: lo Stato perdeva potere e sovranità verso l'alto e verso il basso, lasciandosi affondare in un mare di autonomie tenute insieme dalla forza magnetica dell'UE. Oggi sembra che lo stesso processo passi per una strada opposta: per assicurare il dominio europeo in Italia lo Stato deve riprendere in mano le redini della spesa. Integrazione attraverso un neo-centralismo dunque, consonante con il carattere al limite dell'autoritario dell'esecutivo professorale. Sarebbe interessante sapere se un simile processo stia avendo luogo anche negli altri paesi europei. Potrebbe non essere cosi; in fondo da noi governa la Commissione, negli altri paesi chi la Commissione la nomina.

Chissà. Nel frattempo, distratti dall'ingordigia dei Formigoni, perdiamo sempre maggiori pezzi di stato sociale e di democrazia rappresentativa.

 Speriamo non duri.

3 commenti:

  1. Caro Claudio,

    apprezzo molto le tue lucide analisi, e per questo vorrei chiederti come mai, secondo te, dopo che è stato approntato il cappio che chiedevano a gran voce, (meccanismo "salva spread" illimitato della BCE con modesta cessione di sovranità) ora nessuno dei governi dei paesi che ne lo invocavano si affretti festosamente ad infilarvi il collo
    (cioè a fare richiesta di aiuti firmando il memorandum of understanding).
    Sarebbe il logico esito dell'agognato trasferimento di sovranità. alle istituzioni monetarie comunitarie e internazionali (BCE FMI) che mi pare venga perseguito diligentemente da TUTTI i governi europei di qualunque colore siano.
    E invece, proprio adesso che il frutto dei loro sforzi parrebbe a portata di mano, Rajoy, Monti, il governo di Cipro, della Slovenia, invece di coglierlo gioiosamente si schermiscono, cercano scuse, escamotages (non chiediamo l'aiuto, solo una linea di credito da una cinquantina di miliardi, ma così, senza firmare niente di impegnativo...)
    Cos'è che mi sfugge?

    Franco

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    1. Grazie degli apprezzamenti. Per quanto mi riguarda risponderei "diamo tempo al tempo". Siamo in un intervallo di calma sul fronte spread, e intanto i processi di "deprezzamento reale" vanno avanti egregiamente anche senza che la Trojka si impegni direttamente. Chiedere adesso gli "aiuti" sarebbe controproducente dal punto di vista sia politico che finanziario, visto che non farebbe altro che suscitare ansia negli investitori. Sottolineo "adesso".

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  2. Adesso le acque si stanno calmando a casa nostra perché sono più agitate altrove! Poche settimane fa alcuni importanti broker dichiaravano di ritenere i titoli di debito italiani ben più affidabili di molta altra roba. L'effetto si è visto subito.

    A parte il caso italiano, il problema sta nel rapporto tra euro e dollaro: se galleggiamo discretamente lo dobbiamo alle follie di bilancio messe in atto oltreoceano. Non siamo poi così bravi a tirare la cinghia, ma qualcuno fa peggio di noi. Tra poco saremo forse tra i primi della classe: solo che si tratta di una classe di perfetti somari.

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