sabato 9 febbraio 2013

Euro: un disastro annunciato

Vi proponiamo l'articolo di F. Tringali e M. Badiale apparso sul numero di dicembre-gennaio della rivista alfabeta2:

                                                      Euro: un disastro annunciato

Scrivevamo un anno fa che le politiche impostate per salvare l'euro avrebbero lentamente avviato l'Italia a diventare un paese del Terzo Mondo (M.Badiale, F. Tringali, “L'euro non è un dogma”, Alfabeta2, dicembre 2011). Gli eventi di quest'ultimo periodo confermano quel giudizio: la crisi economica prosegue, così come la distruzione dei diritti dei lavoratori e l'attacco ai redditi dei ceti subalterni, mentre l'adozione di misure come il Fiscal Compact determina, in sostanza, la cessione della sovranità degli Stati nazionali a lontane strutture oligarchiche e la conseguente cancellazione di quel poco di democrazia ancora rimasta in questo Paese. Non intendiamo qui dilungarci su questi temi, né su quelli relativi alla irriformabilità dell'Unione Europea in senso democratico e alla necessità di uscire da essa e dalla moneta unica, perché li abbiamo trattati dettagliatamente in un libro uscito da poco (M.Badiale, F. Tringali, “La trappola dell'euro”, Asterios editore), al quale rimandiamo per approfondimenti.

Ci sembra utile, invece, ripercorrere in questa sede alcune delle discussioni che hanno accompagnato il passaggio dell'Italia a un sistema monetario europeo a cambi fissi e poi all'euro. È importante infatti sapere che l'esistenza di un rapporto consequenziale fra la rinuncia alla flessibilità del cambio valutario e la realizzazione di una vera e propria macelleria sociale in termini di aggressione ai diritti e ai redditi dei ceti medi e popolari, era stata chiaramente prevista già tre decenni fa.

Agganciare la valuta della Germania a quella di Paesi economicamente più deboli e con inflazione più alta, senza prevedere meccanismi certi ed automatici di riequilibrio fra i Paesi in surplus e quelli in deficit, non poteva non determinare la costruzione di un rapporto asimmetrico: da una parte la Germania e i Paesi forti nel ruolo di leaders, dall'altra i Paesi più deboli nel ruolo di followers, impossibilitati a recuperare competitività e sostanzialmente costretti a riprodurre le politiche economiche e sociali tedesche, con le conseguenze che vediamo oggi, dopo dieci anni di moneta unica (la quale rappresenta il caso “estremo” di sistema valutario a cambi fissi): deflazione, spinta al ribasso dei diritti e dei salari dei ceti medi e popolari, innalzamento della disoccupazione, politiche di rigore destinate a portare il Paese ad avvitarsi in spirali recessive.

Ma vediamo allora alcune delle discussioni svoltesi negli anni Settanta. Dopo la fine del sistema di Bretton Woods, i Paesi forti dell'Europa, come la Francia e soprattutto la Germania Ovest, iniziano a spingere per la creazione di un sistema a cambi fissi tra i Paesi del vecchio continente. Il primo esperimento, il cosiddetto “serpente monetario” non ottiene grande successo. Agli inizi del 1978 inizia ad essere progettato il Sistema Monetario Europeo. A gestire i confronti fra i Paesi europei, e l'eventuale ingresso dell'Italia nel nuovo sistema, è il governo Andreotti IV, un monocolore DC tenuto in vita dall'appoggio esterno del PCI.  In quella fase, il partito di Berlinguer è quindi un interlocutore importante per i ministri che partecipano alle fasi di preparazione dei vertici europei che porteranno alla nascita dello SME.
All'interno del PCI vi sono posizioni diverse, ma in sostanza il partito esprime ben presto la propria netta adesione ad un sistema europeo che porti a cambi fissi tra le valute. Lo stesso fa la CGIL di Lama, nonostante siano chiare le conseguenze per i lavoratori che tale scelta comporta.
Il PCI tenta di mitigare i prevedibilissimi effetti nefasti del “vincolo esterno” costituito dall'appartenenza allo SME, ponendo alcune condizioni, che inizialmente lo stesso governo democristiano assume come proprie. Esse sono riassunte nel discorso tenuto alla Camera dal ministro Pandolfi il 10 ottobre 1978. In sintesi la richiesta è quella di far precedere l'instaurazione della fissità dei cambi da un periodo di transizione meno rigido, e poi accompagnare il regime a cambi bloccati con misure a favore delle economie meno prospere e, soprattutto, con regole capaci di “stabilire, nel caso di deviazione degli andamenti di cambio, una equilibrata distribuzione degli oneri di aggiustamento tra paesi in disavanzo esterno e paesi in avanzo” [virgolettato tratto dal discorso del ministro Pandolfi alla Camera, 10/10/1978].

La ragione di queste richieste è semplice: se un gruppo di Stati rinuncia alla flessibilità del cambio valutario, e quindi alla possibilità di operare svalutazioni/rivalutazioni, senza introdurre  meccanismi di riequilibrio fra le economie in surplus e quelle in deficit strutturale, gli oneri dei necessari “aggiustamenti” ricadono tutti sui lavoratori degli Stati più deboli, chiamati ad accettare minori diritti, maggiore fatica e diminuzione del salario, al fine di tentare il recupero della competitività perduta in favore degli Stati più forti (si noti che la “virtù” degli Stati forti consiste molto spesso nella loro maggior capacità, rispetto ai partner più deboli, di mantenere bassa l'inflazione contenendo i salari e comprimendo la domanda interna, esattamente come fa ora la Germania).
Tutto ciò era già perfettamente chiaro a tutti i principali attori politici che discutevano l'eventuale adesione dell'Italia allo SME.
Ma il vertice di Bruxelles del dicembre 1978 vede la sconfitta della posizione italiana. Francia e Germania spingono per dar vita immediatamente al sistema a cambi fissi, e non accettano le proposte della delegazione italiana, limitandosi ad accordare al nostro Paese una banda di oscillazione maggiore rispetto a quella prevista per gli altri (6% invece che 2,5%).
Poco dopo il suddetto vertice, nell'aula della Camera dei deputati si svolge la discussione sulla proposta di adesione immediata dell'Italia allo SME.
La linea che il PCI aveva tenuto era stata completamente sconfitta, le condizioni poste non erano state accolte, e il partito non può non trarne delle conseguenze. Infatti, nella discussione parlamentare gli esponenti del PCI espongono in modo chiaro i rischi che l'Italia stava correndo.  L'intervento più autorevole, quello del membro della segreteria nazionale, si spinge a sostenere che dal vertice di Bruxelles arrivava la “conferma di una sostanziale resistenza dei paesi a moneta più forte, della Repubblica federale di Germania, e in modo particolare della banca centrale tedesca, ad assumere impegni effettivi ed a sostenere oneri adeguati per un maggiore equilibrio tra gli andamenti delle monete e delle economie di paesi della Comunità”, aggiungendo che “è così venuto alla luce un equivoco di fondo, di cui le enunciazioni del consiglio di Brema sembravano promettere lo scioglimento in senso positivo e di cui, invece, l’accordo di Bruxelles ha ribadito la gravità: se cioè il nuovo sistema monetario debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, delle economie europee e dell’economia mondiale, o debba servire a garantire il paese a moneta più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania federale e spingendo un paese come l’Italia alla deflazione”.

È facile notare come i problemi indicati in quel lontano dibattito parlamentare siano esattamente gli stessi con cui ci confrontiamo oggi: infatti il punto è che in regime di cambi fissi, la politica non espansiva della Germania costringe le economie più deboli alla deflazione, cioè all'attacco ai salari. Ed è interessante sottolineare che l'esponente della segreteria nazionale del PCI che dimostrò di aver così chiari i problemi legati all'adozione di un sistema di cambi fissi, rispondeva al nome di Giorgio Napolitano. Non si tratta di un caso di omonimia: è proprio la stessa persona che oggi, dall'alto del Colle, difende a spada tratta l'euro.
La diversità di questi comportamenti, seppur a distanza di oltre trent'anni l'uno dall'altro, potrebbe stupire. Tuttavia uno sguardo più attento alle vicende del 1978 può farci comprendere che la diversità non è poi così ampia. Infatti, va detto che è sbagliato sostenere, come fanno in molti, che il PCI votò contro lo SME. Il comportamento del partito fu molto meno netto, e ciò rappresentò un chiaro messaggio ai ceti dominanti.
Il gruppo comunista, infatti, chiese, ed ottenne, lo spezzettamento in tre parti della mozione in votazione, e votò contro solo sulla seconda parte (quella che conteneva l'impegno per l'adesione immediata dell'Italia allo SME). Sulla prima e sulla terza parte il PCI si astenne. Non solo: il PCI non aprì immediatamente una crisi di governo (anche se l'esecutivo cadde comunque il mese successivo).
Era chiaro che né il PCI, né la CGIL intendevano fare le barricate contro lo SME, così come iniziava ad apparire evidente che tentare di “mitigarne” gli effetti era impossibile: i Paesi più forti non avevano nessuna intenzione di concedere meccanismi di riequilibrio fra gli Stati in surplus e quelli in disavanzo (esattamente come oggi), ed i ceti dirigenti dei Paesi più deboli non avevano nessuna intenzione di insistere, perché sapevano che la rigidità del sistema avrebbe aperto loro la possibilità di distruggere i diritti del lavoro, abbassare i salari, privatizzare ogni cosa (appunto quello che succede oggi).

Tutto divenne ancora più nitido nel periodo successivo: in primo luogo, il PCI fu allontanato dall'area di governo. In secondo luogo nel 1981 avvenne il “divorzio” fra Tesoro e Banca d'Italia, che privò il nostro Paese dell'effetto calmierante sui tassi di interesse sul debito costituito dall'acquisto dei titoli stessi da parte della Banca Centrale, con l'ovvio effetto di imbrigliare ancora di più la nostra economia e di obbligare il nostro Paese ad affidarsi totalmente al mercato per finanziarsi,  costringendolo a seguire le scelte dei Paesi più forti dell'area SME, cosa che porterà alla crisi del 1992. In terzo luogo venne attaccata con successo la “scala mobile” al fine di abbattere le barriere alla moderazione salariale.
Il risultato del referendum sulla “scala mobile” del 1985 sancì la totale sconfitta della linea del PCI e della maggiore confederazione sindacale: non era più possibile realizzare forme di opposizione “collaborativa” con i ceti dominanti, come quelle realizzate nel “trentennio dorato”, che temperassero le scelte del governo in modo da ottenere risultati positivi per i ceti subalterni.
I ceti dirigenti italiani ed europei si avviavano sulla strada dell'attacco totale ai lavoratori, ai diritti conquistati, allo stato sociale, al settore pubblico dell'economia.
Il PCI e la CGIL si trovarono quindi di fronte ad un bivio storico: difendere gli interessi dei ceti medi e popolari assumendo posizioni nettamente contrarie al processo di unificazione europeo (che vedeva proprio nello SME il suo fulcro), e avviare così uno scontro molto duro (e dagli esiti imprevedibili) con i ceti dominanti, oppure accettare supinamente le scelte dei ceti dominanti stessi, accantonando le condizioni poste al tempo della discussione sull'ingresso dell'Italia nello SME e proponendosi come forze di governo “responsabili” ed “europeiste”. Sappiamo bene quale strada hanno scelto.

 (Marino Badiale, Fabrizio Tringali)

9 commenti:

  1. Altro utilissimo contributo di divulgazione al dibattito quello fornito da Marino e Fabrizio. Tanti sindacalisti che alla fine degli anni '80 avevano lasciato la CGIL si erano resi conto del voltafaccia politico senza afferrare, però, le sottostanti dinamiche economiche e monetarie. Il sostanziale rifiuto di riconoscerle è tuttora una delle più gravi carenze della c.d. sinistra.

    Ancora grazie e a presto,

    Paolo Cianciabella

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  2. Ritengo che l'attuale svilimento del ruolo del sindacato nasca da questa precisa abdicazione al "potere".
    Parte dell'analisi sulla corruzione dei sistemi "istituzionali" trova la sua giustificazione, a mio avviso, proprio dall'ambiguo sodalizio avvenuto negli anni della "Milano da bere" tra il cosidetto patronato e la dirigenza politico-imprenditoriale del "momento". Sodalizio propedeutico alla trasformazione successiva del PCI in PDS e poi Ulivo e poi PD. Una fase transitoria abilmente condotta dal delfino di Occhetto (persona meno malleabile e gestibile da tal punto di vista) costretto all'epoca a cedere un dito per amor di patria e vedendosi privato del braccio in nome dell'Europa. Di lì una discreta discesa e disgregazione dell'unità sindacale. Un involuzione, imbarbarimento, una esponenziale regressione culturale delle figure di "spicco" della rappresentanza.
    Ossia le figure che in ambito "aziendale" dovevano rappresentare quel quid intellettuale e che in realtà ancor oggi rappresentato l'approdo del (mi scudo del termine a priori) "fancazzismo" opportunista.
    La regressione si misura appunto in assenza di capacità critica della realtà nel momento in cui la realtà viene considerata come solo ambito del proprio guadagno.
    Mi scuso per la prolissità ma è nel mio gene.
    Un saluto.
    Elmoamf

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  3. Certo, avremmo sempre potuto mantenere la nostra sovranità monetaria e svincolarci dal treno della deflazione internazionale, ma questo avrebbe comportato l'intensificarsi degli aspetti perversi del nostro modello: l'avvitamento nella rincorsa tra inflazione interna e svalutazione del cambio; l’erosione del risparmio nazionale e di qualsiasi riserva di valore; la frustrazione di ogni capacità di investimento privato in favore di un interventismo statale ottuso e sprecone; e, in sintesi, la deriva verso un’economia pianificata di tipo socialista, sempre più isolata dagli scambi internazionali e sempre meno capace di garantire quei consumi e quelle opportunità che molti dei compagni sembravano ricercare attraverso la "rivoluzione".

    Ma non era questo l’orientamento della maggioranza del Paese e, infondo, non era probabilmente l’esito sperato dallo stesso PCI di Berlinguer, il quale realisticamente ricercava una via al socialismo diversa da quella dei Paesi del blocco sovietico, attraverso una trasformazione della società per via democratica e pluralistica, che non negasse i benefici di un sistema economico efficiente e l’opportunità del processo di integrazione europea.

    Ho già espresso la mia stima per le istanze morali che animano l'impegno degli Autori, ma continuare ad adottare vecchi schemi interpretativi troppo rigidi non eviterà ai lavoratori il ripetersi delle sconfitte patite negli ultimi decenni.

    Un cordiale saluto.
    Emilio L.

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    1. "l’erosione del risparmio nazionale e di qualsiasi riserva di valore; la frustrazione di ogni capacità di investimento privato in favore di un interventismo statale ottuso e sprecone."
      Mi scusi sig.Emilio L. ma questo è più o meno quello che sta succedendo oggi in Italia,e accade per scelte ben precise di cui la nostra sinistra italiana si è resa complice.
      Io credo che i vecchi schemi interpretativi troppo rigidi li stia applicando Lei,forse perché (e qui faccio lo psicologo da quattro soldi) non vuole farsene
      una ragione,ma siamo stati traditi.
      Con cordialità
      C.Nobile

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  4. Ricordo bene questo (quel) pezzo di storia politica del nostro paese. Allora ero ignorante dei meccanismi specifici delle politiche economiche intraprese dal cosiddetto pentapartito e dai governi "europeisti", ma vedevo bene dove ci avrebbero portato, tant'è che al referendum votai per il mantenimento della scala mobile. E adesso queste ricostruzioni delle fasi politiche pro-euro di allora mi aiutano a ricostruire quel puzzle, mettendo retrospettivamente in evidenza tessere molto importanti e unendo i trattini fino a darmi una interpretazione relativamente nuova del processo politico ed economico che ha condotto all'odierna macelleria sociale, dove evidenti sono le pesanti responsabilità che la ""sinistra"" ha avuto in tutto ciò. Per cui non vedo assolutamente dove stia l'adozione di "vecchi schemi interpretativi troppo rigidi" di cui parla il commento qui sopra.

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  5. Provo a spiegarmi meglio ... si pensi per un attimo ad uno dei nostri problemi: il debito pubblico. Esso è cresciuto già negli anni Settanta, ma è poi esploso nel decennio successivo.

    L'interpretazione data "da sinistra" è che all'inizio degli anni Ottanta le classi dominanti hanno avviato una sorta di controrivoluzione ai danni dei lavoratori: politica monetaria restrittiva, tassi reali che diventano positivi, stabilizzazione dell'inflazione e dei tassi di cambio ... (o se si preferisce: adesione allo SME, divorzio tra governo e banca d'italia, l'abolizione della scala mobile, ...)

    Ebbene sì, lo penso anch'io: il nuovo scenario mondiale di deflazione, stabilizzazione monetaria, apertuira dei mecati finanziari era ostile alla classe lavoratrice! Avete ragione!

    Ma nella grande storia come nella vita di tutti i giorni, non possiamo sempre scegliere il copione da recitare ed il palcoscenico su cui esibirci ... se vogliamo migliorare le sorti della nostra comunità nazionale dobbiamo operare al meglio all'interno del contesto economico internazionale, consapevoli dei suoi vincoli e delle sue regole, nonchè delle conseguenze della nostra inerzia ... lo ripeto, non perchè tali vincoli e regole siano giusti, ma perchè non sono eludibili per iniziativa uniterale o rifiutabili per posizione ideologica.

    Tornando alla questione debito pubblico, vi voglio proporre una diversa visuale: com'è che tra tutti i principali paesi industrializzati il nostro è stato l'unico a uscire dagli anni Ottanta con le ossa rotte ed una pesante ipoteca sul futuro.

    Sebbene i tassi di interesse reale si siano mantenuti in Italia i più bassi in assoluto tra quelli dei paesi industrializzati, il nostro è stato infatti l'unico paese (l'unico!) in cui il rapporto debito pubblico / PIL è esploso sfondando 100%(neanche l'america di Reagan con sgravi fiscali e spese militari a go go è riuscita a fare altrettanto).

    Come è potuto succedere? Tutti imbelli ed imbecilli i popoli degli altri paesi che si sono adattati al nuovo contesto, mentre noi, in nome della coerenza ai nostri ideali di giustizia sociale, abbiamo continuato a consumare una ricchezza non creata scaricando il conto sulle generazioni future ? Ah saperlo!

    Non è una domanda retorica, considerato che c'erano allora (e ci sono anche adesso) persone che scambiavano per giustizia sociale il fatto che le pensioni di anzianità venissero riconosciute ai dipendenti pubblici dopo soli venti anni di lavoro per gli uomini e quindici per le donne, quando oggi non ne bastano neanche più quaranta!

    Ma purtoppo non finisce qui. Quale sistema industriale ci hanno lasciato in dote una conflittualità sociale che non ha avuto egali in europa, la lotta pregiudiziale al grande capitale, la dipendenza di larghe fette dell'economia italiana da sostegni diretti e indiretti dello Stato?

    Una miriade di piccole imprese, animate da imprenditori spesso eroici, ma poco capitalizzate, operanti in settori tradizionali, fortemente dipendenti dalla competitività di costo ...

    Dunque ecco l'eredità dei nostri alti ideali: debito pubblico elevato e presenza marginale nei settori inustriali a più alta produttività intrinseca. Non c'è da stupirsi che quando una parte del mondo ha inziato a reclamare una diversa suddivisione mondiale del lavoro e del reddito, noi siamo stati tra i primi a patirne le conseguenze!

    Concludo: l'unità europea che si riduce alla mera condivisione di una moneta, la globalizzazione selvaggia, la finanziarizzazione dell'economia ... non è sicuramente il migliore dei mondi possibili, anzi! Forse la crisi indurrà le principali potenze ad atteggiamenti cooperativi o forse deflagrerà in conflitto, who knows? ... nel frattempo faremmo meglio a concentrarci sulle riforme alla nostra portata (non necessariamente quelle di Monti).
    Quando in passato abbiamo provato ad inseguire la rivoluzione del proletariato, si è visto come è andata a finire ...

    PS roberto b per favore salutami il Prof. Bagnai su Goofy(io non ci riesco). Grazie

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    1. "Sebbene i tassi di interesse reale si siano mantenuti in Italia i più bassi in assoluto tra quelli dei paesi industrializzati"

      Ma lei questi dati dove li ha presi, scusi? Io guardo sul sito della Banca Mondiale:

      Real interest rate (%)
      Real interest rate is the lending interest rate adjusted for inflation as measured by the GDP deflator.
      (anni 1983-1987)
      media
      Belgium 7.7 8.1 7.6 7.4 7.5 7,66
      Denmark 6.6 7.0 9.9 10.0 8.4 8,38
      Finland 1.4 1.9 4.8 4.1 4.4
      France 2.3 4.7 5.4 4.4 6.9
      Germany 7.0 7.7 7.3 5.6 7.0 6,92
      Italy 6.2 10.1 8.1 7.9 7.1 7,88
      Japan 6.2 4.9 5.5 4.2 5.3
      Netherlands 7.0 6.4 8.3 8.4 9.3 7,88
      Norway 6.8 6.9 7.9 16.8 8.9 9,46
      Sweden 4.3 7.8 9.7 5.7 7.4 6,98
      Switzerland 3.1 1.7 3.1 2.4 3.0
      United Kingdom 4.1 4.9 6.1 7.2 4.1
      United States 6.6 8.0 6.7 6.0 5.1 6,48


      http://data.worldbank.org/indicator/FR.INR.RINR/countries/1W?page=5&display=default

      Ma più bassi dove? Maggiori dei nostri solo la Danimarca, la Norvegia e l'Olanda.

      La Danimarca passò da un debito del 4,8% nel 1970 a 35% nel 1980, a 65% nel 1987. In 17 anni è aumentato di 60 punti percentuali. Non molto diversamente dal nostro.

      L'Olanda partiva da 50% nel 1970 e chiudeva con un 73% nel 1987.
      Interessanti i dati precedenti: dal 1814 al 1871 il debito pubblico olandese è stato sempre superiore al 100%, superando spessissimo anche la soglia del 200%, scendendo negli anni successivi pur rimanendo molto alto, per ritornare sopra al 100% dal 1932 al 1952. Dati molto significativi. Al governo per tutto quel tempo c'era stato Von Craxen.

      La Norvegia invece brava. E allora?

      I dati sui debiti pubblici qui: http://www.reinhartandrogoff.com/data/browse-by-topic/topics/9/

      firmato Caronte

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  6. Buongiorno Caronte,

    il miei dati sul "real interest rate on public debt" nei principali Paesi industrializzati hanno fonte OCSE, Historical Statistics 1960-1990, e sono contenuti in Tanzi-Schuknecht, "Public Spending in the 20th Century - A Global Perspective", Cambridge University Press ,2000 (cfr. Tavola IV.5 a pag. 85). Lo troverà facilmente cercando su internet.

    In base a questi dati, si rileva che nel decennio 1980-90 il tasso di interesse reale sul debito pubblico italiano risultò pari in media al 2,8%, su livelli inferiori a quelli pagati sul debito dei nostri competitor, ad esempio: Gran Bretagna (3,5%), Germania (4,5%), Francia (5,0%), Olanda e Stati Uniti (5,4).

    Il "lending rate" considerato da World Bank è invece "the bank rate that usually meets the short- and medium-term financing needs of the private sector". Non riguarda quindi il debito pubblico.

    Un cordiale saluto.
    Emilio L.

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  7. Una banalissima e semplicissima domanda: nella interessante analisi di come si sia sviluppato in maniera anomala il debito pubblico italiano ,considerate il nostro paese a capitalismo reale ,o una sua versione surrettizia?.
    A Emilio L....è vero che la pensione a 40 anni piu' che stato di welfare era un bonus democristiano e una socializzazione sindacale, ma quella apologia per la piccola impresa privata mi fa ridere..
    LE RICORDO CHE E'ANDATA COSI PERCHE TUTTE LE PARTI SOCIALI HANNO VOLUTO FARE I FURBI. L'IMPRESA PRIVATA NON PAGA LE TASSE IN QUESTO PAESE...ALMENO COME TREND.
    ernesto tonani

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