giovedì 23 gennaio 2014

Un intervento di Mauro Bonaiuti


(riceviamo e pubblichiamo volentieri)
M.B.

Ecco la fine della crescita

ovvero: tecnocrazia stadio supremo del capitalismo?

Mauro Bonaiuti

Il fatto

Il 14 novembre scorso - davanti alla platea degli esperti del Fondo Monetario Internazionale, riunito per la sua 14 riunione annuale, – Larry Summers, uno dei più scaltri e influenti economisti americani, ex Segretario del Tesoro, ha pronunciato un discorso per molti versi eccezionale in cui, per la prima volta in contesto ufficiale, si è parlato esplicitamente di "stagnazione secolare" o come qualcuno l'ha ribattezzata di “Grande stagnazione": a cinque anni dalla Grande Recessione - dice Summers - nonostante il panico si sia dissolto e i mercati finanziari abbiano ripreso a salire, non c'è alcuna evidenza di una ripresa della crescita in Occidente. Il discorso di Summers è stato ripreso da varie testate economiche (Financial Times, Forbs, e in Italia da Micromega e la Repubblica) oltre che dal premio Nobel Paul Krugman, che già da qualche tempo andava sostenendo tesi assai simili dal suo blog sul New York Times.

Nonostante il discorso di Summers e la conferma di Krugman abbiano ovviamente provocato molte reazioni, le loro affermazioni non hanno ricevuto sostanziali smentite, soprattutto da parte dei responsabili delle istituzioni economiche americane e occidentali. Insomma, la notizia è ufficiale: l'età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia. Come ex-eretico, dunque, sento l'urgenza di intervenire su un tema che avevo anticipato nel mio ultimo libro La grande transizione seppure partendo da premesse molto diverse da quelle di Summers e Krugman.

L'analisi del problema

Chiariamo per cominciare come Summers e Krugman giungono alle loro conclusioni. Va detto innanzitutto che, nonostante qualche cenno al rallentamento dell'innovazione e della crescita demografica, le ragioni profonde del declino delle economie occidentali avanzate restano sullo sfondo. Il punto di partenza di Summers è pragmatico. Poichè i flussi finanziari rappresentano ormai le interconnessioni indispensabili al funzionamento del sistema economico, il collasso della finanza del 2007 ha comportato una sostanziale paralisi del sistema. È un po come se, argomenta Summers, in un sistema urbano venisse d'improvviso a mancare l'80% della corrente elettrica. Tutte le attività ne risulterebbero paralizzate. Quando tuttavia la corrente elettrica viene ripristinata, ci si aspetterebbe un ripresa dell'attività economica su livelli maggiori di quelli anteriori alla crisi: questa ripresa non c'è stata. Come si spiega questa ripresa deludente? Secondo Summers e Krugman, le trasformazioni strutturali del sistema hanno portato il tasso di interesse naturale, cioè il tasso che mantiene in equilibrio i mercati finanziari e garantisce condizioni prossime alla piena occupazione, a divenire stabilmente negativo. Per quanto incredibile possa sembrare, i due grandi economisti ci stanno dicendo che, per convincere le imprese ad investire in misura sufficiente da garantire la piena occupazione, bisognerà non solo offrire loro denaro a costo zero, ma addirittura far sì che possano renderne meno di quanto è stato prestato.

In altre parole, dunque, Summers e Krugman ci stanno dicendo che le condizioni strutturali del sistema economico sono tali per cui le imprese si aspettano mediamente che il valore di ciò che viene prodotto e venduto sia inferiore al costo di produzione (una volta dedotto una sorta di profitto normale). Naturalmente questo potrebbe sembrare un problema innanzitutto delle imprese, se non fosse che viviamo ormai in una “società di mercato” e dunque i redditi nelle loro diverse forme, e con essi la nostra vita materiale in quasi ogni sua forma, dipendono ormai interamente dalla possibilità che la macchina economica continui a funzionare.


La tentazione tecnocratica

Anche il non economista potrà a questo punto intuire che qualcosa di potenzialmente molto pericoloso si intravede in questa rappresentazione del prossimo futuro. La possibilità di realizzare investimenti profittevoli è infatti la molla fondamentale dell'attività capitalistica e dire che per convincere gli imprenditori ad investire sarà necessario offrire loro tassi di interesse negativi, sostenendo inoltre che questo non è uno spiacevole e temporaneo inconveniente ma “un inibitore sistemico dell'attività economica”, significa riconoscere implicitamente che il capitalismo è ormai un sistema entrato nel reparto geriatrico e che per mantenerlo attivo è necessario offrirgli dosi di droga finanziaria almeno costanti (ma di fatto crescenti).

Su questo ultimo punto Krugman è esplicito: “Ora sappiamo che l'espansione del 2003-2007 era sostenuta da una bolla speculativa. Lo stesso si può dire della crescita della fine degli anni '90 (legata alla bolla della new-economy). Nello stesso modo anche la crescita degli ultimi anni dell'Amministrazione Reagan fu guidata da una ampia bolla nel mercato immobiliare privato”. La conclusione è chiara: “no buble no growth” cioè senza speculazione finanziaria non c'è più crescita, e lo stesso Summers avverte che i provvedimenti presi per regolamentare i mercati finanziari potrebbero essere controproduttivi, rendendo ancora più alti i costi di finanziamento per le imprese.

Naturalmente Krugman e Summers si guardano bene dal trarre conclusioni pessimistiche sulla salute di lungo termine del capitalismo, come evitano con cura di allargare l'analisi sulle cause del malessere economico fino a comprendere tutti quei costi sociali ed ambientali che non rientrano nel calcolo degli indicatori economici tradizionali.

Tuttavia, anche limitando l'analisi a questi aspetti economici, lo scenario presentato è estremante serio e foriero di conseguenze. Questo quadro si chiarisce ulteriormente analizzando le proposte di intervento pensate dai due economisti, che indicano come sarebbe concretamente possibile rianimare un'economia nelle nuove condizioni di tasso di interesse naturale stabilmente negativo.

La prima proposta suona come una revisione in salsa tecnocratica dei tradizionali incentivi keynesiani alla spesa. Secondo Krugman si potrebbe decidere, ad esempio, di dotare tutti gli impiegati di Google Glass (una sorta di occhiale multimediale) e altri strumenti che consentono di essere perennemente connessi ad internet. Anche se poi ci si accorgesse che si tratta di una spesa inutile, questa decisione politica sarebbe comunque positiva in quanto costringerebbe le imprese ad investire... Ovviamente sarebbero preferibili spese “produttive”, ma nello scenario attuale non si può andare tanto per il sottile: anche spese improduttive sono meglio di niente.

Ma questo evidentemente non può bastare. Di fronte a un tasso di interesse naturale stabilmente negativo occorre spingersi oltre. Per Krugman un modo ci sarebbe: “si potrebbe ricostruire l'intero sistema monetario, eliminare la cartamoneta e pagare tassi di interesse negativi sui depositi.” Traducendo per i non economisti questo significherebbe niente meno che togliere la possibilità ai cittadini di comprare e vendere attraverso la moneta cartacea (che per definizione non costa nulla) e rendere forzose la transazioni con carta di credito, appoggiata necessariamente su conti correnti sui quali sarebbe tecnicamente possibile un prelievo forzoso di alcuni punti percentuali l'anno. In questo modo si costringerebbe la gente a spendere di più (la ricchezza infatti si deprezza restando immobilizzata su un conto in cui si paga un interesse invece di riceverlo) consentendo inoltre di allettare, con il ricavato, le imprese recalcitranti ad effettuare nuovi investimenti. Un'altra soluzione proposta prevede di alimentare un tasso di inflazione crescente che porterebbe agli stessi risultati, riducendo progressivamente il potere di acquisto dei cittadini in modo ancora più subdolo e surrettizio.

Se queste sono le idee che sorgono alla “coscienza di un liberale” (per riprendere il titolo della rubrica di Krugman) per far fronte all'incapacità ormai cronica del capitalismo di crescere, non è difficile immaginare cosa, a partire dalla stessa lettura della realtà, potrebbe venire in mente a chi, per tradizione, ha sempre auspicato risposte tecnocratiche e autoritarie alle crisi del capitalismo. E' evidente che, una volta imbracciata questa logica, tutto si giustifica, e anche le normali libertà, come quella di decidere come e dove impiegare i propri risparmi, divengono sacrificabili sull'altare di qualche punto percentuale di PIL. La prospettiva è chiara: tutti, volenti o nolenti, credendoci o meno, si dovrà partecipare al nutrimento forzoso – per via finanziaria – della macchina capitalista.

Quanto detto è sufficiente a capire su quale sentiero si potrebbe incamminare il “riformismo neo-keynesiano” (con l'appoggio degli ex neoliberisti alla Summers) nell'era dei rendimenti decrescenti. Il tutto è tanto più serio in quanto ci troviamo di fronte non ad una crisi congiunturale, per quanto grave, ma ad un processo di rallentamento strutturale e, sopratutto, progressivo. E qui veniamo al secondo punto fondamentale.

Rendimenti decrescenti e l'impossibile ritorno al passato

Anche se si decidesse che il funzionamento della macchina economica è l'interesse supremo cui tutto è sacrificabile, dove ci porterebbe questa scelta? Cosa dire della base materiale ed energetica su cui fondare il rilancio della crescita? Su questo naturalmente i due economisti non spendono una sola parola. Perché è evidente che per quanto affidato alla finanza, un ritorno della crescita significa nuove risorse naturali da utilizzare, prodotti da vendere per poi gettare rapidamente, tutto per tenere in movimento - da una bolla speculativa all'altra - la macchina economica globale.

Qui si evidenzia la differenza incolmabile tra il keynesismo terminale di Krugman e il rilancio del sistema industriale immaginato, (peraltro con ben altre finalità) negli anni Trenta da Keynes. Quello che gli economisti tardo keynesiani sembrano non capire è quanto il contesto sia completamente mutato rispetto all'età della crescita: dove possiamo oggi costruire case o infrastrutture per rilanciare occupazione e consumi, dove trovare nuove risorse energetiche e materie prime a buon mercato, come creare nuovi consumatori offrendo loro modelli di vita capaci di trasformare in pochi anni intere società?

Se, come credo, le economie capitalistiche avanzate sono entrate già da quaranta anni in una fase di rendimenti decrescenti questo non dipende solo dalla riduzione nella produttività degli investimenti delle multinazionali. Siamo di fronte ad un fenomeno di ben più vasta portata che comprende la riduzione della produttività dell'energia (EROEI), dell'estrazione mineraria, dell'innovazione, delle rese agricole, dell'efficienza dell'attività della pubblica amministrazione (sanità, ricerca, istruzione), oltre che di una sostanziale riduzione della produttività legata al passaggio da un'economia industriale a una fondata sostanzialmente sui servizi. E sopratutto, cosa che manca completamente nell'analisi di Summers e Krugman, si tratta di un fenomeno evolutivo e dunque incrementale.

I rendimenti decrescenti, inoltre, non comportano solo una riduzione dei rendimenti dell'attività economica quanto, piuttosto, un generale aumento del malessere sociale, e questo a causa dell'aumento di svariati costi, di natura sociale ed ambientale, legati sopratutto alla crescente complessità della megamacchina tecnoeconomica, che ricadono come “esternalità” sulle famiglie e sulle comunità e che non rientrano nel calcolo degli indici economici. Occorrerà dunque ragionare in termini ben più ampi, non solo in termini di PIL, ma della capacità delle politiche di generare benessere e occupazione stabili (e in condizioni di sostenibilità ecologica e non solo economica).

In conclusione, benché sia un fatto di per sé eccezionale che i sostenitori dello status quo (sia di ispirazione neoliberista che keynesiana) siano disposti ad ammettere, pragmaticamente, la “fine della crescita”, questi non sono disposti a riconoscere che le loro proposte per tenere in vita il sistema sono ormai entrate in rotta di collisione con la libertà democratica (oltre che, da tempo, con la sostenibilità ecologica). Insomma dove il capitalismo è una cosa seria, come negli Stati Uniti, si riconoscere pragmaticamente il problema, e ci si attrezza per affrontarlo. Credo tuttavia che il problema dovrebbe cominciare ad interessare anche quelli che, nella vecchia Europa come in Italia (e sono moltissimi, a sinistra, ma anche nelle reti e nell'associazionismo di base) credono ancora alla possibilità di un capitalismo addomesticato, ad un modello di "mercato regolato" che dovrebbe produrre insieme occupazione, giustizia sociale e sostenibilità ambientale.

Dal nostro punto di vista il passaggio non traumatico dalla “grande stagnazione” ad una società sostenibile richiede un ripensamento ben più profondo e radicale dei valori e delle regole di funzionamento della nostra società, una “grande transizione” che si lasci alle spalle questo modello economico e i problemi – sociali, ecologici, economici – creati dall'ineliminabile dipendenza del capitalismo dalla crescita.




11 commenti:

  1. Allora il capitalismo è un “cane morto”. Almeno in occidente. Occorrerebbe però approfondire le cause delle rendite decrescenti. Ad esempio, uno schema di crisi utilizzato da Marx è quello della caduta tendenziale del saggio di profitto. Molto controverso e dibattuto. Cioè, mano a mano che cresce l’accumulazione, il saggio di profitto non può che decrescere. A meno di non compensarlo con una crescita molto sostenuta del saggio di sfruttamento (della produttività). Secondo questo schema, che ancora qualcuno utilizza (vedi ad esempio Paolo Giussani nell’omaggio a Paul Mattick) (http://www.contra-versus.net/uploads/6/7/3/6/6736569/un_omaggio_a_paul_mattick__contra-versus.pdf)
    L’altra interpretazione mi pare sul lato della domanda. Cioè, se circolano 35 milioni di auto in Italia, è impensabile che questo mercato possa crescere ulteriormente. Ci sono naturalmente anche gli impatti ambientali che definiscono anche un limite allo sfruttamento delle risorse. E poi tutti gli effetti elencati nell’articolo. Da non trascurare poi l’analisi dell’evoluzione globalizzata del capitalismo (vedi Screpanti). Alla fine però uno schema condiviso di analisi della crisi è indispensabile per comprendere quale terapia intraprendere.

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    1. A proposito di auto: crescere no ma rinnovarsi si (vedi auto ibride ed elettriche che riducono l'impatto ambientale). E la ruota gira. Serve ricerca e sviluppo. Anche per influenzare i modelli di comportamento. Ecc.ecc.

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    2. Non ci sono soluzioni per un sistema capitalistico che sta collassando. Le risorse naturali cominciano a scarseggiare e solo una pianificazione intelligente può limitare una possibile guerra totale

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  2. "Ora sappiamo che l'espansione del 2003-2007 era sostenuta da una bolla speculativa. Lo stesso si può dire della crescita della fine degli anni '90 (legata alla bolla della new-economy). Nello stesso modo anche la crescita degli ultimi anni dell'Amministrazione Reagan fu guidata da una ampia bolla nel mercato immobiliare privato”. La conclusione è chiara: “no buble no growth” cioè senza speculazione finanziaria non c'è più crescita".
    Non sono un po' deboli le premesse di tutto il ragionamento? 40 anni è un periodo sufficiente per trarre conclusioni?

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    1. Se c'è una cosa chiara, condivisa, è che la crescita sia stata generata da bolle e dal debito. La gran parte del capitale finanziario in circolazione è debito, sono titoli e assicurazioni sul debito. Se non ci fosse stata la possibilità, soprattutto per gli americani, di comprare a debito, l'economia sarebbe crollata. Sembra un fenomeno strutturale. Credo che sia importante individuare e condividere le cause per definire una strategia alternativa.

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    2. Che la crescita sia dipesa dalla speculazione è verissimo ma appunto solo nell'era del neoliberismo.

      e infatti il liberismo come sistema, in assenza di bolle speculative, non porta crescita. e penso sia sempre stato così anche nell'800 (la grande depressione del 1870-1890 ad esempio).

      io però vorrei approfondire meglio, ma non ne ho gli strumenti, l'affermazione per cui sarebbe impossibile ritornare al sistema del trentennio d'oro. Non sarebbe possibile riprenderne i principi di base ma adattandolo ai nostri giorni? concentrarlo di più sulle rinnovabili, ecc...

      ovviamente sarebbe necessaria una rivoluzione del sistema massiccia. cosa che sappiamo essere fattibile solo tramite un forte intervento statale con drastico dimensionamento del potere dei grandi capitalisti nelle nostre società. dopotutto per arrivare al modello del dopoguerra c'è voluta appunto la guerra.
      con questa classe dirigente un modello alternativo è impossibile...al momento.

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  3. Il punto su cui mi pare alcuni commentatori sorvolano è perchè sia stata adotatta una strategia economica di tipo liberista. Se devo fare un'analisi storica, non posso partire dal punto che più s'accorda col mio punto di vista.
    Io in realtà penso che il cosiddetto liberismo coincida in realtà col liberalismo nella sua versione più coerente, ma la cosa non è evidente per tutti.
    Dovremmo smettere di considerare l'attuale politica economica come eccezionale, considerando normale quella praticata nel dopoguerra, cioè negli anni cinquanta, sessanta e settanta. E' stato quello il periodo storicamente eccezionale, a causa da una parte della crescita tecnologica in presenza di una domanda impetuosa a seguito della distruzione causata dalla guerra, e dall'altra della presenza del blocco sovietico.
    Per il resto, molti meglio di me potrebbero ricordare la caratteristica ciclica del capitalismo che ha sempre il problema di crescere troppo e di dovere poi distruggere l'eccesso di merce che produce per ripartire.
    Tuttavia, e qui so di esprimere un mio punto di vista non molto condiviso, qui c'è un elemento peculiare, dovuto al cosiddetto "monetarismo keynesiano" adottato dai governi egemoni (USA in testa naturalmente). In presenza di una domanda stagnante malgrado tutti i possiibli tipi di stimoli, malgrado il tentativo di allargare la platea di consumatori tramite gli interventi armati "umanitari" che dovevano costringere paesi recalcitranti ad adottare il modello economico occidentale, tutti regolarmente falliti, a partire dalla presidenza di Bill Clinton con la famigerata abrogazione della legge bancaria che impediva ad una banca di svolgere il duplice ruolo di banca d'affari e di banca commerciale, si è tentato di aumentare gli utili puntando sul settore finanziario. E' chiaro cosa intendo dire? Che oggi la risposta classica alla depressione, quella di pompare liquidità, è un'arma spuntata perchè tale liquidità c'è già, ma sequestrata dalle banche che la usano per non fallire. Sul mio blog ho illustrato il concetto con una metafora che però sarebbe troppo lungo riprotare qui, ma la sostanza del ragionamento è che l'unica via d'uscita è distruggere questa mostruosa liquidità che circola soltanto nei circuiti bancari, senza contribuire minimamente a far ripartire l'attività produttiva (e quindi, per quanto mi riguarda, l'occupazione).

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  4. Scusate se questo commento è OT. Cancellate pure se non va bene non griderò alla censura, che mi pare qui non ci sia mai stata.
    Volevo farvi una domanda ma per caso contropiano & co. (cioè tutto quello che ci sta dietro) ha cambiato linea politica, voglio dire ho letto questo:

    http://www.contropiano.org/politica/item/21752-tsipras-detta-le-sue-condizioni

    e mi pare che mentre prima propendevano per rimanere nell'euro adesso invece si sono allineati a "quelli di Chianciano"?

    E quelli di keynesblog e Cesaratto mi paiono sempre più spostati su posizioni €critiche ma sempre all'interno dell'€, ma dopo la svalutazione di ieri da parte dell'Argentina che smentiscono la loro linea economica (controllo dei cambi tra valute) cosa faranno?
    Il tentativo poi, (vedi giornalettismo: http://www.giornalettismo.com/archives/1313181/la-bufala-dei-premi-nobel-che-vogliono-luscita-dalleuro-secondo-salvini/ ) in un articolo scritto per smentire che 7 premi nobel siano contro l'€, anche se bisogna dire che la posizione di quei sette è più implicitamente accademica contro l'€ che esplicitamente a favore, classico caso di tempesta in un bicchier d'acqua ma che danneggia in via secondaria chi sostiene l'uscita. Cosa sapete a proposito di questi?

    Scusate se faccio queste domanda ma voi che siete più addentro a queste cose ci potete dare informazioni che ci tolgano dei dubbi.

    Naturalmente se volete rispondere e se le cose le conoscete (ovvio).

    Ribadisco se il post non è di vostro interesse o non volete rispondere cancellate pure.

    Riccardo

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    1. In effetti il commento è un po' fuori tema rispetto al post di Bonaiuti, ma tocca ovviamente argomenti di cui questo blog si occupa.

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  5. Aggiungerei che l'innovazione tecnologica / informatica impedisce un aumento dell'occupazione. Pertanto la vera questione si limita alla distribuzione della ricchezza che può avvenire solo con il superamento del capitalismo. La vedo dura.

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    1. Mi perdoni, ma l'innovazione tecnologica impedisce un aumento dell'occupazione solo nei settori dove è direttamente implementata. Che impedisca l'occupazione in generale è una vecchia fallacia luddista.

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