lunedì 13 gennaio 2014

Favilli su Rifondazione

La situazione in cui si trova il nostra paese pone con forza  quello che ci appare come un compito fondamentale: la creazione di una forza politica che sappia contrastare il degrado cui l’intera storia recente ha portato il nostro paese, combattendo in modo intransigente la casta politica che di questo degrado è responsabile e garante. La crisi attuale è drammatica per tanti motivi, ma uno dei principali è proprio la mancanza di una tale forza. I tentativi in questa direzione si sono succeduti all’infinito, negli ultimi anni (e anzi negli ultimi decenni). I risultati sono sempre stati deludenti. Il Movimento di Grillo è riuscito a raccogliere un successo elettorale eccezionale, ma la sua azione non sembra per il momento all'altezza dei problemi che abbiamo di fronte.
E’ evidente che c’è bisogno di riflettere sui motivi dell'incapacità, da parte degli oppositori allo stato di cose presenti, di trasformare il disagio e la rabbia, che sempre più chiaramente bruciano le fondamenta del paese, in azione politica capace di incidere sulla realtà. Per questa riflessione occorre naturalmente comprendere meglio la natura del Movimento 5 Stelle o fenomeni come quello del "movimento dei forconi", ma occorre anche approfondire la storia di altre formazioni politiche che avevano, almeno potenzialmente, la capacità di costituire poli di aggregazione del disagio e dell’opposizione nei confronti dell’attuale realtà economica e sociale. Il primo esempio che viene in mente è naturalmente quello del Partito della Rifondazione Comunista, un Partito nato circa vent’anni fa con grandi ambizioni, che è riuscito in certe fasi della storia recente ad avere un seguito e un peso politico non trascurabili, e che però negli ultimi anni è entrato in una crisi molto seria, perdendo consenso, visibilità e rilevanza politica.
Una buona occasione per riflettere su questa storia è data dal libro che Paolo Favilli, studioso della storia del marxismo e del movimento operaio, ha dedicato alla storia di Rifondazione (P. Favilli, In direzione ostinata e contraria, DeriveApprodi 2011). Favilli è, nello stesso tempo, uno studioso accademico di storia contemporanea e un militante di Rifondazione, e quindi il suo accingersi ad un'opera del genere appare quasi una predestinazione. Il libro vuole rivolgersi a tutti coloro che sono interessati ad una ipotesi di trasformazione radicale dello “stato esistente delle cose”, ed è quindi agile e gradevole, senza rinunciare in nulla al rigore professionale dello storico. E' interessante prendere spunto da un tale testo proprio perché esso non nasce da un puro intento scientifico di ricostruzione dei fatti, ma piuttosto dall'esigenza di riflettere sugli errori e i fallimenti del passato, per tentare di mantenere aperti gli spazi politici e sociali di una alternativa al presente. Vale dunque la pena di provare ad interrogare questo testo e di discutere le sue risposte alla domanda fondamentale: perché quel tentativo è fallito? Cosa non ha funzionato, nella storia del Partito della Rifondazione Comunista? Si tratta di questioni che nel libro di Favilli non sono poste esplicitamente, ma lo attraversano in maniera più o meno sotterranea. Anche le risposte ad esse non vengono esplicitate in un luogo preciso, ma si possono ricavare da ciò che Favilli ci dice sui punti di forza e di debolezza del PRC. I punti di debolezza del partito, che alla lunga lo hanno portato all'esito attuale, sembrano individuati da Favilli in una combinazione di fattori interni ed esterni. Fra i primi è fondamentale la struttura bipolare che la politica italiana si è data dopo Tangentopoli: si tratta di una situazione nella quale un partito come Rifondazione corre continuamente il rischio di essere schiacciato su uno dei due poli. Non c'è dubbio, infatti, che il bipolarismo e la divisione degli italiani fra berlusconiani e antiberlusconiani hanno contribuito a togliere spazi di autonomia politica ad un partito come Rifondazione.

Fra i fattori interni, Favilli mette in primo piano da una parte la rinuncia ad un autentico percorso di rifondazione teorica del pensiero comunista, all'altezza della realtà del mondo attuale, e dall'altra parte la rinuncia a dare spazio ad una vera democrazia interna, che sapesse coinvolgere i tanti militanti e simpatizzanti che in questi vent'anni hanno transitato per il partito.
Si tratta anche in questo caso di problemi autentici. Non c'è dubbio infatti che il PRC non ha saputo affrontare un percorso rigoroso e condiviso di ricostruzione delle proprie chiavi di lettura della realtà, oscillando spesso fra la riproposizione stantia di vecchi paradigmi e un “nuovismo” che alla lunga si differenziava poco da quello di marca veltroniana. Allo stesso modo, è del tutto chiaro, a chi abbia un po' di conoscenza della vita interna del partito, anche per interposta persona, che la sua organizzazione interna era ed è tale da allontanare molti di coloro che si avvicinavano ad esso sulla base di autentiche motivazioni ideali.
Favilli individua dunque, a mio parere, alcuni fattori reali della crisi attuale di Rifondazione. Credo però che sia possibile approfondire l'analisi e cercare se questi fattori possano a loro volta essere ricondotti a qualche motivazione di fondo.
Per iniziare questo approfondimento parto da una affermazione che Favilli ribadisce, con poche variazioni, in vari punti del libro: il fatto cioè che, nonostante tutti i problemi sopra indicati, Rifondazione disponeva di analisi sostanzialmente corrette della realtà, e di proposte politiche ragionevoli. Questa tesi implica immediatamente un problema: come mai, nonostante questo, Rifondazione non è uscita dalla sua condizione ultraminoritaria? Favilli non si nasconde la questione ma la lascia insoluta. Una riflessione più esaustiva sui problemi della storia di Rifondazione potrebbe allora partire da un tentativo di risposta a questa domanda. E un tentativo di risposta potrebbe basarsi sul rifiuto della premessa. Ovvero, si potrebbe sostenere che Rifondazione non aveva un'analisi corretta della realtà, e che (di conseguenza) le sue proposte politiche non erano ragionevoli. Una simile tesi ha ovviamente bisogno di qualche chiarimento.
Per chiarire questo punto, dobbiamo introdurre qualche distinzione. Infatti parlando delle idee, dell’analisi teorica, dei paradigmi di lettura del mondo da parte di un movimento politico, si tende a confondere livelli che devono invece essere distinti. Passando dai temi più generali a quelli più particolari, il primo livello è quello dei paradigmi più generali, dei principi e degli schemi di lettura basilari della realtà. Si intende cioè in questo caso ciò che è stato il marxismo per il movimento operaio oppure il costituzionalismo liberale e il nazionalismo democratico per le lotte della borghesia nell’Ottocento, o anche il tomismo per la Chiesa cattolica. Un livello meno generale è quello dell’analisi di fase, quello cioè in cui, partendo dai principi generali, si individuano i tratti essenziali della fase storica in cui il movimento si trova ad agire, e si tracciano le direttive strategiche. Per fare un esempio, è questo il piano sul quale si muove Lenin quando individua nell’imperialismo la caratteristica specifica del capitalismo del suo tempo, ed elabora le strategie politiche del movimento comunista a partire da questa caratterizzazione. L’ultimo livello è quello della concreta azione politica, quello cioè in cui le linee generali d’azione delineate sul piano strategico vengono concretizzate in precise e determinate tattiche politiche. Ora, è evidente che il lavoro specifico di una forza politica, e in particolare del suo gruppo dirigente, ha a che fare essenzialmente col secondo e il terzo di questi piani. Il primo livello, quello dell’elaborazione dei principi astratti, dei paradigmi di lettura, non è compito specifico di un movimento politico ma è un risultato del movimento intellettuale di un’intera epoca. Ciò che deve fare un gruppo dirigente è l’analisi della fase storica a partire dai paradigmi generali e l’elaborazione di concrete tattiche politiche a partire all’analisi della fase: appunto i livelli secondo e terzo sopra delineati.
Ora, una volta chiarite queste distinzioni, come possiamo usarle per discutere le idee del PRC? Non intendo qui approfondire il “primo livello”: è chiaro che il riferimento teorico generale del PRC era la tradizione marxista, ed esaminare il tipo di marxismo (o meglio, i molti marxismi) cui il partito faceva riferimento sarebbe un lavoro troppo lungo per questo articolo. Poiché appartengo al gruppo di chi ritiene il marxismo lo schema teorico ancora necessario per la comprensione del capitalismo, posso provvisoriamente ammettere che il paradigma teorico generale al quale militanti e dirigenti del PRC  facevano riferimento fosse sostanzialmente adeguato. I veri problemi, a mio avviso, nascono quando si passa al livello successivo, cioè al livello dell'analisi della fase storica degli ultimi decenni, il periodo appunto nel quale il PRC è nato e si è trovato ad agire. Si tratta della fase storica che è usuale indicare con i termini “globalizzazione” e “neoliberismo”, termini non del tutto adeguati ma che assumiamo qui per brevità. Nel partito e nella sua area di influenza politico-culturale si è ovviamente discusso moltissimo su questi temi, e le nuove caratteristiche del capitalismo recente sono state al centro dell'elaborazione e delle varie proposte politiche del partito. Eppure a tutta questa massiccia mole di produzione intellettuale è mancato un punto decisivo: è mancato cioè la comprensione che nella nuova fase storica  erano cambiati in maniera fondamentale natura e ruolo degli schieramenti politici tradizionali, e in particolare era venuta meno, per quanto riguarda gli aspetti fondamentali delle politiche economiche e sociali, ogni reale distinzione fra destra e sinistra. Questa tesi, che è il punto decisivo di quanto vado scrivendo, non può essere argomentata per esteso in questo articolo, e per una argomentazione più estesa rimando per esempio a M.Badiale, M.Bontempelli, La sinistra rivelata, ed.Massari 2007. Si tratta comunque di una tesi che sta probabilmente diventando un elemento di senso comune (lo provano, fra le altre cose, il successo del Movimento 5 Stelle, la crescita dell'astensionismo, e un movimento come quello dei "forconi"). Il punto fondamentale è che sinistra e destra appaiono completamente appiattite sulle politiche economiche neoliberiste, e nessuno è in grado di avvertire significativi mutamenti nelle politiche economiche quando cambia il colore del governo. Ma le politiche economiche neoliberiste portano con sé la distruzione dei diritti e dei redditi dei ceti subalterni, l'attacco alla democrazia, la distruzione dell'ambiente. La comprensione dell'equivalenza, dal punto di vista delle politiche economiche, di destra e sinistra avrebbe dovuto quindi portare Rifondazione alla critica intransigente e all'opposizione nei confronti sia della destra sia della sinistra. Sappiamo invece che le cose non sono andate così: Rifondazione ha scelto la strada dell'appoggio critico alle coalizioni di centrosinistra. Si tratta di un errore epocale, e non solo perché ha portato all'attuale risultato. Si tratta proprio del fatto che in questo modo il gruppo dirigente del PRC ha sbagliato completamente l'analisi di fase (il “secondo livello” di cui sopra), e in questo modo non ha capito cosa realmente stava avvenendo. Non ha saputo fare ciò che Fortini indicava come necessario: “scrivere i nomi dei nemici”. Le continue sconfitte cui andavano incontro i ceti popolari, la perdita progressiva di diritti e redditi, la lenta corrosione della democrazia, sono opera dei ceti dominanti e delle loro articolazioni politiche: e questi ceti dominanti e queste articolazioni politiche vanno chiamate per nome. E' cioè del tutto insufficiente  dire che si tratta di effetti del “neoliberismo”: questa è una caratterizzazione corretta ma astratta, perché il “neoliberismo” o il “capitalismo” di per sé non “fanno” nulla. Ed è del tutto insufficiente prendersela con la “destra” o con il personaggio Berlusconi, perché in questo modo non si vede come la sinistra, nella Seconda repubblica, abbia governato pressapoco lo stesso tempo della destra (con l'appoggio di Rifondazione) e abbia compiuto politiche del tutto simili.
Rifondazione non ha saputo cioè fare il passo fondamentale e minimale per la costruzione di una autentica opposizione: capire cioè che, quando si scrivono “i nomi dei nemici”, occorre fra di essi mettere l'intera sinistra. Non ha saputo o voluto capire che Prodi e Berlusconi sono due disgrazie per il paese, diverse per il modo in cui ci hanno portato al degrado ma ugualmente deleterie.
Se si capisce che questo è il punto fondamentale, a mio parere diventano anche più chiari i limiti individuati da Favilli, e che sopra abbiamo ricordato: è vero che il meccanismo bipolare creava difficoltà a un partito come Rifondazione, ma queste difficoltà erano rese insuperabili da un'impostazione mentale che portava a scegliere comunque di schierarsi con la sinistra contro la destra. E' vero che è mancata una riflessione teorica innovativa e una apertura alla partecipazione dei militanti, ma questo è probabilmente legato al fatto che queste aperture avrebbero potuto portate a rimettere in questione il tema dell'alleanza col centrosinistra.
Se si vuole approfondire ulteriormente la discussione, ci si potrebbe chiedere quale sia a sua volta l'origine dell'errore analitico che abbiamo individuato. Si potrebbe pensare che esso fosse inevitabile, dato il carattere di rivendicazione identitaria che ha avuto la creazione stessa di Rifondazione, carattere che implica la difficoltà di rimettere in discussione un punto fondamentale come l'opposizione destra/sinistra. Oppure si potrebbe pensare a un calcolo più cinico, e dire semplicemente che i dirigenti di Rifondazione sapevano di avere scarse possibilità di continuare la loro vita di dirigenti politici al di fuori di un qualche tipo di alleanza col centrosinistra, e hanno preferito non rischiare. Probabilmente c'è qualcosa di vero in entrambe queste osservazioni, ma è anche vero che difficilmente un unico fattore causale sarà sufficiente a comprendere queste dinamiche.
In ogni caso, ci sembra che il punto fermo a cui ci ha portato la discussione, e che rappresenta un contributo alla problematica cui abbiamo accennato all'inizio, sia proprio il fatto che un partito di autentica opposizione deve pensare, oggi in Italia, che l'intero ceto politico, di destra e di sinistra, è al servizio dell'avversario e deve essere combattuto con uguale radicalità e intransigenza.
(Marino Badiale)

5 commenti:

  1. Non c’è dubbio che il carattere indentitario ha pesato, e anche molto. Non dimentichiamoci che la nascita di Rifondazione coincide con la fine del Pci e che quel partito fu fondato da Cossutta e Garavini. Condivido in pieno l’errore di posizionamento, la partecipazione ai governi di centro-sinistra e l’adesione a Maastricht. C’è un episodio che racconta Bellofiore, che avvertì Bertinotti dell’errore di avviare il processo che portò alla moneta unica. Personalmente, vista la storia, credo che questi errori fossero inevitabili. Perché il problema principale della sinistra è quello di non aver fatto, fino in fondo, i conti con la storia del ‘900. Comprendere quella natura, comprendere che il movimento comunista in Italia fosse legato strettamente alla storia della divisione in due blocchi, che giocasse un ruolo così importante perché rappresentava esso stesso quella realtà, significherebbe liberarsi anche di quella storia e di quella particolare interpretazione del marxismo rappresentata dall’Unione Sovietica. Non a caso, la destra del PCI era rappresentata da Amendola e Napolitano, stalinisti al tempo di Stalin.
    Senza un’analisi di quella storia, non è possibile costruire una forza realmente radicale e alternativa. Occorrerebbe molto più spazio per approfondire questi concetti. Per il momento mi limito a queste scarne considerazioni.

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  2. Non c’è dubbio che il carattere indentitario ha pesato, e anche molto. Non dimentichiamoci che la nascita di Rifondazione coincide con la fine del Pci e che quel partito fu fondato da Cossutta e Garavini. Condivido in pieno l’errore di posizionamento, la partecipazione ai governi di centro-sinistra e l’adesione a Maastricht. C’è un episodio che racconta Bellofiore, che avvertì Bertinotti dell’errore di avviare il processo che portò alla moneta unica. Personalmente, vista la storia, credo che questi errori fossero inevitabili. Perché il problema principale della sinistra è quello di non aver fatto, fino in fondo, i conti con la storia del ‘900. Comprendere quella natura, comprendere che il movimento comunista in Italia fosse legato strettamente alla storia della divisione in due blocchi, che giocasse un ruolo così importante perché rappresentava esso stesso quella realtà, significherebbe liberarsi anche di quella storia e di quella particolare interpretazione del marxismo rappresentata dall’Unione Sovietica. Non a caso, la destra del PCI era rappresentata da Amendola e Napolitano, stalinisti al tempo di Stalin.
    Senza un’analisi di quella storia, non è possibile costruire una forza realmente radicale e alternativa. Occorrerebbe molto più spazio per approfondire questi concetti. Per il momento mi limito a queste scarne considerazioni.

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  3. A mio avviso,un'altra conferma di tale analisi la si ritrova nelle elezioni del 96 (dal lato opposto però).

    Vi ricordate la campagna elettorale della lega?

    Era proprio impostata contro "roma polo(polo delle libertà)" e contro "roma ulivo" cioè contro tutti e fu la vera novità di quelle elezioni.

    A livello nazionale prese solo il 10% se non sbaglio, e per la valida ragione di essere presente al Nord e non al Sud.

    Ma riuscì da sola a prendere un bel po' di seggi uninominali oltre alla quota proporzionale del mattarellum.

    Se ci si pensa bene Grillo (a mio modestissimo avviso e con tutte le cautele del caso), essendo il m5s candidato in tutta italia, ha replicato quel risultato solo che si è beccato i voti in uscita sia dal centrdx sia dal centrsx.

    Riccardo.

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  4. Cari amici,
    permettetemi di esprimere un certo disagio nel leggere il titolo scelto per questo saggio del Sig. Favilli.
    Come tutti ben sapere "in direzione ostinata e contraria" e' una frase, divenuta famosa e purtroppo inflazionata, di Fabrizio De Andre' (Smisurata preghiera) ed e' veramente difficile, per chi ama, come me, non solo il poeta,ma il complesso mondo del cantautore genovese, vedere questa sua frase "usata" come titolo di un saggio sulla storia delPRC.
    Nell'esprimere, seppur penso sia superfluo, il massimo rispetto per il Sig. Favilli e la storia del PRC, penso che anche la scelta di un titolo, meno incline alle leggi del marketing e piu' consono all'universo di riferimento della storia che si ricostruisce, sia un primo importante passo per un'autocritica autentica.
    Sperando di non esservi sembrato eccessivo vi saluto tutti.

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  5. La sintesi del suo articolo è riassumibile con una dichiarazione di Bertinotti intervistato dai giornalisti a proposito della riduzione delle indennità parlamentari, le sue parole sono state queste." Ho lavorato una vita ed ho diritto al vitalizio"; ecco , il linguaggio ha un peso , è il mezzo con cui noi esprimiamo i nostri pensieri e in questa frase è concentrato il fallimento di Rifondazione, compagni lavoratori io ho lavorato per voi ed ho diritto al risarcimento se poi voi verrete spazzati dal neoliberismo non è certamente colpa mia , questa la sostanza della parole di Bertinotti.
    Per andare oltre la polemica, io ho conosciuto localmente molte persone che si sono spese per i diritti della classi subalterne pur avendo avuto nulla o poco in cambio, idealisti che credevano che si potesse costruire una società migliore , ma con le loro azioni e la loro disponibilità avevano un grande seguito popolare, riuscivano a trascinare ed a fare politica senza andare nel salotto di Porta a Porta; in definitiva teorizzare di meno ma fare di più per gli altri porta ad un consenso che oggi è inimmaginabile, intrattenere relazioni ed aiutare le persone a risolvere i loro problemi , collaborare , uscire dallo snobbismo intellettuale fine a se stesso e ristretto ad una cerchia di persone limitata crea consenso, andare nelle piazze come del resto ha fatto Grillo ma con idee meno confuse mobilità fasce sociali in difficoltà e disarmate rispetto alla crisi, insomma per fare proselitismo servono persone in carne ed ossa che nelle piazze, nelle fabbriche , nelle scuole con umiltà cerchino di aiutare chi è in difficoltà, una Emergency nazionale in grado di erogare servizi e idee a chi non se li può permettere!

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