venerdì 5 luglio 2013

La sinistra rivelata/4

Continuo la pubblicazione del capitolo 2 de "La sinistra rivelata".
(M.B.)


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Sinistra e competitività.
Su “La Repubblica” del 16 marzo 2005 è  comparsa una vignetta di Bucchi in cui si vede un uomo che prega il suo dio e che conclude la sua preghiera dicendo “e rendi competitivi me e la mia famiglia”. C’è più verità in questa sola vignetta che in tanti degli articoli che compaiono quotidianamente sulla stampa. La verità che essa manifesta è che la competitività universale come principio regolativo della vita sociale è oggi il postulato comunemente condiviso di ogni giudizio e di ogni interpretazione delle vicende del nostro tempo. Sindacati operai e organizzazioni padronali concordano nella richiesta di “più competitività del sistema”, destra e sinistra si rimproverano reciprocamente di non promuovere abbastanza la competitività. Nessuna epoca ha avuto un postulato o un mito insieme così poco intelligente e così dannoso. La competitività, infatti, può effettivamente migliorare le prestazioni in qualche campo particolare [1], ma in tutti gli altri risulta generatrice di inefficienza, di danno sociale, di corruzione morale, di umiliazione del merito vero, di ascesa degli incapaci ai posti di comando, e anche di ridicolo. L’accecamento mentale prodotto dall’ideologia neoliberista rende sorprendenti queste ovvietà, perché un ossessivo imbonimento dei cervelli fa credere che la logica della competizione faccia emergere i più capaci, selezioni le competenze, promuova l’efficienza. E’ facile rendersi conto che queste affermazioni sono false: l’agricoltura competitiva è quella che droga e avvelena i suoli con fertilizzanti chimici e pesticidi; l’allevamento competitivo è quello che produce carni gonfiate, prive di sapore, piene di antibiotici; i trasporti competitivi sono quelli che riducono il personale, la manutenzione e quindi la sicurezza del servizio; le banche competitive sono quelle che licenziano impiegati e rifilano titoli spazzatura ai propri clienti; la medicina competitiva è quella che rifiuta di far arrivare i farmaci salvavita agli ammalati dei paesi poveri; le scuole competitive sono quelle dove si moltiplicano le attività di pura immagine e non si insegna più nulla di organico.

La competitività del sistema economico è l’obiettivo presupposto dalla sinistra in ogni aspetto del suo orientamento riguardo all’economia, ed una delle più severe critiche che la sinistra ha rivolto alla destra quando questa era al governo era di non impegnarsi a promuovere la competitività dell’azienda-Italia. E’ interessante, a questo proposito, un fondo di Eugenio Scalfari:

“Siamo scesi al quarantacinquesimo posto nella classifica mondiale della competitività e continuiamo anno dopo anno a perdere terreno senza che finora i governi succedutisi a partire dai primi anni Novanta abbiano affrontato il problema in termini seri e responsabili. Quello al potere dal 2001 ha addirittura imboccato una strada opposta a quella necessaria per ridare fiato alle imprese: ha preferito mortificare la domanda interna di consumi e di investimenti per concentrare le risorse disponibili nella riduzione della fiscalità sui redditi medio-alti (…). Per accrescere la competitività bisogna realizzare obiettivi precisi e chiari: 1. Aumentare il prodotto dell’ora lavorata. 2. Diminuire il costo dell’ora lavorata. 3. Diminuire il costo del lavoro. 4. Diminuire la fiscalità sul lavoro e sulle imprese. 5. Creare un vero sistema di ricerca applicata e un vero sistema di formazione della qualificazione al lavoro, che devono vedere coinvolti le imprese, i sindacati, la scuola, l’università. 6. Far crescere la dimensione delle aziende. 7. Innovare non solo i processi di produzione ma la natura dei prodotti da offrire sul mercato” [2]

 Seguono altri due punti sulla creazione di centri di eccellenza di dimensione europea e sulla liberalizzazione degli ordini professionali.
Abbiamo citato per esteso la parte propositiva dell’intervento di Scalfari, perché da un lato rappresenta un progetto organico e meditato in funzione della competitività, e dall’altro mostra, se ci si riflette sul serio, come la corsa incessante per mantenere oppure, come nel caso dell’Italia, per ristabilire la competitività di un sistema economico, sia una corsa del tutto insensata.
Promuovere la competitività delle imprese significa in primo luogo, nella situazione attuale, convogliare enormi risorse per il loro sostegno. Questo punto, che nel libro di Ricci rimane oscurato, è invece ben chiaro a Scalfari. Scalfari ha ragione: per diventare più competitive, le imprese italiane dovrebbero crescere di dimensioni e passare dalle innovazioni di processo alle innovazioni di prodotto, e per essere messe in condizione di investire tutto il danaro necessario alla crescita dimensionale e all’innovazione di prodotto dovrebbero essere notevolmente alleggerite di costi. Per alleggerire i costi delle imprese lo Stato non può fare altro che defiscalizzarne gli utili e fiscalizzarne i contributi. Coerentemente, quindi, nel seguito del suo articolo Scalfari propone di accollare alla fiscalità generale la contribuzione previdenziale, e di sottrarle l’intero gettito dell’Irap, che andrebbe abolita. Provvedimenti simili sono in effetti necessari per il rilancio della competitività, e sono anzi intrinsecamente validi [3], ma proprio la loro necessità mette in luce, senza che Scalfari se ne renda conto, l’inevitabile strozzatura della domanda nel sistema neoliberistico. L’abolizione dell’Irap e la fiscalizzazione della previdenza presuppongono infatti, nell’ambito sistemico che Scalfari accetta (equilibri di bilancio, parametri europei etc.) nuove, enormi entrate fiscali, il cui effetto deprimente sulla domanda complessiva nel paese non sarebbe certo compensato dal passaggio nel salario dei contributi a carico dei lavoratori, anche perché la retribuzione oraria dovrebbe diminuire. Né le esportazioni possono surrogare la debolezza della domanda interna, non soltanto perché il regime neoliberistico vigente su scala mondiale indebolisce la domanda dappertutto fuorché negli Stati Uniti, ma anche, e soprattutto, perché lo sfruttamento della domanda estera presuppone comunque investimenti che non possono nascere che da un mercato interno in espansione.
In una situazione di domanda declinante le imprese non investono sulla crescita dimensionale e sull’innovazione di prodotto. Questo Scalfari sembra non saperlo [4], anche perché si tratta di una considerazione che fa crollare tutta la sua costruzione: i provvedimenti che sarebbero indispensabili per rilanciare la competitività eliminano un presupposto necessario della competitività stessa. Il punto, qui, non sta nel fatto che Scalfari non è abbastanza bravo per trovare la soluzione al problema della competitività, è che la soluzione per l’Italia non esiste: una struttura produttiva come quella italiana, una volta privata dell’apporto della grande industria pubblica (che comunque esigerebbe risorse sottratte alla domanda), e simultaneamente sottoposta alle regole monetarie restrittive dell’Unione europea, perde necessariamente di competitività.
Naturalmente l’inesistenza di un rimedio alla perdita della competitività economica italiana è universalmente rimossa (Scalfari è in affollatissima compagnia) perché l’imperativo di essere il più possibile competitivi è il postulato di base della mentalità plasmata dal neoliberismo. Persino un commentatore economico di spessore superiore alla media come quello che si firma su “Il manifesto” con lo pseudonimo di Galapagos, individuando, come Scalfari, e con la sola differenza di qualche considerazione generale più “di sinistra”, la risposta alla perdita di competitività in “politiche di sostegno dell’offerta per rilanciare la produzione su basi innovative”[5], per non vedere che questa non è in realtà una risposta, perché le risorse destinate al sostegno dell’offerta prosciugherebbero la domanda e lascerebbero quindi senza sbocco l’offerta, arriva a dirsi che in Italia non esiste un problema di debolezza del consumo, al punto che sarebbero addirittura inutili politiche keynesiane di sostegno alla domanda. La prova starebbe nelle vendite, superiori alla media europea, di automobili e di telefonini, in prevalenza, però, di marche straniere. Se dunque ci fosse un’offerta italiana competitiva di automobili e di telefonini, la domanda che le darebbe uno sbocco sarebbe già pronta, senza bisogno di politiche keynesiane. Quando si fanno discorsi simili, si dimentica che la crescente povertà culturale italiana induce schiere di persone a bassi e bassissimi redditi a comprarsi il telefonino anche a costo di privarsi di beni molto più importanti, e che quindi ad una domanda anormalmente alta di telefonini corrisponde una debolezza di consumo in un’ampia gamma di altri prodotti. Poiché il settore della telefonia mobile  non è l’intero sistema economico, le sue particolarità non possono servire a comprovare un’interpretazione generale. Quanto al settore automobilistico, vi sono stati specifici e gravi errori imprenditoriali della dirigenza FIAT, non riconducibili al problema generale della competitività, ed inoltre le vendite annuali di automobili, benché più sostenute in Italia che in altri paesi, sono comunque vendite da mercato saturo, in cui il nuovo prodotto è acquistato soltanto per sostituire un prodotto simile già posseduto, e in cui la domanda complessiva non è mai adeguata alle potenzialità dell’offerta, tanto è vero che i crolli delle case automobilistiche sono stati numerosi in tutto il mondo. Immaginare un rilancio della produttività senza sapere come eliminare il deficit strutturale di domanda, e anzi dimenticandolo o negandolo, è pura illusione.
Il peso dell’insufficienza della domanda sul declino della competitività è invece ben chiaro a Ricci. Nel suo libro, egli analizza le diverse componenti della domanda della produzione italiana, mettendole a confronto con la situazione generale esistente nell’Unione europea, sulla base dei dati statistici disponibili per il decennio apertosi nel 1991. Rileva così che, riguardo ad alcune componenti, la domanda di cui può disporre la produzione italiana non si discosta dalla media europea, che è tuttavia, come già si è visto nel paragrafo precedente, notevolmente inferiore a quella americana.
La domanda di beni di investimento, ad esempio, nel periodo considerato è cresciuta ad un tasso annuo dell’1,3%, identico a quello medio europeo. La domanda privata di beni di consumo è cresciuta mediamente dell’1,5%, non molto meno, dunque, dell’1,7% della media europea [6].
Le componenti più gravemente deficitarie, anche rispetto alle medie europee, della domanda per l’economia italiana risultano essere, dalle statistiche, la domanda proveniente dalle esportazioni e quella indotta dalla spesa pubblica. Se la grave insufficienza della prima è effetto della perdita di competitività (non soltanto, ma soprattutto), quella della seconda ne è la causa primaria. Lo smantellamento, con le privatizzazioni, delle grandi industrie pubbliche, in particolare, ha colpito a morte la competitività dell’economia italiana [7].
Il rilancio della competitività, allora, non può avvenire, secondo l’autore, senza un consistente aumento della spesa pubblica e senza la ricostituzione di efficaci strumenti di intervento pubblico nella dinamica economica. Su questo punto Ricci ha ragione da vendere. Egli non sembra rendersi conto, però, che nel quadro dell’economia mondiale del capitalismo globalizzato la competitività dell’impresa è in larga misura creata dal supporto statale in molteplici ambiti, dalle agevolazioni fiscali alle reti di trasporto, dalle facilitazioni commerciali alle semplificazioni burocratiche, dalle forniture energetiche alle telecomunicazioni, e che questo supporto risulta finanziariamente divorante [8], al punto da impedire interventi statali di altro genere e una spesa pubblica finalizzata all’allargamento della domanda.
Una maggiore competitività, in conclusione, potrebbe venire promossa solo da un massiccio e simultaneo sostegno pubblico sia dell’offerta che della domanda, che è però insostenibile sul piano economico e finanziario. Ogni massiccio sostegno dell’offerta deprime la domanda, ed ogni allargamento della domanda comprime le capacità di offerta. Ciò significa che non esiste oggi, nel quadro mondiale strutturato dal neoliberismo, una politica statale che dia ad un sistema economico una competitività che esso non abbia autonomamente generato nelle dinamiche insite nei suoi rapporti di forza con l’economia mondiale.
L’idea che la competitività economica sia un obiettivo irrinunciabile delle istituzioni pubbliche è uno dei più dannosi postulati della sinistra. Si tratta di un postulato dannoso in primo luogo perché mobilita l’attività collettiva in vista di un obiettivo irrealizzabile. In secondo luogo perché le varie innovazioni promosse “per essere più competitivi”, mentre non hanno alcun effetto sulla competitività reale della produzione economica (a meno che per “più competitività” non si intenda surrettiziamente la possibilità di fare maggiori profitti), hanno invece effetti devastanti sulla vita civile. Nelle aziende e negli uffici il personale “competitivo” è litigioso e stressato. Nei rapporti di lavoro le regole “competitive” significano contratti individuali e differenze arbitrarie di retribuzione. La trasformazione dei servizi pubblici in prestazioni aziendalmente competitive vuol dire, nei fatti, che gli utenti pagano di più e ricevono di meno. Quando poi si pretende di inoculare la competitività nei mondi della cultura e dell’istruzione, che le sono per natura refrattari, si distrugge semplicemente la cultura e l’istruzione. In terzo luogo dal postulato della competitività deriva quella spinta insensata dell’economia all’aumento continuo del prodotto interno lordo di cui si è detto nel precedente paragrafo, quella corsa affannosa per rimanere fermi di cui parla Stiglitz, insomma lo sviluppo distruttore.
La ricerca della competitività dovrebbe essere considerata il marchio di ottusità di chi la assume. Ci occorre meno competitività e più solidarietà. Un mondo in cui l’affermazione personale e addirittura la sopravvivenza esigono di essere più competitivi è un mondo di rovine, perché, ovviamente, non è possibile che tutti siano più competitivi di tutti. Quello della competitività è necessariamente un giuoco a somma negativa, in cui, inoltre, pochi vincono e molti perdono. La sinistra cerca la “buona” competitività, e i modi più efficaci per raggiungerla. Chi cerca invece solidarietà e rispetto della dignità di ogni essere umano, deve evidentemente abbandonare la sinistra.
Rimane però un’obiezione sensata al rifiuto della competitività: essa è imposta dal mercato internazionale, che, quando viene a contatto con imprese irrimediabilmente non competitive, le distrugge. Con la riunificazione della Germania, ad esempio, la sua parte orientale è stata deindustrializzata dalla maggiore competitività dell’industria occidentale. Così, come la categoria di prodotto interno lordo da accrescere ci ha rinviato a quella di competitività da promuovere, questa ci rinvia al mercato internazionale.


[1] sport, esplorazioni, alcuni settori dell’economia, alcune professioni, e anche qui non senza grossi rischi, ove la competitività non sia convenientemente regolata e limitata: si pensi solo alla diffusione delle sostanze dopanti nello sport.
[2] E. Scalfari “In viaggio sul treno più lento del mondo”, La Repubblica, 13-03-2005, articolo di fondo.
[3] La previdenza affidata ai contributi è nella realtà odierna a rischio, e l’Irap penalizza proprio le imprese che non dovrebbero essere penalizzate, quelle cioè a bassa capitalizzazione o indebitate.
[4] Su questo punto è Ricci a comprendere meglio le cose.
[5] Galapagos, “Un paese povero”, Il Manifesto, 11 marzo 2005, articolo di fondo.
[6] A. Ricci, Dopo il liberismo, cit., pag.183.
[7] A. Ricci, Dopo il liberismo, cit., pag. 192-196, dove gli effetti deprimenti e distorsivi della liquidazione dell’industria pubblica sulla nostra economia sono magistralmente rivelati, evitando pudicamente di sottolineare il ruolo preminente della sinistra, e del suo attuale capo di governo Prodi, nell’opera.
[8] Si vede da qui quanto sia improprio definire l’attuale sistema di competizione commerciale come liberismo, con un termine, cioè, nato per indicare il non-intervento statale nell’economia. E’ uno de motivi per i quali preferiamo l’espressione “capitalismo assoluto”.

 

2 commenti:

  1. Come sempre, c’è tanto da commentare. Per essere sintetici intanto, cominciamo con una citazione di Nino Galloni che dice che la globalizzazione ha fatto vincere le imprese peggiori, non quelle migliori. Quelle, tanto per intenderci, che non rispettano i diritti dei lavoratori e l’ambiente. Questa è la competitività che questo modello ci propone.
    Nella divisione internazionale del lavoro, la Germania vuole garantirsi la produzione ad alto valore aggiunto, che le permette di mantenere relativamente alto il costo del lavoro. Come sappiamo, non è sempre così e i 7 milioni di lavoratori tedeschi a 400 euro al mese lo dimostrano. Ma l’intento è quello di garantirsi la fetta maggiore e lasciare ai paesi PIGS quello a minore valore aggiunto. Che, in queste condizioni, sono sostenibili (teoricamente) solo abbassando drasticamente il costo del lavoro. È chiaramente una trappola. La strategia “Supply Side” è insostenibile e destinata ad accrescere la recessione, su questo non c’è dubbio.
    Per Marx, il progresso tecnico non è neutro. È sempre molto condizionato dalla ricerca della “competitività” intesa come lotta di classe, come strumento per “estrarre” più valore dai lavoratori. Quando si parla di “sinistra” o di “sinistra rivelata”, bisogna anche chiedersi di quale sinistra si parla. Certo, definire Scalfari di sinistra non può che essere considerato un azzardo. Certo Galapagos (Roberto Tesi) può essere inserito nel campo della sinistra. Ma qui si apre un discorso più ampio. In una società socialista, la produttività del lavoro può consentire di avere abbondanza e di lavorare molto meno. Anche di rispettare l’ambiente. In un contesto completamente diverso invece, le conseguenze non possono che essere quelle descritte.

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  2. Condivido totalmente l'articolo di Badiale.
    Volevo soltanto aggiungere che la compettitività è per l'umanità una brutta bestia, con cui non si può mai smettere di fare i conti.
    Ciò che possiamo fare, ed è infatti ciò che l'articolo fa, è connotarne le caratteristiche negative che in ambito politico purtroppo travalicano l'aspetto più propriamente economico. Parlare della competitività in campo economico è appunto demistificare l'ideologia liberale ed il connesso sistema economico di tipo capitalistico, scontando il fatto che si tratta di una guerra di logoramento perchè lotta contro lo sfruttamento ideologico di una caratteristica istintuale della nostra specie, come tale ineliminabile, ma che può essere soltanto contenuta e controllata.

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