lunedì 30 dicembre 2013

Gli avversari sono lucidi, gli alleati un po' meno.

 François Heisbourg, La fin du reve européen, Stock 2013


François Heisbourg non è “uno dei nostri”. Come si può capire anche solo dando un'occhiata a Wikipedia, si tratta di un membro delle oligarchie europee, che ha condiviso le scelte (costruzione di questa UE, creazione dell'euro) che hanno portato ai problemi attuali. Del resto, basta citare le parole con le quali inizia il suo libro: “L'autore è un europeo convinto (…). Nella sua vita adulta, ha lavorato nei suoi diversi ruoli pubblici, industriali e accademici  alla costruzione europea (pag. 7)”. L'idea di Europa che Heisbourg condivide è quella che abbiamo discusso più volte in questo blog: una Europa in cui l'eliminazione dei vincoli alla circolazione di merci e capitali permetta le “riforme”, cioè la distruzione dei diritti del lavoro e l'abbattimento dei costi del Welfare State, affinché il capitalismo europeo possa meglio competere con il resto del mondo. La costruzione di una UE rigidamente incardinata sui principi neoliberisti e di una moneta unica che mette i lavoratori di ciascun paese europeo in concorrenza fra loro, sono ovviamente frutto non di errori intellettuali ma di precise visioni politiche, economiche e culturali.
È allora di grande interesse il fatto, già segnalato su questo blog, che una persona di questo tipo scriva un libro in cui propone con molta chiarezza e lucidità la fine dell'euro, concordata e controllata, e il ritorno alle monete nazionali. Proprio il fatto che, come s'è detto, l'autore non è “uno dei nostri”, rende utile confrontarsi con quello che dice (e quello che non dice).
La tesi fondamentale Heisbourg è che le economie dei paesi dell'eurozona sono troppo diverse tra loro per poter stare sotto l'ombrello di una moneta unica. Inoltre, l'introduzione dell'euro non ha contribuito a ridurre tali divergenze, come era la speranza (o l'illusione) delle élite che hanno  voluto l'euro, ma anzi le ha aumentate. Heisbourg critica le risposte che alla crisi hanno dato i ceti dirigenti europei (austerità e “riforme strutturali”) perché capisce che non si possono colpire i redditi del lavoro con le riforme strutturali e contemporaneamente diminuire la spesa pubblica, visto che in questo modo si ammazza l'economia. La soluzione alla crisi potrebbe invece essere il “più Europa”, la creazione cioè di un vero Stato federale nel quale i dislivelli economici fra le varie realtà territoriali siano compensati, in un modo o nell'altro, da forme di redistribuzione della ricchezza gestite a livello federale. E se si fermasse qui, niente distinguerebbe Heisbourg da tanti altri difensori d'ufficio del “sogno europeo”. Ma Heisbourg è una persona lucida, e quindi capisce benissimo dov'è il problema: non c'è nessuna possibilità realistica di passare ad uno Stato federale europeo, perché non esiste un popolo europeo che possa riconoscersi in esso e accettare i sacrifici che esso potrebbe comportare. I popoli dei paesi “forti” non accetteranno mai di condividere i vantaggi economici da loro conseguiti, e che a loro sono costati indubbi sacrifici, con i greci e gli spagnoli. Questa semplice considerazione, con la quale i tanti sostenitori italiani del “sogno europeo” rifiutano di confrontarsi, spinge Heisbourg alle sue proposte radicali. Visto che l'euro in questa situazione non può reggere, visto che il suo crollo disordinato sarebbe, dal suo punto di vista, un disastro che metterebbe in pericolo la stessa UE, e visto che Heisbourg ritiene l'eventualità di una rottura della UE il vero pericolo da scongiurare, la sua proposta è quella di una dissoluzione concordata dell'euro mantenendo per il resto la struttura istituzionale dell'UE.

Ripetiamolo: l'autore di questo libro non è uno dei nostri. È uno dei loro, come dimostra fra l'altro la recensione simpatetica che gli dedica Franco Debenedetti sulle pagine del Sole24ore. Heisbourg, per fare un esempio, non ha problemi a dire che nei paesi della periferia sud (e anche in Francia) sono necessarie le “riforme strutturali” (cioè attacco ai diritti del lavoro e al Welfare State) del tipo di quelle compiute in Germania. E nella sua analisi egli dice molte cose giuste ma non va fino in fondo, perché non spiega con la chiarezza necessaria come la Germania, dopo aver compiuto le sue riforme del lavoro, abbia accresciuto la sua competitività a spese dei paesi “periferici”,  e come, in questa competizione, l'impossibilità di svalutazione della moneta, da parte dei paesi periferici, sia un dato essenziale. Tutto questo non è detto esplicitamente in questo libro. Emerge dalle osservazioni relative al fatto che, se la Germania uscisse dall'euro, la sua moneta verrebbe immediatamente rivalutata con danni alle esportazioni. Ma l'autore, forse preoccupato per essere andato troppo in là, si rimangia queste osservazioni a pag.169, quando osserva che, al contrario, l'uscita dall'euro non sarebbe un grande problema per la Germania.
Nonostante questi limiti il suo libro, lucido e ben scritto, è molto interessante, perché mostra che fra i ceti dirigenti europei si sta facendo strada la consapevolezza dell'insostenibilità della situazione attuale. Forse il punto focale del libro, la sua vera origine, sta in un'osservazione che l'autore fa nelle prime pagine. Heisbourg nota infatti, con un certo stupore, la “pazienza d'angelo” che hanno avuto finora i popoli europei. Di fronte alla più grave crisi economica dopo il '29, le reazioni popolari sono state finora oltremodo contenute: “nonostante cinque anni di disoccupazione, di delocalizzazioni, di impotenza delle nazioni e delle istituzioni europee, e di deresponsabilizzazione dei politici rispetto ai tecnocrati, gli elettori europei hanno avuto una pazienza da angeli. Né vittorie degli estremisti, né colpi di Stato, né campagne terroriste. Alla peggio, delle manifestazioni molto dure ad Atene, e più spesso i simpatici sit-in degli “Indignados” spagnoli, e grandi sfilate di proteste pacifiche un po' dappertutto (pag.15)”. Poca roba, commenta Heisbourg, in confronto alle lotte dure negli anni del dopoguerra o al terrorismo italiano e tedesco degli anni '70 o ancora al maggio francese.
È probabile che una parte dei ceti dirigenti europei si stia interrogando su quanto possa ancora durare questa “pazienza d'angelo”, e stia pensando alla direzione da prendere se e quando essa finirà.

Partendo da un punto di  vista diverso, si tratta di una questione che deve porsi anche chi, come noi, avversi i fondamenti neoliberisti sui quali è stata costruita l'UE. Come mai i popoli europei accettano l'impoverimento e la distruzione di diritti e redditi? Fino a quando potrà durare? Almeno una parte della risposta a queste domande sta in articoli come questo di Giulietto Chiesa, del quale abbiamo già parlato, o come questo di Roberta Carlini. La risposta sta cioè nel fatto che mentre un avversario come Heisbourg ha la lucidità necessaria per rendersi conto dei problemi e proporre quelle che, dal suo punto di vista, sono soluzioni concrete, il mondo del pensiero critico, alternativo, antiliberista, non fa, nella sua larga maggioranza, che produrre parole vuote, sganciate da ogni realtà e concretezza. I ceti popolari sono disorientati e confusi, e non reagiscono al durissimo attacco cui sono sottoposti, anche perché (non solo per questo, sia chiaro) gli intellettuali che dovrebbero fornire elementi di chiarezza, di lucidità, di rigore, diffondono invece confusione e illogicità. Gli articoli citati sono un buon esempio di tutto ciò. Vediamo infatti quale ne è il contenuto razionale. Cosa dice per esempio Roberta Carlini? Ci dice che l'uscita dall'euro è una richiesta delle destre. Abbiamo già scritto nel nostro libro quello che c'è da dire di una simile argomentazione, ma ripetiamoci. Una argomentazione del genere è la negazione della razionalità. La nostra tesi è che l'euro è uno strumento dei ceti dirigenti europei per la distruzione di diritti e redditi dei ceti subalterni e per l'imposizione definitiva dei principi neoliberisti su scala continentale. Se questo è vero, è chiaro che l'uscita dall'euro è condizione necessaria (anche se non sufficiente) per la difesa di diritti e redditi dei ceti subalterni, e per impostare una politica di contrasto al neoliberismo. Ora, di fronte a questa tesi, della quale si può dire che viene ormai seriamente argomentata da più parti, razionalità vuole che si discuta se è corretta oppure no. Perché solo dopo una tale discussione si può capire che posizione politica assumere, in particolare di fronte alle forze di destra che predicano l'uscita dall'euro. Se la tesi sopra indicata è sbagliata, allora ovviamente bisogna rifiutare la proposta dell'uscita dall'euro, e questo è del tutto  indipendente dal fatto che tale proposta sia fatta propria dalla destra oppure no. Se essa è giusta, allora il fatto che essa sia sostenuta a destra non è certo un motivo per farla cadere, ma al contrario è uno sprone in più per farla propria il prima possibile e sottrarla alla destra. Perché se quell'analisi è giusta, allora rifiutando la parola d'ordine dell'uscita dall'euro si commettono due errori gravissimi: non si individua un piano di lotta essenziale per la difesa dei ceti subalterni, e si lascia una parola d'ordine giusta in mano alla destra.
Questo è quello che si può dire, su un piano di razionalità. Dire invece che la parola d'ordine dell'uscita dall'euro deve essere rifiutata perché “lo dicono quelli di destra”, è la ricaduta nell'irrazionalità e nel dogmatismo del movimento comunista del Novecento. È esattamente la stessa cosa di quando, negli anni '50, si diceva che non si può parlare dei gulag e della repressione nell'URSS perché si fa il gioco della borghesia. Si sperava che questi atteggiamenti mentali fossero superati. A quanto pare, non è così. È interessante riflettere un momento sul significato di questo fatto. Quel tipo di impostazione mentale dogmatica, infatti, non dipende da un particolare contenuto
 (il culto di Stalin o della Rivoluzione d'Ottobre) ma da un atteggiamento che può applicarsi ai contenuti più diversi, e la cui origine sta in una sostanziale subalternità dell'intellettuale rispetto alla politica. Il problema di queste forme di dogmatismo non è cioè la specifica ideologia, ma il “tradimento dei chierici”, la scelta dell'intellettuale che rinuncia al proprio ruolo di pungolo verso la razionalità e la verità, e accetta di essere strumento subalterno della politica. Con l'aggravante che concepirsi come strumento della politica del movimento comunista nel Novecento aveva almeno una sua tragica grandezza, concepirsi come strumento della “grande politica” di SEL o magari di una corrente del PD è semplicemente ridicolo.
Roberta Carlini, comunque, non ci presenta solo questa argomentazione negativa. Ci offre anche una proposta positiva, ed è ovviamente quella dell'Europa democratica e solidale. Ma come abbiamo detto tante volte, si tratta di pura demagogia, perché una tale proposta non ha nessun fondamento concreto. E questo Carlini arriva quasi ad ammetterlo, quando conclude sconsolatamente il suo articolo nel modo che segue:
“è a carico di quanti non rinunciano all’idea di una politica progressiva, l’onere di dimostrare che un’altra strategia europea è possibile, e assai più conveniente, per chi oggi ha meno, della chiusura dentro frontiere e identità sempre più anacronistiche. Ma chi si incarica di questo compito? Colpisce, e forse fa più male delle scorciatoie populistiche, l’assenza di questo livello della discussione nella sinistra, come se fosse per noi tutti impossibile pretendere un’altra Europa per un’altra politica, più vicina a quella ideale. Persino adesso, quando è a tutti visibile e plateale il fallimento dell’Europa reale”
L'impossibilità del “pretendere un'altra Europa” ha il suo fondamento nel fatto tanto volte da noi ripetuto, cioè nell'inesistenza di un soggetto popolare europeo. Roberta Carlini arriva fin quasi a capire questo punto, ma si ritrae dalle logiche conseguenze delle sue stesse ammissioni. Chi legga il testo di Heibsourg vedrà come egli faccia proposte concrete e ragionevoli per l'uscita dall'euro. Nessuno dei sostenitori dell'Europa “più democratica” è in grado di fare proposte concrete, di delineare un percorso ragionevole. Perché non c'è nessuno spazio concreto per l'Europa “più democratica”, e la sua evocazione ha il solo scopo di nascondere il vuoto, la mancanza di argomenti di posizioni come quelle sostenute da Carlini.
Il caso di Giulietto Chiesa è del tutto analogo. Anch'egli attacca le forze di destra che chiedono l'uscita dall'euro, anch'egli si immagina una “Europa” diversa dalla UE, senza poter indicare in nessun modo né un percorso concreto per arrivarci, né forze reali che possano spingere in quella direzione. Il caso di Chiesa è davvero emblematico del vicolo cieco in cui sbocca necessariamente la proposta politica di una “altra Europa”. Giulietto Chiesa ha infatti un serie di punti di forza che pochi altri hanno, nel variegato mondo “antagonista”: una certa notorietà mediatica e importanti collegamenti internazionali. Ma questi punti di forza non gli servono a nulla, perché egli li vuole utilizzare al servizio di una politica che non ha nessuna base realistica.
Purtroppo le idee sbagliate e prive di sbocchi espresse da Carlini e Chiesa sono abbastanza diffuse, nel mondo, peraltro minoritario, di chi si oppone al capitalismo  contemporaneo. Ci sembra questo, lo ripetiamo, uno dei motivi dell'impotenza e passività finora dimostrata dalla masse popolari dei vari paesi europei. La speranza di una riscossa passa anche attraverso la lotta intransigente contro la confusione e la vacuità di un ceto intellettuale che ha rinunciato al proprio ruolo.
(Marino Badiale)
[la traduzione dal francese delle citazioni del libro di Heisbourg è mia (M.B.)]



9 commenti:

  1. E' proprio vero che chi si oppone al capitalismo contemporaneo ha idee confuse, vi farei parlare con i ragazzi del contro sociale della città in cui vivo, ragazzi molto attivi e per certi versi preparati ma a cui non puoi parlare di euro ed unione europea. Giorni fa ci sono state le municiparie del M5S ed uno dei ragazzi del contro sociale invitava ad eleggere, per partecipare all'elezione del Sindaco che si terrà a maggio, un iscritto al movimento che ancora oggi crede nel famoso "lavorare meno lavorare tutti" senza minimamente rendersi conto di fare un favore alle elite europee che grazie all'euro stanno attuando il loro sporco metodo di governo autoritario. Se riusciremo a riagguantare la nostra sovranità allora si potrà discutere come e quanto lavorare ma oggi come oggi è solo un suicidio.

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    1. Per dirla tutta, quel ragazzo si avvicina al pensiero di Toni Negri, che non è proprio l'ultimo della classe, e che si è sempre espresso per il rifiuto del Lavoro; se mai non ci porremo in quest'ottica mai riusciremo a pensare un sistema diverso da quello predatorio capitalista che ha contagiato anche le nostre menti, cerchiamo di uscire dall'ingenuo pensiero unico secondo il quale è sufficiente uscire dall'euro per tornare a crescere ed essere felici senza preoccuparci del superamento del Capitalismo che ci opprime da secoli

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  2. Caro Marino,
    è un piacere leggerti.
    Il nodo di ogni possibile evoluzione democratica (e di ripristino della legalità costituzionale) rimane sempre quello mediatico: forse è più che mai giunto il momento di prescindere dalla stessa rilevazione delle contraddizioni "a sinistra", cosa che determina l'inconveniente di una rilegittimazione indiretta di errori, per di più, racchiusi in una irriducibile vocazione minoritaria.
    Appare ormai giunto il momento di condurre un discorso del tutto autonomo e indirizzato con immediatezza alla massima platea possibile di cittadini democratici. Cioè rivolto ai titolari degli interessi sacrificati, i quali costituiscono una maggioranza schiacciante e senza voce in capitolo.
    Questo voce la si può dare ora e subito superando nei fatti, e senza preoccupazioni su "radici" ormai prive di vitalità, barriere concettuali che costituiscono solo un inutile schermo che oscura le elementari verità "primigenie" della Resistenza all'aggressione ordoliberista (che, come tale, è padrona delle istituzioni, formalmente invariate).

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    1. Caro Quarantotto,
      sono in sostanza d'accordo con te, occorre una proposta politica che si rivolga all'ampia platea di tutti coloro le cui vite sono sotto attacco. Una simile proposta politica ha però bisogno di una base culturale e teorica, che è condizione necessaria anche se non sufficiente perché si possa creare qualcosa che duri nel tempo. Su questo piano, credo si possa essere d'accordo sul fatto che è fondamentale la critica verso il mainstream culturale contemporaneo. Il punto è che tale mainstream è, a mio avviso, essenzialmente “di sinistra”, e quindi la polemica contro la sinistra ha, almeno per quanto mi riguarda, appunto questo senso culturale oltre che strettamente politico. Voglio dire che, oltre a svolgere la necessaria polemica contro le forze politiche che stanno svendendo il nostro Paese, occorre demolire una intera e articolata “visione del mondo” che rappresenta il “lato culturale” del dominio del “capitalismo assoluto”.
      Un caro saluto

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  3. Caro Badiale,
    molto lucido e bello questo tuo pezzo.

    Mi permetterei tuttavia di aggiungere che vi è un'ulteriore conseguenza negativa di questo atteggiamento ottuso nella cosiddetta sinistra, ed è quello di costringere quella piccola componente antieuro che vi è presente a partecipare al fronte complessivo in modo acritico e subalterno.
    Insomma, ritrovandosi in posizione minoritaria ed agganciandosi in modo anche tardivo, si finisce per evitare di entrare nel merito delle numerosissime opzioni legate a questa scelta.
    In sostanza, l'altra faccia della medaglia del rifiuto acritico di entrare nel merito della scelta antieuro, è quella di entrarci anche in questo caso in modo acritico, senza suscitare quell'ampio e franco dibattito che sarebbe necessario anche per non finire strumentalizzati da chi per ruolo mediatico può facilmente iscriversi questa battaglia dandole lo sbocco che più gli aggrada senza che i veri obiettivi che sosteniamo e che giustificano questa scelta, vengano non dico raggiunti, ma almeno resi noti e visibili di fronte alla grande opinione pubblica.

    Se fronte antieuro ci deve essere, deve essere chiaro che deriva da un'alleanza tra forze che si considerano eterogenee e che appunto sono disponibili su uno specifico obiettivo a convergere in uno schieramento comune temporaneo.

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  4. Gli italiani se ne stanno buoni perché in fondo pensano che questa crisi un po' se la meritano, ormai il passatempo nazionale è lamentarsi della corruzione, della burocrazia e di una classe dirigente di incapaci. E' sempre stato così, da che ho ricordi di questa vita, ma mai come in questo periodo. I sensi di colpa soffocano il dibattito, impossibile discutere di euro, UE e altre amenità con chi si è sempre sentito ripetere la storiella dell'italiano pizzaspaghettimandolino e non vuole sentirsi dire altro (perché un po' in fondo ci gode). E infatti ogni volta che un italiano apre il becco e gli dà aria non ce la fa, proprio non ce la fa, deve per forza ricordare a se stesso e al mondo quanto fa schifo questo paese (col sottinteso che siamo in crisi perché facciamo schifo). Per quello dico da tempo che secondo me non serve un economista per tirarci fuori dai guai, ma uno psicologo.

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  5. Chiediamoci qual'è il vero motivo di questa difesa ostinata dell'Europa da parte degli intellettuali di sinistra rispetto allo sconforto ed al realismo di chi ha perso il lavoro a causa di questa crisi indotta dall'euro e non solo, e non vanta conoscenze internazionali o posizioni di privilegio o lavori stabili per censo; se ci faremo questa domanda capiremo che la risposta è : il banale opportunismo e tornaconto personale che ormai è diventato una malattia degenerativa dell'individualismo sfrenato delle società ipermoderne fondate sul Capitalismo , molto contagiosa; e così avremo svelato il mistero che sta nel cuore della sinistra italiana, ma attenti al contagio!

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  6. In Italia siamo in genere restii a intraprendere qualunque azione. Ma quando infine ci decidiamo, non ci facciamo mancare nulla e procediamo dritti verso l'obiettivo. Così, nel momento in cui si è trattato di abbattere i diritti del lavoro, abbiamo proprio eliminato quest'ultimo, aggredendo il problema alla radice e tanti saluti.

    Riguardo al fatto che il popolo non si sia ribellato, è evidente che ciò è dipeso dal fatto che si è provveduto innanzitutto a privarlo delle organizzazioni atte a catalizzarne il dissenso e a portarlo in piazza per poi concretizzarlo in proposta politica. Esse anzi si sono trasformate nelle prime sostenitrici del progetto volto a eseguire la macelleria sociale e lo spostamento di ricchezza dal basso verso l'alto. Come mi piace ripetere sapendo benissimo cosa facevano, perché, chi ha dato gli ordini e cosa ci guadagnavano.
    Il popolo pertanto, in assenza di chi ne organizzasse la protesta, da entità unitaria si è diluito in una serie infinita di singoli, spesso intenti ad accanirsi gli uni contro gli altri, e come tali impossibilitati a far sentire la propria voce e ridotti all'impotenza, in primo luogo nella percezione di sé.
    In queste condizioni è evidente che le classi sociali che hanno tratto i vantaggi maggiori dall'euro, non hanno alcuna intenzione di rinunciarvi. Faranno di tutto, invece, affinché la nuova situazione sia ancora più proficua nei loro confronti. Pertanto la questione inerente l'uscita dall'euro non produrrà alcun cambiamento per le vittime della moneta unica, proprio perché sarà gestita da chi intende utilizzarla a proprio uso e consumo, per mantenere e rendere ancora più solide le proprie posizioni di predominio.
    Come vediamo, le operazioni necessarie per giungere a questo scopo sono iniziate da qualche tempo, come dimostrano Heisbourg e lo stesso Prodi, che ha preso pubblicamente le distanze da sé stesso, in compagnia di numerosi altri.
    Attenzione, dunque, perché quelli che arrivano da costoro non sono i segnali di una nostra vittoria, come certi EGOnomisti sono convinti, ma di una sconfitta che sarà ancora più perentoria, cocente e definitiva di quella rappresentata dall'introduzione della moneta unica.

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    1. Esatto, ormai viviamo in un mondo in cui l'unica possibilità antropologica offerta alle persone attraverso i canali mediatici e l'istruzione è il Capitalismo, infatti si sente dire spesso ai giovani "preparati al mondo esterno e trovati un buon lavoro" senza un giudizio di merito sull'eticità di quel benedetto lavoro ; quindi per cambiare sistema è necessaria una vera rivoluzione culturale, pensare che basti uscire dall'euro e tornare alla Costituzione nazionale è una illusione ingenua anche se di buon senso ;poi se si ascoltano le parole di alcuni economisti come Cesare Pozzi si comprende che indietro non si torna, dato che la nostra economia è ormai compromessa per la perdita di troppe filiere industriali avvenuta in questi anni, insomma c'è una gran confusione e l'incapacità di fondo di uscire dal modello culturale dominante non soltanto da parte della popolazione ma anche delle elites intellettuali che dovrebbero fare strada

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