venerdì 21 giugno 2013

La sinistra rivelata/3

Seconda parte del capitolo 2 de "La sinistra rivelata"
(M.B.)

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Sinistra e sviluppo

Cerchiamo ora di discutere in modo più approfondito le tesi di chi sostiene da sinistra l’opportunità e la necessità di rilanciare lo sviluppo. Per farlo, partiamo da un testo che argomenta questa tesi in un modo serio e approfondito. Si tratta di un recente libro di Andrea Ricci[1], che si impegna ad offrire, come dice il sottotitolo, “Proposte per una politica economica di sinistra”.

L’analisi del libro, su cui si fondano le sue proposte, muove dalla constatazione che, negli anni Ottanta e soprattutto negli anni Novanta, si è determinata una forbice tra il maggior sviluppo dell’accumulazione di valore economico negli Stati Uniti e il suo minore sviluppo in Europa (intesa, come d’ora in poi intenderemo usandone il temine generico, quale area della UEM, l’Unione Economica e Monetaria). Il quarto capitolo del libro porta infatti per titolo “Il declino dell’Europa”. Perché questo declino? Perché, cioè, il tasso di incremento del prodotto interno lordo è stato in Europa costantemente inferiore a quello degli Stati Uniti? E' nota la spiegazione che di questo dato viene fornita dal coro dei media, in maniera ossessiva fin dagli anni Ottanta: negli Stati Uniti il lavoro è più flessibile, in Europa più rigido; il costo del lavoro in Europa, gravato da consistenti oneri sociali, è più alto, negli Stati Uniti più basso. La flessibilizzazione integrale del lavoro porterebbe a grandi vantaggi in termini di maggior volume di commercio, maggiore crescita della produzione, minore disoccupazione. In queste analisi si tace naturalmente il fatto che il brillante risultato di una disoccupazione americana diventata percentualmente la metà di quella europea è un giuoco di prestigio matematico che computa come occupati anche i milioni di carcerati e quanti avevano lavorato soltanto poche ore al mese. Ma le critiche a queste ideologie mediatiche non si fermano a queste considerazioni, e Ricci le approfondisce proponendoci tabelle statistiche dalle quali risulta che nel periodo in cui gli investimenti produttivi americani sopravanzavano quelli europei e determinavano un maggior incremento del prodotto interno lordo negli Stati Uniti, i profitti aziendali crescevano invece più in Europa che negli Stati Uniti [2]. La ragione per cui in Europa c’è un minor volume di investimento e di accumulazione non sta perciò in un maggior peso economico del fattore lavoro, che avrebbe eroso i profitti disponibili per gli investimenti produttivi, ma sta in una qualche strozzatura esistente tra la formazione del profitto e il suo reinvestimento nel ciclo accumulativo. Tale strozzatura è individuabile nell’insufficienza della domanda monetaria, che, restringendo gli sbocchi di mercato della produzione industriale, ha corrispondentemente ridotto gli investimenti in essa, dirottando i profitti negli impieghi finanziari e negli investimenti nelle remunerative attività americane [3]. Il successo dell’economia americana nel periodo 1991-2001, consistente in un tasso medio anno di crescita del prodotto interno lordo del 3,5% contro l’1,8% europeo, è dunque dipeso da una politica monetaria espansiva che, facendo crescere sia la spesa pubblica che i consumi privati, ha assicurato congrui sbocchi di mercato a livelli sempre più alti di investimenti. Gli Stati Uniti hanno sfruttato al meglio il ruolo del dollaro come moneta di riserva internazionale, insito nella loro posizione imperiale, stampando dollari su dollari per promuovere la loro potenza tecnologica e militare, e per sostenere la loro economia, senza affatto preoccuparsi dei loro deficit commerciali.
Questa analisi è del tutto precisa, ed è molto penetrante nel mostrare come il rallentato sviluppo economico e tecnologico europeo dipenda dalla politica monetaria restrittiva su cui è stata fondata la costruzione dell’Unione economica e monetaria, e da cui è derivata, nel periodo 1991-2001, la crescita lenta dei consumi (1,7% annuo contro il 3,4% americano), quindi degli investimenti (1,3% annuo contro il 4,7% americano), quindi del tasso di innovazione tecnica (0,8% annuo contro il 5,1% americano).
L’analisi rivela anche come la politica monetaria restrittiva imposta dagli eurocrati sia l’espressione della sostanziale subordinazione della costruzione dell’Europa alle esigenze dell’imperialismo americano. L’insufficiente domanda interna dirotta una parte consistente dei profitti europei dagli investimenti produttivi in Europa agli investimenti speculativi nella finanza mondiale e agli impieghi nell’economia americana. In questo modo l’afflusso di capitali europei negli Stati Uniti consente agli Stati Uniti di mantenere un altissimo deficit commerciale senza provocare una grave svalutazione della loro moneta, finanzia lo sviluppo economico e tecnologico americano, e diminuisce il peso commerciale europeo [4]. Dal marzo 2001 (e non, come si crede, dall’11 settembre successivo) l’economia mondiale entra in una nuova fase di crisi, e la crisi accentua le divaricazioni fin qui viste.
La conclusione che ne trae Ricci è la seguente: “L’Europa è ad un bivio decisivo. O rimette in discussione i fondamenti della sua politica economica, attraverso un rilancio della domanda interna innescato da interventi di redistribuzione del reddito, ed attraverso la ripresa di un massiccio intervento pubblico nell’economia, finalizzato alla riqualificazione dell’apparato industriale, o l’unica strada che le rimane da percorrere è quella della sua sudizzazione” [5].
Si tratta, a prima vista, di una conclusione ragionevole. Alla “sudizzazione” della società europea, consistente in una progressiva perdita di reddito e di diritti da parte del lavoro, e nella conseguente riduzione della dignità della persona umana e del rispetto per essa, viene contrapposto un ambizioso progetto “di sinistra” di redistribuzione del reddito a favore delle classi lavoratrici, e di rinnovato intervento dello Stato nella produzione economica e nell’erogazione dei servizi essenziali. Questo progetto risponde all’esigenza etica di porre fine ad infami condizioni di lavoro e di vita della fascia più sfortunata della popolazione europea, ma anche all’esigenza sociale di prevenire la diffusione del disordine pubblico, e, inoltre, alla stessa esigenza economica di un aumento della produttività del lavoro e del tasso di crescita del prodotto interno lordo. Soltanto una retribuzione del lavoro consistentemente maggiore dell’attuale, maggiorata assai più dell’incremento di produttività dell’ultimo periodo, ampliando gli sbocchi di mercato per la produzione industriale, farebbe aumentare gli investimenti produttivi a scapito di quelli speculativi, e quindi la produttività stessa. E soltanto un rinnovato intervento dello Stato nella produzione di beni e di servizi potrebbe accrescerne il contenuto tecnologico, favorendo lo sviluppo [6].
Cosa c’è di sbagliato in questa impostazione? Essa coglie un punto rimosso ed essenziale di verità: la forma attuale di capitalismo crea una sfasatura strutturale, cronologica e tecnologica, tra produzione e consumo, perché le potenze tecnologiche della produzione sono eccedenti rispetto alle capacità storiche di consumo, e perché i consumi, potendo essere comandati soltanto da redditi monetari, ed essendo quindi frenati dalla distribuzione sempre più inegualitaria del reddito, seguono a stento, nel tempo, le capacità  di offerta della produzione. Ma senza adeguati sbocchi di consumo, gli investimenti produttivi hanno una redditività decrescente, per cui declinano, facendo declinare le innovazioni di prodotto e il tasso di sviluppo.
L’insufficienza strutturale della domanda è insomma il problema dei problemi del capitalismo assoluto, che lo rende, oltre che più socialmente ingiusto, anche produttivamente più inefficiente del capitalismo keynesiano-fordista che lo ha preceduto. Gli studi di Todd hanno chiarito a fondo questo punto, riassumibile nella seguente considerazione: “nel neoliberismo l’aumento potenziale della produttività deve abbassarsi per adeguarsi al ritardo tendenziale della domanda”[7]. Ricci ne deriva, in apparenza molto conseguentemente, un progetto di ampliamento strutturale della domanda mediante una distribuzione più egualitaria del reddito, promossa da una politica “di sinistra” contro i comandi del neoliberismo, facendo leva sull’ampliamento della domanda per un rilancio degli investimenti, della produttività e dello sviluppo che consentirebbe all’economia di reggere i maggiori redditi da lavoro. Cosa c’è di sbagliato?
Il primo sbaglio, logico e storico, è quello di ritenere equivalenti l’affermazione che lo sviluppo è frenato dall’insufficienza della domanda e l’affermazione che lo sviluppo possa essere rilanciato da un ampliamento della domanda. Le due proposizioni sono in realtà diverse. La prima esprime il fatto che un ampliamento della domanda è condizione necessaria per lo sviluppo, la seconda afferma che esso è condizione sufficiente. Allo stesso modo, per capirci, dire che una lavatrice non può funzionare senza energia elettrica, non è la stessa cosa dell’affermare che sicuramente funzionerà se le viene fornita energia elettrica: se è bloccata da un cortocircuito, tutta l’energia elettrica che le possiamo erogare non la farà ripartire. Ma nella situazione attuale, appunto, un’erogazione aggiuntiva di domanda monetaria al meccanismo economico, se toglie l’ostacolo allo sviluppo rappresentato dalle strozzature per mancanza di domanda, fa però cortocircuitare il processo accumulativo. Nell’ambito sistemico del neoliberismo, infatti, le risorse erogate per aumentare la domanda monetaria sono necessariamente sottratte al sostegno diretto o indiretto al sistema delle imprese, per cui quanto più vengono ampliati gli sbocchi di mercato della produzione tanto più crescono i suoi costi, con una conseguente inflazione da costi che alla fine torna  a restringere quegli sbocchi. Ma c’è di peggio. In un contesto globalizzato, una politica locale di aumento della domanda, facendo aumentare i costi locali dell’offerta, fa in pratica aumentare la domanda non per la produzione locale, ma per quella estera, ed è quindi una politica impossibile da perseguire realmente. Un esempio da manuale di quanto veniamo dicendo è stata la politica neokeynesiana attuata in Francia subito dopo la vittoria di Mitterand nel 1981, che ha generato sia un allargamento della domanda che un aumento di costi dell’industria nazionale. Sono così aumentate le vendite delle industrie straniere, e di conseguenza si è avuta la svalutazione del franco, un ulteriore aumento di costi, e il blocco dello sviluppo.
Non si può, quindi, fuoriuscire dal neoliberismo a partire da un aumento della domanda, prodotto da una politica di redistribuzione del reddito, che rilanci lo sviluppo.
Pensare di poter rilanciare lo sviluppo attraverso l’allargamento della domanda corrisponde dunque ad un errore logico che non consente di capire che nel sistema neoliberista un allargamento della domanda fa collassare l’accumulazione e quindi lo sviluppo. Questo errore rinvia a sua volta ad un errore di prospettiva storica, cioè al non tenere conto di un passaggio storico già avvenuto. Storicamente, infatti, il capitalismo ha assunto la forma neoliberista proprio perché l’incremento della domanda non agiva più come propulsore dello sviluppo, e perché la sua nuova forma garantiva l’unico sviluppo possibile, uno sviluppo alimentato dalla continua compressione dei costi economici della produzione, con il suo inevitabile risvolto di un minore volume di reddito distribuito nella produzione, e quindi di una domanda costantemente frenata. Si tratta certo di uno sviluppo meno accentuato e più instabile di quello dell’epoca keynesiana, ma si tratta comunque dell’unico sviluppo possibile nelle condizioni date, dopo che la forma keynesiano-fordista del capitalismo aveva mostrato i suoi limiti.
Non c’è dunque modo di rilanciare lo sviluppo attraverso la domanda. Ma quand’anche ci fosse, sarebbe socialmente vantaggioso? No, e Ricci non se ne accorge perché non prende in considerazione l’ormai attuale ed evidente insostenibilità ecologica dello sviluppo.
Ricordiamo alcuni aspetti di questo problema, ormai risaputi: ogni crescita della produzione fa crescere non soltanto la quantità dei prodotti finiti, ma anche quella dell’energia consumata e dei rifiuti smaltiti; il crescente consumo di energia prodotta tramite combustione surriscalda il pianeta per effetto serra, con gravi danni per gli equilibri climatici su cui si regge l’attuale organizzazione della vita sul pianeta, e riempie l’atmosfera di gas dannosi per la salute; il crescente accumulo dei tipi più disparati di rifiuti inquina sempre più le falde acquifere ed i suoli, trasferendo sostanze nocive dai suoli alle piante, e dalle piante agli animali, rendendo sempre più pericolosa l’alimentazione umana. Lo sviluppo è oggi sviluppo di gas-serra, di inquinanti dell’atmosfera, di prodotti chimici aggressivi, di sostanze cancerogene e mutagene. Esso è ormai ambientalmente insostenibile.
La sinistra però, compresa quella cosiddetta radicale, come si vede dal libro di Ricci, mantiene ferma l’idea, che è propria simultaneamente della sua tradizione storica, della sua ideologia attuale e della cultura dominante del capitalismo assoluto, che il successo di un sistema economico si misuri sull’incremento del prodotto interno lordo, e coincida quindi con lo sviluppo. Tutta la critica alle politiche neoliberiste contenute nel libro di Ricci si basa sulla incapacità di queste politiche, per il loro carattere monetariamente restrittivo e socialmente inegualitario, di assicurare i livelli di domanda che sarebbero necessari per alimentate una adeguato sviluppo del prodotto interno lordo, e rendere così possibile una sua redistribuzione.
L’idea del prodotto interno lordo da far crescere con lo sviluppo è uno dei principi della sinistra che la cui accettazione rende insuperabile il neoliberismo. Solo rinunciando a tali principi, e quindi andando oltre la sinistra, si potrà pensare ad un superamento del neoliberismo.
Stiglitz, il capo economista della Banca Mondiale e consulente economico di Clinton che ad un certo punto ha aperto gli occhi sui danni che ha fatto, ha avuto una grande intuizione di verità quando ha detto che l’imperativo di crescita del prodotto interno lordo non è altro che una corsa continua ed affannosa per rimanere fermi [8]. E’ un dato di fatto che occorre, nel sistema economico vigente, una certa crescita percentuale del prodotto interno lordo, un certo ritmo di sviluppo, per mantenere gli stessi livelli di occupazione e le stesse retribuzioni del lavoro. Se il prodotto interno lordo resta costante, e addirittura anche se cresce, ma di poco, aumenta la disoccupazione e diminuiscono i salari.
Occorre dunque uscire da questa corsa socialmente folle ed ambientalmente insostenibile dello sviluppo, e capire, buttando via i pregiudizi antichi della sinistra e le sue nuove illusioni [9], che l’unica via di salvezza è una redistribuzione di risorse a prodotto interno lordo decrescente. Il prodotto interno lordo dovrebbe diminuire di anno in anno, insieme ad un mutamento continuo della sua composizione, che dovrebbe comprendere sempre meno beni superflui, di status e nocivi, e sempre più beni essenziali e di migliore qualità sociale. Come imboccare questa strada senza una impossibile rivoluzione, ed evitando che la caduta del prodotto interno lordo produca una catastrofica disoccupazione? Per capirlo dobbiamo affrontare altri temi, in primo luogo quello della competitività.


[1] A. Ricci, Oltre il liberismo, Fazi 2004.
[2] A.Ricci, cit., pagg.101-103.
[3] A.Ricci, cit., pag.104.
[4] Tra il 1991 e il 2001 la quota di partecipazione dell'Unione europea al commercio mondiale passa da circa il 35% a poco meno del 32%.
[5] A.Ricci, cit., pag.162.
[6] A.Ricci, cit., pag.234.
[7] E. Todd, L'illusione economica, Tropea 2004, pag. 163.
[8] J.Stiglitz, I ruggenti anni Novanta, Einaudi 2004, pag.179.
[9] Come l'araba fenice dello "sviluppo sostenibile": oggi è lo sviluppo come tale ad essere insostenibile.

4 commenti:

  1. Oh, my god!
    Decrescitista felice?

    Ma chi lo ha detto che nel prossimo futuro l' aumento del pil debba richiedere per forza maggiori risorse naturali? Ma soprattutto maggiore inquinamento e distruzione del territorio?
    Io credo addirittura che il pil, crescera' di piu' in quei paesi che utilizzeranno meno materie prime e risorse energetiche fossili , almeno per quanto riguarda i paesi a economia avanzata

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  2. Non c'è altra strada che uscire dalle produzioni di beni di consumo per privilegiare quella di produzioni per investimento. Aumentare l'efficienza energetica delle abitazioni è una tipica produzione per investimento, produrre un'auto che dopo 5 anni devi cambiare è una produzione per consumo. Un esempio banale.
    Assieme a queste politiche di riqualificazione delle produzioni, tese all'efficientamento delle risorse materiali ed energetiche, è necessario stabilire delle politiche di redistribuzione non solo dei redditi (il nostro coefficiente di GINI per i redditi è di 32), ma in particolar modo della ricchezza accumulata (il coefficiente di GINI in questo senso è di 69, ricordo a memoria avendone scritto nel nostro blog, vedi etichetta GINI). Un esempio è quello degli affitti: ritornare ad calmierare gli affitti delle abitazioni, che non devono essere utilizzate per scopi di produzione di redditto e quindi di rendita, aprirebbe spazi enormi per il sostegno alla piccola e media impresa, oltre che a tutte le attività artigianali e commerciali che sono in affitto, e alle famiglie che vengono salassate dai proprietari, rimettendo in circolo denaro sufficiente per altri scopi di spesa aumentando il potere di acquisto dei salari e degli stipendi. Chi possiede 15 case, spesso pagate dai locatori con i denari di chi le conduceva, deve o venderle oppure inquadrare l'affitto come un reddito utile alla reintegrazione e manutenzione dell'immobile, e non come una rendita. Ovvero, deve andare a cercarsi un lavoro.
    Ma la sinistra ci pare abbia smarrito la strada. Basterebbe essere solo fanfaniani...

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    1. Scusa, ma la spesa per aumentare l'efficienza energetica delle abitazioni non è una tipica spesa di investimento, è una molto specifica spesa per investimento (sarebbe spesa d'investimento anche la catena di montaggio di una nuova autovettura, no?)

      Faccio questa obiezione, perchè sono pervicacemente contrario intanto a farmi guidare dal PIL (ciò significa sia in aumento che in diminuzione), ma sono anche contrario alle spese classificate per gruppi (investimento, tu dicevi, Bagnai dice "in servizi", e cose di questo genere).
      A me pare che ogni tipo di spesa abbia degli elementi di specificità che non possono essere sottratti a una valutazione discrezionale da parte della politica.
      A partire da ciò, penso che sia possibile ridare la supremazia alla politica togliendola all'attuale dominio dell'economia.

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  3. Ciò che rende specifica una spesa, anzichè tipica, è una decisione politica? Va bene.

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