domenica 21 ottobre 2012

Il mondo dell'indifferenza/3

Terza ed ultima parte
(M.B.)





Alla parte 2


5.Il Surrealismo di massa: ancora una citazione di F. Fortini.
«Nato nel primo quarto del Novecento, il Surrealismo ha avuto la sua vittoria [...] dopo
cinquant'anni [...]. Tutte le ipotesi di liberazione dalla realtà borghese, che erano state formulate dai militanti surrealisti mezzo secolo fa, sono diventate pratica di massa [...]: dall'abolizione dei
nessi spazio-temporali all'automatismo verbale, dall'uso della droga e dell'erotismo in funzione
di perdita dell'identità e di estasi fino alla scomparsa, almeno apparente, di ogni distinzione fra
arte e non-arte. Anche la profezia di Lautréamont si è avverata: la poesia e l'arte sono oggi
realmente “fatte da tutti”, i pittori della domenica dipingono anche negli altri giomi della settimana, il rito della comunicazione (meglio: l'emissione di segnali) tende a sostituire, anzi ha già sostituito, quel che un tempo fu detto poesia e arte. [...] Il Surrealismo [...] ha fornito non già a minoranze intellettuali ma alle grandi maggioranze delle società modeme gli schemi intellettuali entro i quali situare la propria presenza nel mondo, determinata e modellata da precisi rapporti
di produzione, da modi di consumo e finalmente consegnata alla manipolazione quotidiana dell'industria culturale. [...] Quando si tomano a visitare le pagine dei primi surrealisti (e quelle dei
loro maggiori interpreti) si rimane attoniti per la somiglianza con quanto quotidianamente si
scrive e si discorre attorno a noi.[...] i surrealisti annunziavano la fine della letteratura, l'onnipotenza del sogno, la forza liberatrice dell'erotismo e del desiderio, la bellezza convulsiva. Tutto quel che, insomma, è oggi a portata di edicola o di televisione[...] bisogna riconoscere [...] che i procedimenti fondamentali del Surrealismo [...] sono penetrati tanto profondamente ed estesamente nella esperienza così detta quotidiana da dover essere considerati come la sola forma veramente corrispondente e conseguente alla mutazione tecnologica del nostro secolo. Nessuno
nega che quella mutazione abbia operato e continui ad operare trasferendo la razionalità (e irrazionalità) scientifico-tecnologica in modi di essere mentali, atteggiamenti ideologici, criteri di valutazione; però, al livello delle percezioni sensibili e del codice delle immaginazioni e dei desideri [...] i comportamenti mentali e linguistici che il Surrealismo ha indicato come valori ed
ha organizzato (automatismi psichici e verbali, sovvertimento dei rapporti spazio-temporali, esaltazione dell’arbitrio eccetera) sono penetrati nella generalità dei nostri contemporanei soprattutto attraverso le strumentazioni dominanti, visive e verbali, del secolo; cioè la televisione
e la pubblicità. La ‘verità’ dell’universo tecnoiogico [...] non consiste, oggi è chiarissimo, nella
massificazione scientistica temuta dai pensatori e dagli utopisti della prima metà del secolo ma
nel suo contrario, nell'onirismo e nell'immediatismo, che sono stati rivestiti di dignità etico-politica man mano che si introducevano nella percezione spazio-temporale del quotidiano. [...]
Il Surrealismo [...] è divenuto [...] il fissativo storico dell'Avanguardia, il veicolo che l'ha portata al di là dei suoi caratteri originari, ed ha finito col farla diventare una contraddizione in termini: ossia l'Avanguardia-Di-Tutti. La grandezza storica del fenomeno - ossia quello che chiamiamo il Surrealismo di massa- non è contraddetta dalla sua natura simmetrica e non antagonista alla alienazione tecnocratico-produttivistica di massa».
 (F. Fortini, dall'introduzione a Il Movimento Surrealista, Garzanti 1991, pp. 7-25).


6. Per finirla con l'Avanguardia
Quello che cercheremo di fare in questa sezione sarà di inserire le tesi di Fortini in un quadro teorico che non era probabilmente quello che egli aveva in mente, e poi di ricavare alcune conseguenze che ci sembra necessario esplicitare. Il quadro teorico di riferimento è quello legato alla distinzione fra borghesia e capitalismo. Si tratta di una distinzione cruciale, introdotta e teorizzata da Costanzo Preve in varie sue opere [1], alle quali rimandiamo per un approfondimento. La esponiamo qui in termini telegrafici. Il capitalismo (per essere più precisi, il modo di produzione capitalistico) è una realtà impersonale definita da specifiche modalità di autoriproduzione, modalità che si realizzano in vari modi nelle diverse realtà storiche, dando origine alle diverse società capitalistiche. La borghesia è una classe sociale che ha una determinata origine storica, una sua cultura e una sua visione del mondo (anche se non può essere pensata come un soggetto unitario e autocosciente). La borghesia si è trovata, in seguito ad eventi “epocali” a tutti noti, a essere classe dirigente nel periodo storico in cui il modo di produzione capitalistico ha “invaso” le società occidentali, espandendosi contemporaneamente al mondo intero. All'interno di questo periodo storico (che corrisponde grosso modo al “secolo d'oro della borghesia”, il “lungo Ottocento” dalla rivoluzione francese fino alla prima guerra mondiale) era in effetti possibile pensare borghesia e modo di produzione capitalistico come due aspetti complementari della stessa totalità. Nel secolo che sta per finire si è però prodotto un fenomeno nuovo: lo sviluppo del modo di produzione capitalistico ha prodotto trasformazioni economiche, sociali eculturali tali da mutare in profondità sia i ceti dominanti sia quelli dominati. Queste trasformazioni sono tanto profonde da rendere ormai impossibile parlare di borghesia (e di proletariato). Ovviamente, esistono individui che ricoprono ruoli direttivi nella produzione, così come esistono classi dirigenti che governano economia e politica. La tesi che qui sosteniamo è che queste
classi dirigenti hanno ormai ben poco a che fare con la borghesia liberale classica. Hegel, Cavour e Disraeli erano borghesi; Berlusconi, De Benedetti e Agnelli sono capitalisti.
La scomparsa della borghesia implica ovviamente la scomparsa della sua cultura, della sua
morale, della sua visione del mondo. Se si accettano queste tesi il ruolo delle avanguardie storiche appare chiaro, e ben diverso dalle ideologie rivoluzionarie che esse quasi sempre si erano date. Il fatto che le avanguardie storiche fossero, indiscutibilmente, antiborghesi, non implica
che esse fossero anticapitaliste. Anzi, la demolizione della cultura borghese da esse praticata appare come una articolazione di un passaggio fondamentale interno alla storia del capitale, il passaggio dal capitalismo borghese dell'Ottocento all’attuale capitalismo post-borghese. Per fare solo un esempio, la distruzione dell' “aura”, della “lontananza” dell'opera d’arte dal suo fruitore è il presupposto fondamentale per la riduzione di ogni espressione artistica a merce, e quindi per lo sviluppo della modema industria culturale (nonostante le illusioni che a questo proposito poteva nutrire Benjamin). L’irrisione verso la morale borghese è un momento necessario nel passaggio dal capitalismo ottocentesco del risparmio e della dilazione del piacere al capitalismo consumistico del secondo dopoguerra. Più in generale, è l'immaginario collettivo che è ormai strutturato secondo le forme dell'industria culturale di massa (in particolare nordamericana), forme che hanno molto più a che fare con la prassi delle avanguardie che con la cultura borghese “classica”. L'ottima sentenza di Wenders “gli americani ci hanno colonizzato l'inconscio”, significa appunto questo.
Se accettiamo queste premesse, cosa dobbiamo pensare di quelle componenti del mondo
culturale della sinistra che riprendono in vari modi forme e contenuti della critica delle avanguardie storiche alla cultura borghese, ritenendo in tal modo di contribuire alla critica della società capitalistica?
Di primo acchito, si potrebbe dire che i giovani e gli intellettuali “alternativi” e “trasgressivi”
di oggi, che scrivono i bollettini dei centri sociali e abbondano nelle aule delle facoltà di lettere,
di psicologia o del DAMS, appaiono, quantomeno, “fuori tempo massimo”. Prendersela con la
“cultura borghese”, oggi, ha lo stesso senso che prendersela con l'istituzione del maggiorasco, il piegabaffi o i busti di ossa di balena. Ma queste ovvie battute non riescono a toccare il problema
di fondo, che è: come mai questi atteggiamenti continuano a riprodursi quando dovrebbe essere
manifesta la loro stupidità? Il vero segreto di questa infinita coazione a ripetere gli atteggiamenti
delle avanguardie è proprio la loro intima solidarietà col mondo del capitalismo contemporaneo.
È evidente infatti che essendo la cultura delle avanguardie parte integrante dell'industria culturale moderna, ripetere le forme e i contenuti dell’esperienza avanguardistica è un'ottima scuola
per chi voglia far carriera nell'industria culturale stessa. L’aspirante “artista” che a venticinque .
anni si entusiasma alle gesta di Tzara, Marinetti o Breton sta in realtà imparando le tecniche di
manipolazione dei dati culturali e il cinismo che gli serviranno per una onesta vita di pubblicitario, consulente editoriale, fotografo free lance, giornalista culturale. Ma sta imparando qualcosa
di ancora più importante, dal punto di vista della stabilità del mondo del capitale. Sta infatti
compiendo la necessaria “esperienza del diverso” che in futuro lo vaccinerà da ogni tentazione
“critica”. Quella del ventenne rivoluzionario che si ritrova perfettamente “integrato” a quarant'anni, e che anzi usa la sua esperienza giovanile per rendere più salda la sua scelta adulta, è
una “figura” ‘talmente nota, talmente chiara da non doverci spendere molte parole. Dovrebbe
essere infatti chiaro che un atteggiamento “rivoluzionario” basato unicamente sul ribellismo
giovanile, senza una autentica fondazione culturale e morale, non può che rovesciarsi, di fronte
alla sua evidente insostenibilità, in accettazione dell'esistente da parte dell'ex-giovane rivoluzionario. E il passato “alternativo” non farà che rendere più convinta e salda la scelta di integrazione: il fatto di aver sostenuto un'ideologia rivoluzionaria insostenibile darà al quarantenne “integrato” la base per convincersi dell'insostenibilità di ogni atteggiamento critico. Avendo superato il suo modo di essere contro il capitalismo, sarà convinto di averli superati tutti. Come si diceva nella sezione 2 di questo saggio, è solo attraverso l'esperienza dell'altro da sé che si fonda realmente e definitivamente la propria identità. L'esperienza “alternativa” è dunque un passaggio significativo per una felice integrazione nel mondo del capitalismo avanzato.
Gli sviluppi che abbiamo esaminato riguardano gruppi abbastanza ristretti, la cui analisi permette però di capire alcuni aspetti cruciali della realtà culturale del mondo contemporaneo. Ce ne rendiamo conto se prendiamo in esame un altro aspetto di quella che Fortini chiama “Avanguardìa-Di-Tutti”. Appare infatti evidente che il culto del nuovo in quanto tale, l’idea che produrre “cose nuove” sia un valore in sé, insomma il ‘nuovismo’ oggi dominante nel nostro orizzonte culturale è in piena consonanza con le istanze più note delle Avanguardie, che intendevano distruggere il passato in quanto tale. Se all'impeto distruttivo e innovatore dell'Avanguardia si toglie il lato utopico (l'immagine di una città futura liberata da servitù e sfruttamento), lato peraltro facilmente resecabile appunto perché astrattamente utopico, non resta che l'istanza del nuovo in quanto nuovo, l'idea che l'innovazione culturale sia in sé un valore. Il fatto che tale istanza è diventata elemento centrale dell'industria culturale di massa, mostra con evidenza l'affinità fra “nuovismo avanguardistico” e capitalismo. Se il nuovo ha valore in quanto tale, niente ha più valore, perché tutto può essere accusato di non essere sufficientemente nuovo, e  può essere sostituito da qualcosa di più nuovo. Nessun contenuto culturale ha più valore, tutto diventa merce di rapida obsolescenza, tutto è pronto per essere annichilito e sostituito. L’ ambito della mercificazione può quindi diventare davvero universale, espandendosi a coprire tutti gli aspetti della produzione culturale umana. La distruzione e irrisione dell'idea stessa di “tradizione” sono aspetti di questa espansione del capitale. La nozione di “tradizione” rimanda infatti (e si ricordi il primo brano di Fortini citato) ad una idea di “crescita culturale” (di una collettività o di un singolo) che avviene in un tempo “carico di significato”, un tempo che non è un mezzo omogeneo e indifferenziato. È il tempo nel quale l'incontro con determinate realtà (opere d’arte, maestri di pensiero, accadimenti culturali) è mediato dalla memoria di altri e analoghi incontri nei passato, e dalla tensione verso una pienezza di senso della propria vita da raggiungere o da confermare. È all'interno di questa temporalità, articolata e “carica di senso,” che comunità e individui fanno proprie le realtà culturali incontrate e le inseriscono in un orizzonte di significati e in una gerarchia di valori. La distruzione dell'idea stessa di tradizione è distruzione di questa temporalità: al suo posto si instaura un flusso omogeneo e indifferenziato di “novità” che appaiono per un istante, acquistano un effimero valore in quell'attimo e subito lo perdono. Ma questo
tempo ridotto a un flusso omogeneo di shocks, a una eterna ripetizione della “novità” sempre
diversa e sempre uguale, è esattamente la forma prodotta dall’industria culturale organizzata nelle strutture del capitalismo contemporaneo. La distruzione operata dalle Avanguardie nei
confronti della tradizione crea quindi le premesse per un tipo di fruizione culturale che è la più
adatta al "consumo culturale di massa”, e quindi all'odiema industria culturale.

[1] Si veda per esempio La passione durevole, Vangelista 1989

1 commento:

  1. Antonio Gragnaniello10 aprile 2013 alle ore 21:37

    Egregio prof Badiale,
    ricordo con piacere i suoi articoli che ho letto sulla rivista Koinè. Non commento, volevo solo dirle grazie. Oltre a Fusaro, rocordi pure Costanzo Preve, al quale il giovane Fusaro deve troppo.
    Saluti di cuore

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