mercoledì 24 luglio 2013

La sinistra rivelata/5

Con questo post concludo la pubblicazione del capitolo 2 de "La sinistra rivelata". Ricordo che il testo risale al 2007, e che è stato scritto da Massimo Bontempelli e da me.
 Fra pochi giorni, il 31 luglio, saranno due anni che Massimo è mancato. Dopo due anni, ancora non riesco a trovare le parole per spiegare, a chi non l'ha conosciuto, cosa abbia significato, per me e tanti altri, l'incontro con un uomo così eccezionale. Come potesse cambiarti la vita, come potesse aprire la mente e l'anima di chi sceglieva di accogliere quello che aveva da dare. Per questa mia difficoltà, che spero in futuro di superare, ho rinunciato a scrivere qualcosa di più articolato di queste semplici righe. L'unica cosa che riesco a fare, in questo momento, è cercare di allargare la conoscenza delle cose che ha scritto, come appunto i vari testi che ho ripubblicato in questo blog.
(M.B.)


Alla parte precedente


La crisi dello sviluppo come opportunità
Lo sviluppo, cioè l’accumulazione su scala sempre più larga del plusvalore attraverso la crescita ininterrotta del prodotto interno lordo sospinta dalla competizione economica tra le imprese, è in crisi nel mondo. Tale crisi non deriva certo dal fatto che lo sviluppo sommerge il mondo di rifiuti, ne scardina gli equilibri ecologici e ne altera il clima: l’economia odierna è infatti regolata soltanto delle prospettive di profitto a breve termine, che non sono toccate dalle devastazioni biologiche
e antropologiche, e neppure da danni rovinosi sul terreno stesso dell’economia, se essi sono lontani nel futuro. Lo sviluppo è in crisi perché esso produce ormai le condizioni di un suo continuo rallentamento, e le più aspre contraddizioni tra i suoi elementi.
A prima vista, questo quadro può sembrare non conforme alla situazione di fatto. La Cina, che rappresenta un quarto della popolazione mondiale, mantiene da anni un tasso di sviluppo attorno all’8% annuo, che è davvero molto alto. Gli Stati Uniti d’America, il paese di maggior peso nel mondo, hanno avuto nell’età clintoniana un tasso di sviluppo medio del 3,5%, che è ragguardevole [1]. Dopo il forte rallentamento da marzo 2001 al dicembre 2003, lo sviluppo americano ha ripreso slancio. Basta, dunque, per parlare di una crisi dello sviluppo, il fatto che il suo tasso sia inchiodato al 2% in Europa e in America Latina (lo sviluppo praticamente azzerato dell’Africa subsahariana non fa testo, perché quel continente è disertato dagli investitori internazionali)? Oltretutto, anche in queste zone di basso sviluppo vi sono eccezioni: in Europa, ad esempio, l’Irlanda sta da anni mantenendo un ritmo di sviluppo annuo del 6%.
Se però cerchiamo di comprendere ciò che accade al di sotto della superficie dei fenomeni, la crisi dello sviluppo risulta chiara nonostante questi dati. Innanzitutto, se si passa da questi dati frammentati a quelli complessivi dell’intera popolazione mondiale, emerge senza incertezze un progressivo rallentamento dello sviluppo complessivo concomitante alla diffusione del neoliberismo [2]. Per quanto riguarda lo sviluppo prodigioso della Cina, esso risulta meno prodigioso quando si viene a sapere che contabilizza gli incrementi della produzione di merci dell’intero paese ma non i decrementi dei prodotti di sussistenza fuori mercato assai notevoli nella Cina contadina interna. Lo sviluppo della Cina riguarda quindi essenzialmente la Cina marittima, non tutta la Cina con la sua quarta parte della popolazione mondiale.
Soprattutto, poi, è uno sviluppo che ha in se stesso le ragioni di un futuro suo rallentamento in tempi non lunghi [3]. Senza contare che già, così com’è, lo sviluppo della Cina non fa alzare di molto lo sviluppo complessivo mondiale, perché da un lato lo incrementa con i suoi incrementi di prodotto, ma da un altro lo frena con le sue esportazioni che riducono spazi di mercato per altri, e con le sue domande energetiche che rialzano il costo dell’uso di energia della produzione mondiale. Per
quanto riguarda lo sviluppo degli Stati Uniti, si tratta ormai di uno sviluppo parassitario, il cui parassitismo, sostenuto da una potenza militare e politica prevalente su ogni altro paese, consiste nel fatto che la sua condizione è il rallentamento dello sviluppo di altre aree del mondo, e cioè dell’Europa, dell’America Latina e dell’Asia orientale. La politica monetaria costantemente restrittiva della Banca centrale europea, sulla base dei famosi parametri di Maastricht, rallentando
lo sviluppo europeo con una domanda interna insufficiente ad alimentarlo, è la condizione dello sviluppo americano. Una maggiore circolazione monetaria in Europa, se da un lato promuoverebbe lo sviluppo dell’Europa stessa, dall’altro ne svaluterebbe la moneta rispetto al dollaro, facendo collassare l’economia americana sotto il peso del suo gigantesco deficit commerciale con l’estero. Proviamo a capire meglio.

Lo sviluppo dell’economia americana, certamente notevole, non dipende affatto, al contrario di quanto comunemente si crede, dalla forza e dalla competitività del suo sistema industriale. Le sole industrie americane tecnologicamente all’avanguardia nel mondo sono quelle operanti nei diversi settori della sfera militare, nell’informatica e nelle telecomunicazioni, che sono bensì economicamente importanti, ma niente affatto decisive come si crede per l’economia. Lo sviluppo
dell’economia americana dipende invece dalla forte domanda interna, dovuta a sua volta alla maggiore propensione culturale degli americani al consumo e all’indebitamento per il consumo rispetto ad altri popoli, al consistente e continuo flusso di immigrazione da cui risulta allargata la domanda di case e di beni durevoli per la casa, e ad una spesa pubblica maggiore di quella europea in termini non solo assoluti ma anche percentuali, che, seppur diretta non alla protezione sociale ma agli armamenti ed ai mezzi di repressione interna ed esterna, alimenta la domanda con le retribuzioni che paga. Poiché la base industriale americana è nel suo complesso meno competitiva di quella di molti altri paesi, la domanda interna che alimenta lo sviluppo alimenta anche una crescita, maggiore di quella del prodotto interno lordo, dell’eccedenza delle importazioni sulle esportazioni. Ci informa Todd: ”Il numero di paesi con i quali la superpotenza americana  ha un deficit commerciale è impressionante. Per l’anno 2001 contiamo 83 miliardi di dollari di disavanzo con la Cina, 68 miliardi di disavanzo con l’Unione europea, dei quali 39 con la Germania, 13 con l’Italia, 10 con la Francia, 60 miliardi di disavanzo con il Giappone, 30 miliardi di disavanzo con l’India, 15 miliardi di disavanzo con il Brasile, 13 miliardi di disavanzo con la Corea” [4]. Ogni anno, dunque, un flusso enorme di dollari fuoriesce dagli Stati Uniti verso il resto del mondo, e, se non ne deriva la polverizzazione del valore del dollaro e la mancanza di investimenti per lo sviluppo americano, ciò dipende sia dal ruolo del dollaro come moneta imperiale, che non è presentata all’incasso nella stessa misura delle altre monete, ma rimane in larga misura giacente nelle casse delle banche e degli istituti finanziari in quanto moneta di riserva internazionale, sia dalle politiche monetarie restrittive delle province dell’Impero, a fronte di quella iperespansiva del centro. L’Europa di Maastricht, tenendo ristretti il credito e la domanda, e sacrificando così lo sviluppo produttivo, ha tenuto alto rispetto al dollaro il valore della sua moneta, consentendo così all’industria americana un certo livello di esportazioni che non avrebbe altrimenti raggiunto, ed ha dirottato i suoi investimenti dalla produzione
alla finanza, favorendo così investimenti finanziari europei nel più redditizio mercato americano. In tal modo i dollari che escono dagli Stati Uniti sotto forma di saldi commerciali passivi vi rientrano, persino maggiorati, sotto forma di investimenti finanziari in attività, azioni ed obbligazioni, garantendo all’economia americana, pur in presenza di un enorme e crescente deficit commerciale, equilibrio monetario e finanziamento degli investimenti nello sviluppo [5].
Tutto quello che abbiamo fin qui detto conferma proprio che c’è una crisi mondiale dello sviluppo. L’economia americana continua bensì a svilupparsi, ma meno che nell’epoca keynesiana-fordista, ed attraverso una spesa pubblica abnorme resa possibile da una imposizione imperiale. Lo sviluppo dell’economia americana non ha perciò un proprio interno motore, ma lo finanziamo noi europei (insieme ai giapponesi e ai cinesi), a detrimento del nostro sviluppo. Se non lo finanziassimo, d’altra parte, il nostro sviluppo addirittura si fermerebbe, per il collasso della domanda americana, la più grande domanda del mondo, che assicura sbocchi indispensabili di mercato alle produzioni di tutto il mondo, proprio perché l’economia americana può tollerare, nella situazione esistente, deficit commerciali giganteschi.
La crisi dello sviluppo è universalmente considerata un male, a destra come a sinistra, dalla sinistra moderata come da quella radicale, dai capitalisti come dai sindacati dei lavoratori, perché riduce gli affari, le opere, le retribuzioni e soprattutto l’occupazione, e, nell’ottica della sinistra radicale, perché riduce, oltre che l’occupazione, la spesa sociale, i servizi, le possibilità redistributive.
Poiché non si comprende la natura della crisi dello sviluppo, le si contrappone soltanto una marea di banalità. Si dice che per superare la mancanza di sviluppo ci vogliono investimenti per lo sviluppo, senza vedere che quegli investimenti sono lo sviluppo e mancano appunto perché manca lo sviluppo: invocarli per evitare la mancanza di sviluppo ha la stessa logica che dire che per evitare di morire occorre rimanere vivi. Si dice che per rilanciare lo sviluppo occorre comprimere il  costo
del lavoro, e poi gli stessi che lo dicono lamentano che i consumi sono inferiori a quanto sarebbe necessario per lo sviluppo: la logica è la stessa che ridurre al proprio figlio la paghetta per le sue spese personali, e poi lamentarsi perché non si compra più libri da leggere. La sinistra cosiddetta radicale in genere non indulge in simili vuotaggini. Capisce infatti il ruolo della domanda per lo sviluppo, e propone quindi il superamento della politica monetaria restrittiva di Maastricht, e l’aumento generalizzato dei redditi da lavoro. Pensa così, però, che l’Europa possa autonomizzarsi dagli Stati Uniti e promuovere autonomamente il proprio sviluppo, e non si rende quindi conto che, senza il mercato di sbocco costituito dalla elevata domanda americana di importazioni, garantita proprio dalla politica restrittiva europea, lo sviluppo dell’Europa si fermerebbe. Inoltre, uno sviluppo europeo che contrastasse l’afflusso di capitali europei verso gli Stati Uniti si porrebbe in diretto contrasto con la struttura economica statunitense, e dovrebbe quindi prevedere un grado di conflittualità altissimo fra Europa e Stati Uniti, situazione che nessuna forza politica europea sembra oggi preparata ad affrontare.
La crisi dello sviluppo è ancora più grave in Italia, la cui economia ha praticamente cessato di crescere dal 2001, al punto da conoscere in certi momenti addirittura una flessione del prodotto interno lordo, e da mantenere attualmente un tasso di crescita dell’1%, inferiore al già basso livello medio europeo del 2%, e di livello quasi africano. C’è anche una descrizione condivisa da molti analisti degli aspetti del mancato sviluppo italiano. Si osserva, prima di tutto, come i dati statistici
segnalino sotto tutti gli aspetti dello sviluppo tassi di crescita italiani inferiori a quelli medi europei, già molto più bassi di quelli americani. Dal 1991 al 2001 la domanda interna italiana cresce ad una media annua dell’1,5% a fronte dell’1,7% europeo; la produzione industriale dello 0,8% a fronte dell’1,6% europeo; il progresso tecnico dello 0,6% a fronte dello 0,8% europeo; la partecipazione dell’economia italiana al commercio mondiale si riduce in dieci anni complessivamente del
25%, contro una riduzione media europea del 9% [6]. Si tratta di dati considerati da tutti gli osservatori come catastrofici, tanto più che sono ulteriormente peggiorati, discostandosi ancora più verso il basso da una media europea pur essa stessa declinante, dopo il 2004. Si osserva, poi, come questi dati dipendano da un lato dall’insufficienza della domanda a sostenere lo sviluppo della produzione, a causa di una spesa pubblica complessiva più bassa di quella europea, e dall’altro
dall’insufficienza stessa dell’offerta produttiva, dovuta al sotto-dimensionamento delle aziende italiane rispetto a quelle europee e al loro conseguente scarso impegno nella ricerca e nell’innovazione di prodotto [7]. Il risultato è che la produzione italiana è diventata sempre più debole ed addirittura assente nei settori ad alta intensità tecnologica (computeristica, elettronica, telecomunicazioni, trasporti aerei e marittimi, metallurgia, petrolchimica, biotecnologie), e si è concentrata invece nei settori protagonisti del miracolo italiano degli anni Cinquanta e Sessanta, vale a dire, per fare qualche esempio, quelli degli elettrodomestici (frigoriferi, lavatrici, tostapane, ventilatori), dei tessuti, dell’abbigliamento, delle calzature, dei mobili, dei lavandini, delle piastrelle, delle cucine, delle vasche da bagno e delle caldaie, dei materassi e dei piumoni. Le merci di questi settori, incorporando poca tecnologia, sono facilmente riproducibili in molti paesi, per cui subiscono una concorrenza sempre più diffusa sul mercato mondiale, di cui perciò perdono quote rilevanti, anche nelle regioni italiane.
Nell’ambito della cultura di sinistra la deindustrializzazione del paese e il declino del suo sviluppo sono le massime sciagure, perché l’occupazione lavorativa, i redditi operai, gli affari dei commercianti e la stessa identità culturale di un territorio non si possono difendere se non mantenendovi l’industria che storicamente ne organizza il tessuto produttivo, come la fabbrica automobilistica in Piemonte, la cantieristica in Liguria, la conceria in Valdarno, l’oreficeria nel casentino, la tessitura in Veneto, la cartiera nelle Marche, e perché le prospettive di maggiore benessere popolare e di progresso sociale dipendono dallo sviluppo.
Questa cultura, finchè è mantenuta, incatena le menti e la società a situazioni socialmente dannose, all’inarrestabilità della rovina ecologica, al perseguimento di obiettivi del tutto illusori di soluzione dei problemi. Bisogna perciò lasciarci alle spalle la cultura della sinistra, di tutto quanto lo spettro delle diverse sinistre. Come si fa? Cominciando col dire quello che la sinistra sembra incapace di dire e di pensare: non la crisi dello sviluppo, ma lo sviluppo come tale è una sciagura, mentre la crisi dello sviluppo è un momento pericoloso che apre però una nuova opportunità per gli esseri umani. Se infatti lo sviluppo è ecologicamente insostenibile, il fatto che abbia ora elementi interni che lo frenano, e che non sia rilanciabile se non illusoriamente con mezzi di politica economica, crea
l’opportunità di considerare le compatibilità ecologiche dell’economia.
Stiamo all’Italia. Le industrie maggiormente promotrici di sviluppo, come quella petrolchimica e quella nucleare, quella della telefonia mobile e quella delle biotecnologie, non le abbiamo quasi più. Invece di lamentare gli svantaggi di questa perdita, e cercare di colmarla, come fa la sinistra, dovremmo imparare, andando oltre la sinistra, a vederne i potenziali vantaggi, riassumibili nella possibilità di avere un’industria meno rovinosa per il nostro ambiente  e per la nostra salute.
Guardiamo al tipo di industrie funzionanti che ci sono rimaste, e che abbiamo prima elencato. Non sono certo prive di dannosità ambientale, ma i danni che fanno sono minori di quelli delle industrie a più alto contenuto tecnologico, sono danni che potrebbero venire ulteriormente ridotti, anche se non eliminati, e inoltre, cosa molto importante, si tratta di industrie che producono in genere beni realmente utili alla nostra popolazione. Dovremmo quindi puntare a tenerci proprio le industrie
che abbiamo e che non ci danno sviluppo, e aiutarle a sottrarsi agli urti distruttivi del mercato internazionale. Il fatto che la nostra produzione industriale sia cresciuta appena dello 0,8% medio annuo dal 1991 al 2001, ed abbia cessato di crescere dopo quella data, ci offre un’altra opportunità, l’opportunità di far coincidere l’economia un po’ meno con l’industria e un po’ di più con i servizi e con la valorizzazione del patrimonio artistico e culturale.
Dobbiamo puntare, semplicemente perché è l’unica alternativa che ci è rimasta alla catastrofe ecologica e antropologica, a fermare lo sviluppo e a dare avvio ad un percorso inverso di graduale riduzione del prodotto interno lordo. Dobbiamo cominciare a farlo anche da noi soli in Italia, dove le opportunità sono maggiori, proprio in virtù della nostra crisi più grave.
Abbandonare la via dello sviluppo, però, pone il problema dei danni che automaticamente fa l’attuale meccanismo economico privato dello sviluppo. Senza sviluppo diminuiscono i redditi da lavoro. Diminuisce quindi la domanda interna, procurando minori guadagni a coloro che vivono di commercio. Aumenta la disoccupazione. La spesa pubblica dovrebbe aumentare per ammortizzare questi danni sociali, ma, anche se rimanesse costante, a prodotto lordo decrescente scatenerebbe l’inflazione.
Per affrontare queste gravi emergenze sarebbe indispensabile ripristinare elementi istituzionali presenti e funzionanti nel nostro paese fino agli anni Settanta compresi, e poi travolti dalla successiva barbarica ondata di neoliberismo, e cioè una estesa proprietà pubblica (rinazionalizzando imprese sconsideratamente privatizzate), strumenti di intervento statale strategico nell’economia, ed infine il principio che è compito istituzionale dello Stato promuovere la piena occupazione [8]. Gli espulsi dai loro posti di lavoro dall’economia del plusvalore in conseguenza del regresso dello sviluppo dovrebbero venire subito ripresi al lavoro in nuove aree di intervento pubblico a fini di pubblica utilità. Queste aree di lavoro, capaci di occupare qualche milione di lavoratori, dovrebbero riguardare progetti di disinquinamento di acque e suoli, il riassetto urbano volto a rendere vivibili le città, la riorganizzazione dei trasporti urbani ed interurbani, un programma di assegnazione permanente di case di abitazione a tutti coloro che ne sono privi, un programma di ripopolamento di zone collinari e montane abbandonate, la creazione di una rete capillare di nidi per bambini e di assistenza domiciliare per gli anziani. Ma come finanziare queste aree di lavoro di pubblica utilità? Sarebbe certamente indispensabile un prelievo fiscale permanente di tipo patrimoniale sulle grandi ricchezze, e poi le spese dei nuovi occupati farebbero crescere altri gettiti tributari. Ciò non basterebbe, tuttavia, ad evitare l’innesco di un forte processo inflazionistico. Come evitarlo?
Oggi si è culturalmente attardati ad una vecchia concezione dell’inflazione, non più corrispondente alla realtà. Si crede che l’indicatore di inflazione sia la variazione del prezzo della singola merce posta in vendita, e ci si meraviglia quando si constata che l’inflazione percepita supera di gran lunga le effettive variazioni dei prezzi. Ciò accade, però, perché l’inflazione percepita non fa che percepire quella che è oggi realmente l’inflazione, e cioè l’aumento di prezzo non del singolo bene, ma di un insieme di beni omogenei volti a soddisfare lo stesso bisogno. Se ad esempio il prezzo di acquisto dell’automobile rimane stabile, ma l’automobilista è indotto a usarla di più dal peggioramento dei servizi pubblici e dalla mancanza di mezzi alternativi, e si trova così a consumare più benzina e
magari a pagare il parcheggio nella località di arrivo, l’automobile ha creato inflazione, anche se il suo prezzo è rimasto stabile. Per sconfiggere l’inflazione, dunque, occorre sostituire l’aumento dei salari con una drastica riduzione di costi del soddisfacimento di bisogni, sia creando le condizioni per cui i bisogni possano essere soddisfatti con una minore quantità di consumi, e quindi con un prodotto lordo decrescente, sia soddisfacendo in maniera gratuita, attraverso le nuove aree di intervento pubblico di cui si è detto, i bisogni più elementari. Se un lavoratore avesse la casa gratuita, il trasporto gratuito sul luogo di lavoro, il nido gratuito per i suoi bambini e l’assistenza gratuita per i suoi anziani, e se gli si offrisse una gamma più ristretta ma soddisfacente di beni di consumo da comprare, potrebbe vivere meglio senza aumenti salariali, in un quadro complessivo di prodotto interno lordo decrescente.

Conclusione
Se esistesse (ma non esiste) un partito politico con questi obiettivi, non sarebbe né di sinistra né di destra, ma sarebbe oltre la sinistra e la destra. Il suo compito esclusivo sarebbe quello di far uscire gli uomini e le donne dalla degradazione del capitalismo assoluto, e perciò avrebbe superato tutti i tabù della sinistra, dallo sviluppo all’industrialismo.
Non c’è bisogno di molta riflessione per rendersi conto che, anche su questi temi, la sinistra è lontanissima dal tentare una qualsiasi azione che vada nella direzione di un superamento del capitalismo assoluto. I suoi esponenti sedicenti moderati non si differenziano in nulla, neppure nelle parole, dagli esaltatori neoliberisti dello sviluppo e della crescita del PIL. La cosiddetta sinistra radicale si limita, come sempre, a enunciazioni di principio che non hanno mai nessuna rilevanza al
momento delle scelte vere.
Anche in questo caso, dunque, la sinistra appare totalmente interna ad una realtà sociale che nega tutti gli ideali emancipativi della sinistra.


[1] Anche se inferiore, ricordiamolo, al 5,6% del periodo keynesiano post-bellico.
[2]I dati globali a partire dal 1961 sono riportati da E. Todd, L’illusione economica, cit., pag.157, e rivelano un declino dello sviluppo a partire dal 1969, e più
accentuato dopo il 1979.
[3]Cfr. P. Krugman, Il ritorno dell’economia della depressione, Garzanti 1999, pag.43-52. Qui, e più analiticamente in saggi pubblicati su diverse riviste, Krugman
distingue tra uno sviluppo intensivo, prodotto da un uso più efficiente di fattori di produzione dati, e uno sviluppo estensivo, prodotto dall’uso di nuovi fattori di
produzione prima inutilizzati. Ciò che caratterizza lo sviluppo estensivo, mostra Krugman, è un ritmo molto sostenuto nel suo primo periodo, quando può alimentarsi di
una estensione crescente dei fattori di produzione utilizzati (nuovi lavoratori prima inattivi, nuove risorse minerarie fino ad allora non estratte, nuovi spazi
insediativi ecc.), e il suo rapido declino nel periodo successivo, quando non ci sono più nuovi fattori. Krugman corrobora le sue distinzioni analitiche con i dati
empirici dei casi storici di sviluppo estensivo, a partire da quello, che lui giudica tale, dell’Unione Sovietica. I dati empirici mostrano sempre la stessa tendenza,
prima sviluppo sostenuto, poi rallentamento, Poiché lo sviluppo della Cina attuale è un tipico sviluppo estensivo, è prevedibile un suo futuro, netto rallentamento.
[4] E. Todd, Dopo l’Impero, Tropea editore, 2003, pag. 64. La lista non è finita. Hanno un attivo commerciale con la superpotenza americana persino paesi
economicamente deboli come il Messico, il Venezuela, l’Argentina, l’Indonesia e addirittura l’Ucraina. Per vedere in attivo gli USA bisogna andare in Egitto, a Cipro,
in Uzbekistan, in Kirghisia, nelle Filippine, nell’Africa subsahariana, e questi attivi non sono certo il massimo, sia qualitativamente che quantitativamente. Questo
quadro della bilancia commerciale è per Todd la prova irrefutabile della non competitività complessiva del sistema industriale americano.
[5] Ulteriori considerazioni su questi temi si possono trovare in M.Dolfini, Debito e impero, Limes n.1, 2005, pag. 23-43.
[6]Cfr. G. Fuà, Lo sviluppo economico in Italia, Franco Angeli 2003.
[7]Si omette in genere l’osservazione che fino agli anni Ottanta esisteva in Italia un’industria di dimensioni europee capace di convogliare risorse nella ricerca e
nel’innovazione, e che questa industria è stata distrutta dalle privatizzazioni della sinistra, che l’hanno smembrata  e ne hanno consegnato i pezzi ora a monopolisti,
ora a speculatori, ora a padroni stranieri.
[8] L’abbandono generalizzato di questo principio, assunto da tutti gli Stati civili dopo la loro vittoria sul nazifascismo, si è avuto a partire dal 1979, come
vedremo meglio nel capitolo quarto. In Italia è avvenuto sotto i governi di Amato e Ciampi del 1992-94, in maniera illegale ed eversiva perché l’articolo 4 della
Costituzione, che rientra nei principi fondamentali non modificabili neppure con la procedura di revisione dell’articolo 138, dice testualmente: “La Repubblica
riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Né la Costituzione allude a un lavoro qualsivoglia,
e comunque sfruttato, perché l’articolo 36 dice che “in ogni caso” il lavoratore ha diritto ad una retribuzione “sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia
un’esistenza libera e dignitosa”. Sia l’articolo 4 che l’articolo 36 sono giuridicamente ancora vigenti. Il capitalismo assoluto, che ne costituisce la radicale
negazione fattuale, è quindi un’imposizione del tutto fuori legge.

4 commenti:

  1. Ancora una volta grande lucidità. Per quanto riguarda il ruolo trainante dei consumi americani, perfettamente condivisibile. Il problema nasce dalla crisi dei subprime del 2008, perché quel meccanismo si è inceppato. A questo riguardo, consiglio la lettura di La crisi globale, l'Europa, l'euro, la Sinistra di Riccardo Bellofiore.
    Per il resto, credo che siamo nel dibattito delle etichette. Il piano proposto, per me, per come la penso, è un piano di sinistra. Se non si vuole definire così, poco male. Ma anche i richiami contano.
    Per continuare a parlare di Bellofiore, che si definisce "marxiano", l'orizzonte di lotta che propone è quello di avere sovranità "su cosa produrre, come produrre e quanto produrre".
    Il problema, e non è un dettaglio, è il potere di farlo. Senza potere, saremo sempre schiavi di questi meccanismi.

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  2. Per dirla apertamente, fuori dalle ambiguità semantiche, se non è sinistra la creazione di un fronte anticapitalista, che cos'è sinistra?
    Se non è la socializzazione dei mezzi di produzione, la libera determinazione dei lavoratori di stabilire cosa produrre, come e quanto, cos'è sinistra? E la giustizia distributiva, non è sinistra?
    Che poi, storicamente, la sinistra si è configuarata in un altro modo, è un'altra questione.

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  3. Bel contributo, mette in luce le responsabilità USA laddove fin'ora ci si era concentrati di più su quelle tedesche, che pure ci sono.

    Le stesse responsabilità USA sono bene evidenziate anche in questo video che ho trovato sul twitter di Vladimiro Giacché (che incautamente di candidò con Ingroia, meglio ignorare il finale del video) poco tempo fa. In quest'ottica il solo riequilibrio fornito dal riaggiustamento dei cambi è insufficiente a riequibrare un sistema così compromesso.

    Ad ogni modo, visto che spesso segnalate anche gli ultimi arrivati, a che ci sono vi segnalo un ultimo arrivato anche io: Fausto Bertinotti. Anche se forse lo sapete già.

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  4. Questi 5 post devono essere assemblati e posti con un link permanente nel blog, con uno scaricabile in pdf o con una pagina apposita che racchiuda il tutto e sia sempre in primo piano per poter rileggere

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