mercoledì 30 aprile 2014

Una proposta sospesa

Uno dei temi di fondo delle discussioni sulla crisi attuale riguarda la possibilità di riproporre nel contesto attuale le politiche riformiste e keynesiane tipiche del trentennio seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ne abbiamo parlato in vari post, per esempio qui. Discutendo con vari amici si era pensato di organizzare un convegno su questi temi. Per vari motivi non siamo riusciti a concretizzare l'idea, che è quindi rimasta sospesa. Nel frattempo avevo scritto una breve presentazione della proposta di convegno, e ve la propongo adesso. Magari qualcuno dei lettori è più bravo di me a mettere insieme gli ingredienti necessari a concretizzare l'idea.
(Marino Badiale)




Per un convegno sulla crisi degli anni 70.
La crisi economica iniziata nel 2007/08 non è ancora stata superata, nonostante le assicurazioni sul fatto che “il peggio è passato” diffuse periodicamente dalle autorità economiche e politiche. La domanda fondamentale è naturalmente, ancora una volta, “che fare?”. Quale può essere la strategia, quali le scelte politiche ed economiche che possono portarci fuori da una crisi che sta impoverendo massicciamente intere popolazioni?
Il mainstream economico e politico ha, ovviamente, la risposta pronta: si tratta di continuare nelle politiche di liberismo economico, approfondendole e generalizzandole. Occorre cioè distruggere tutto ciò che i ceti popolari hanno conquistato nei decenni del dopoguerra, e tornare ad un capitalismo di tipo ottocentesco, ferocemente disegualitario. Senza nemmeno nessuna garanzia che queste politiche facciano davvero ripartire l'economia, visto che si tratta proprio delle stesse linee di pensiero e di azione che ci hanno portato alla crisi attuale.
Se vogliamo salvare quel poco che resta di civiltà nel nostro paese, occorre contrapporsi in maniera ferma alla coazione a ripetere di un neoliberismo che sembra davvero aver toccato, con questa crisi, i suoi limiti. Il vero problema, per le forze antagoniste, è quale tipo di proposte di politica economica contrapporre alle politiche neoliberiste. Se guardiamo al panorama dei dibattiti attuali fra gli economisti, appare evidente che le uniche posizioni che possano seriamente insidiare l'egemonia del “pensiero unico” neoliberista sono quelle che possiamo definire “keynesiane”, prendendo questo termine in senso molto lato. Si tratta cioè di quelle posizioni teoriche e pratiche che in vario modo ripropongono politiche di pieno impiego, di redistribuzione del reddito, di sostegno alla domanda, di forte intervento statale nell'economia, di forte regolamentazione e limitazione dei movimenti di capitale e in generale della sfera delle finanza.
Se vogliamo che un movimento antagonista abbia delle possibilità effettive di incidere sulla realtà politica, occorre porsi il problema se queste proposte di tipo keynesiano siano realistiche, se cioè sia oggi davvero possibile, nei paesi occidentali, il rilancio di una stagione riformista paragonabile a quella del “trentennio dorato” del secondo dopoguerra. Ora, la risposta a questa domanda non può eludere l'analisi del nodo storico degli anni Settanta del Novecento, cioè degli anni in cui, appunto, entra in crisi il modello “keynesiano-fordista”, che affonda nelle sabbie della “stagflazione”, e viene lentamente elaborato il capitalismo “neoliberista-globalizzato” che si imporrà negli anni Ottanta a partire dagli USA di Reagan e dall'Inghilterra della Thatcher, e che continuerà a celebrare i propri fasti  fino alla crisi attuale. La domanda cruciale da porsi è quella relativa al perché in quegli anni entri in crisi il keynesismo. Le risposte possibili ci sembrano essenzialmente di due tipi: un primo punto di vista è quello di chi ritiene che la crisi del keynesismo sia dovuta a fattori contingenti, a particolari situazioni storiche (per fare un solo esempio, i due shock petroliferi del '73 e del '79), sulle quali si  innesta una offensiva ideologica che i think tanks conservatori andavano preparando da decenni. Un diverso punto di vista è quello di chi ritiene che la fase di forte crescita del “trentennio dorato”, che ha permesso le politiche di Welfare State, di piena occupazione e di redistribuzione del reddito, fosse legata a particolari condizioni storiche, esaurite le quali le politiche di tipo keynesiano erano destinate a scontrarsi con i propri limiti, dimostrandosi incapaci, nella nuova situazione, di sostenere l'accumulazione capitalistica. Per fare un esempio, le particolari condizioni storiche che hanno permesso il forte sviluppo negli anni del secondo dopoguerra potrebbero essere rappresentate, fra l'altro, dalla presenza di ampi mercati per i beni durevoli di massa (automobili, elettrodomestici) prodotti dalle nuove fabbriche “fordiste”, e la saturazione di tali mercati potrebbe aver rappresentato uno degli elementi di crisi del modello keynesiano-fordista.
La risposta che si dà a queste domande condiziona in modo decisivo la strategia politica delle forze antagoniste. Infatti, se si ritiene che la crisi del keynesismo negli anni Settanta sia dovuta a motivi contingenti, è ragionevole pensare che tali motivi possano essere rimossi e che sia dunque possibile pensare ad una nuova fase di politiche economiche di tipo “riformista” e appunto “keynesiano”. In tal caso, sarebbe ragionevole la ricerca di un nuovo tipo di “borghesia progressista” con la quale cercare di ripetere le tipiche politiche novecentesche di alleanza fra forze riformiste e forze radicali. Importanti economisti progressisti come Krugman, Stiglitz o Fitoussi potrebbero allora essere visti come l'avanguardia intellettuale di una tale borghesia.
Se invece la crisi del keynesismo è dovuta all'esaurimento delle condizioni strutturali che ne avevano permesso i successi nel trentennio 1945-1975, e se oggi non c'è indicazione del riemergere di condizioni analoghe, allora la conclusione politica dovrebbe essere, necessariamente, quella dell'improponibilità delle politiche keynesiane come risposta alla crisi attuale. Questo non significa che un movimento antagonista debba rifiutare in blocco tali politiche, ma piuttosto che esso dovrebbe pensare ad una nuova strategia complessiva di tipo politico-economico, diversa da quella “classica “ del keynesismo-fordismo, all'interno della quale inserire, eventualmente, anche politiche di tipo keynesiano. Questa nuova strategia non potrebbe ripetere le classiche politiche della sinistra del Novecento e dovrebbe cercare strade nuove e nuove alleanze.
Da queste considerazioni discende la nostra proposta di un convegno dedicato all'analisi della crisi del keynesismo-fordismo degli anni Settanta. Si tratterebbe, come appare chiaro da quanto fin qui detto, non tanto dell'approfondimento scientifico di un problema storico (in ogni caso meritevole di attenzione) ma di un tentativo di collegare l'analisi storica ed economica alle pressanti domande sopra indicate. Si tratta naturalmente di un argomento ben delimitato, come è necessario sia per permettere una indagine scientifica. Ma l'argomento proposto permette di aprire l'analisi a molti altri aspetti della realtà attuale (la finanziarizzazione dell'economia, il debito pubblico, l'assenza di un soggetto politico antagonistico, l'egemonia del pensiero unico), perché essi sono il risultato di una dinamica storica le cui radici stanno appunto negli anni Settanta e nella crisi del “keynesismo-fordismo”. L'organizzazione del convegno dovrebbe cercare di mettere assieme studiosi critici del liberismo di diverse impostazioni teoriche (per dare un'idea: keynesiani e critici “radicali” sia del keynesismo sia del neoliberismo). La richiesta agli studiosi coinvolti dovrebbe essere quella di collegare l'analisi scientifica alle questioni politiche sopra delineate, con l'ambizione di tentare una sintesi delle varie interpretazioni per consentirci un passo in avanti nei confronti sia dei problemi del presente sia delle prospettive future.



14 commenti:

  1. Provo a dare il mio contributo, per quello che ho capito approfondendo i temi negli ultimi anni.
    Primo punto: il neo-liberismo. Non è vero che il neo-liberismo sia in contrapposizione col keynesismo. Le politiche di Reagan (supply side economics) terminarono nel 1987 con una crisi che rischiava di far franare il sistema. Come terminò? Col keynesismo militarizzato. Scudi spaziali, guerre stellari, disavanzi pubblici notevolissimi. Se poi si osservano le politiche repubblicane degli USA, il più “spendaccione” è stato proprio Bush jr. Guerre del golfo, Afganistan, ex Jugoslavia, e chi più ne ha più ne metta. Il neo-liberismo è “liberismo” solo nei confronti del lavoro. Bassi salari, fine delle tutele, appassimento del welfare. Del resto in Italia abbiamo assistito allo stesso fenomeno. Berlusconi e la spesa pubblica, Sacconi e le riforme del lavoro. A risanare i bilanci ci ha pensato la “sinistra”, con i due governi Prodi, Ciampi, Padoa Schioppa.
    Del resto, senza debito non c’è profitto. Una delle recenti acquisizioni della teoria economica recente è quella del cosiddetto “circuitismo”, in particolare quello di Augusto Graziani. Senza debito, pubblico e privato, non si possono “monetizzare” i profitti. È semplice da comprendere. Come farebbero i lavoratori a comprare la parte relativa al “plusvalore” se non a debito? Pubblico o privato. Il fenomeno americano (ma non solo) del debito privato ne è una dimostrazione. Se devo comprare una macchina, prendo un prestito, la pago a rate. Una casa? Faccio un mutuo. Il dentista? Chiedo alla banca. Gli studi universitari dei figli? Altro prestito. In questo caso si parla di “keynesismo privatizzato”, una spesa autonoma, non pubblica, che serve a comprare il prodotto. È questo il modo con cui gli USA hanno trainato l’economia mondiale. Fino al 2007. E la Gran Bretagna ha il debito privato pro-capite più alto del mondo.
    Parlare allora di politiche keynesiane allora può essere ambiguo. Per far funzionare il capitalismo e per sostenere l’accumulazione di capitale, occorre fare più debito. Il sistema cresce di bolla in bolla. Solo che occorre chiedersi cosa accade quando questo debito diventa “insostenibile”. La catena di Sant’Antonio prima o poi si spezza. SI può provare a decuplicarlo il debito, a fare il salto di qualità. Il problema è che quando si spezza, quando i creditori vogliono indietro anche una piccola parte della moneta, allora sarà sempre più difficile restituirla. Occorre rinunciare al pagamento in natura (il welfare), occorre lavorare sempre di più, sempre di più, per pagare questo maledetto debito.
    È per questo che le politiche keynesiane “buone” oggi non sono sostenibili, al pari di quelle militarizzate. In fondo servono a spostare il problema più in avanti, ad affrontarlo in forme sempre più gigantesche, sempre più devastanti.
    Allora, quali sono le soluzioni? Una, quella classica, è quella di distruggere capitale. È quello che è avvenuto nel 2007-2008, ma non basta. Una guerra mondiale, ad esempio, potrebbe affrontare efficacemente il problema. Ma una guerra mondiale oggi, con armi nucleari, non sembra percorribile.
    L’altra soluzione, improbabile, è provare ad uscire da questo sistema. Significa impostare la produzione per i valori d’uso, anche a tassi di profitto bassi o nulli. Provare a gestire direttamente l’economia, da parte dei lavoratori. Un cosiddetto new deal impostato con investimenti pubblici finalizzati a produzioni sociali. Significa avere il potere di decidere cosa produrre, in quale quantità e soprattutto come. Al di fuori delle regole di mercato.
    Per una proposta più articolata, consiglio di vedere Bellofiore e la “socializzazione degli investimenti”.

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    1. Non c'è bisogno: quel che hai scritto è già bellofiorismo al 100% ;)

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  2. Mi sono chiesto tante volte cosa abbia determinato la crisi del keynesismo. Forse la spiegazione migliore è quella di Streeck e... Marx. Il punto di partenza, per me, è questa analisi di PIER CARLO PADOAN, riprese da Cesaratto:
    http://keynesblog.com/2014/02/27/la-coerenza-di-padoan-da-marx-a-renzi-ma-sempre-contro-keynes/

    Prendiamo Marx:

    "Supponendo uguali tutte le altre circostanze, se il salario cresce, il lavoro non retribuito diminuisce in proporzione. Ma non appena questa diminuzione tocca il punto in cui il pluslavoro che aumenta il capitale non viene più offerto in quantità normale, subentra una reazione: una parte minore del reddito viene capitalizzata, l'accumulazione di capitale viene paralizzata e il movimento dei salari in aumento subisce un contraccolpo. L'aumento del prezzo del lavoro rimane dunque confinato entro limiti che non solo lasciano intatta la base del sistema capitalistico, ma assicurano che la sua riproduzione su scala crescente. La legge dell'accumulazione capitalistica.... esclude ogni diminizione del grado di sfruttamento del lovoro e ogni aumento del prezzo del lavoro che espongano ad un serio pericolo la costante riproduzione, e su scala sempre più allargata, del rapporto capitalistico"

    Vedete come Padoan riprenda proprio Marx; e lo fa anche Streeck nel suo "tempo preso a credito". I lavoratori ottengono delle vittorie? I governi, condizionati dagli elettori, adottano politiche pesantemente redistributive? Il sistema va in crisi, la valorizzazione del capitale si impanna, e i capitalisti entrano in sciopero. Mi sembra che si possa dire che si tratta di un meccanismo pressoché automatico; anzi, mi ricorda una molla. Cioè, più i lavoratori ottengono qualcosa, peggiore è la reazione che si devono attendere... in forma armata (Cile), o in forma economica (più frequente): inflazione, svalutazione, sciopero degli investimenti, debito pubblico, finanziarizzazione...
    A pensarci bene è naturale. Se la base della società capitalista è la valorizzazione del capitale, ciò che mette in crisi quest'ultima manda in crisi lo stato. Lo stato (in senso lato) reagisce! È ovvio.
    Se così stanno le cose, il keynesismo non ha semplicemente senso politico, ed è insostenibile.
    Ciò che avrebbe senso politico è lo smantellamento del capitalismo; ma per far ciò bisogna uscire dai limiti del discorso economico/sindacale, e porsi il problema della conquista (e della trasformazione) del potere. Tuttavia, la bancarotta dello stalinismo ha annientato la credibilità di una simile prospettiva, per le passate e future generazioni.

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    1. Beh, se non ti convince Bellofiore, sei libero di non ascoltarlo. Le conclusioni del tuo discorso potrebbero essere molto simili. A patto che si definisca bene cosa vuol dire "smantellare il capitalismo" e qual'è il soggetto che lo dovrebbe attuare. Personalmente non credo proprio nella soluzione stalinista/statalista. Credo invece che dovremmo porci il problema della transizione. Cioè un processo di trasformazione che non è immediatamente socialismo. La "socializzazione degli investimenti" va in quella direzione. Naturalmente le idee e le posizioni posssono essere tante. Ad esempio, sono molto interessato alle idee di Daniele Pace, alla vera sovranità monetaria. Ci sono praterie su cui poter scorazzare.

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    2. Guarda che a me Bellofiore convince. E l'espressione "bancarotta dello stalinismo" dovrebbe essere chiara riguardo alla mia posizione su quell'esperienza storica.

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    3. Sulla bancarotta dello stalinismo sono perfettamente d'accordo. Sulle conseguenze per niente. Non condivido che la "bancarotta" abbia annientato la prospettiva della trasformazione socialista. Ha annientato quella prospettiva, per fortuna. Il socialismo non è mai esistito fino ad oggi, dobbiamo inventarcelo. Non noi che scriviamo in questo blog, ma il movimento dei lavoratori, se ci sarà. Altrimenti non possiamo che assistere alla barbarie (che già è in atto) e aspettare che il Capitale risolva la sua crisi con un gigantesco processo distruttivo.

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    4. Mettiamola così: lo stalinismo ha ucciso per sempre la stessa idea di comunismo. E siccome tutte le prospettive propriamente politiche del movimento operaio (mi riferisco alla questione della presa del potere) erano legate a doppio filo all'idea di comunismo, io mi limito a constatare che in questo momento le prospettive politiche del movimento operaio sono, semplicemente, annientate.
      Non voglio apparire pessimista. Mi sembra davvero che sia così. È chiaro che ci attende un lavoro di ricostruzione-ricostruzione che però passa atrraverso un'opera di demolizione, di demolizione dell'ideologia del capitale. È questo che dovremmo fare, in quanto blogger: accomagnare i movimenti reali che nascono incessantemente dalle contraddizioni del capitale con un analisi destrutturante e disarticolante dell'ideologia borghese. Ora come ora NON lo stiamo facendo.

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    5. Aggiungo: nessuna opera di destrutturazione dell'ideologia dominante avrà successo (e nemmeno senso) se non preceduta da una lotta senza quartiere con tutti i lasciti dello stalinismo. Tali lasciti sono molto, molto più numerosi e influenti di quanto si possa pensare.

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    6. Su quest'ultima affermazione concordo pienamente. Io dico che quel "comunismo" è morto e sepolto. Chiamamolo "comunismo", ma i meccanismi di accumulazione erano molto simili a quelli capitalistici. Questa è la verità e da questo occorre partire per inventarsene uno che risolva le contraddizioni del Capitale.

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  3. Il socialismo è l'obiettivo storico che la lotta di classe ha assunto nel XIX e XX secolo.
    Nella realtà odierna della globalizzazione, l'uomo consumista - produttore della società liquido moderna che passa le serate a cercare l'offerta migliore su groupon è profondamente diverso dalle masse compatte e organizzate di lavoratori dei 2 secoli passati. Lì avevamo uomini che condividevano dure ore di lavoro assieme per anni, condividevano interessi e non avevano nessuna speranza di migliorare la propria condizione se non attraverso l'avanzamento del gruppo sociale a cui appartenevano. L'iperindividualismo che è stato indotto oggi ha spazzato ogni senso di comunità e di appartenenza ad un gruppo. Forse questo è solo sopito e potrebbe riermergere, Secondo me dobbiamo interrogarci profondamente su chi sia l'uomo e la donna di oggi, capire le sue pulsioni, i suoi interessi le sue debolezze. Riproporre le vecchie ideologie è improponibile, serve qualcosa di completamente nuovo che faccia proprie le finalità di giustizia che la maggior parte della popolazione condivide.
    Mauro S.

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    1. Però le contraddizioni sono rimaste. Tali e quali. Anzi, molto ingigantite. Il profitto di qualcuno è il debito di qualcun altro, è inevitabile. E' il meccanismo stesso che ti obbliga a comprare a debito la parte che non ti riconosce come salario. Perché se non te la compri, non si monetizzano i profitti. E se non si fanno profitti, non investono. Allora, per sopravvivere, dobbiamo consumare, consumare, consumare. Indebitarci, indebitarci, indebitarci. E quindi lavorare, lavorare, lavorare. Il lavoro in occidente si è spostato verso il terziario. Ma nel mondo, gli operai che stanno alla catena di montaggio, sono aumentati, non diminuiti. In ogni caso, anche se è vero che soggettivamente siamo sempre più dispersi e individualisti, questa crisi ci pone davanti un problema di sopravvivenza. Più procede l'accumulazione, più aumenta il debito, pubblico e privato. E se non riusciamo a trovare il modo per aggregarci, per trovare una strada diversa, per impiegare il nostro lavoro per prodotti socialmente utili, ci troveremo in una situazione sempre peggiore. Non si ripropongono vecchie ideologie. Anzi, si propone di trovare strade nuove ma che riescano ad andare al cuore del problema.

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  4. IL PARADOSSO DELL’ODIERNO ANTIFASCISMO

    Vi propongo un commento interessante, che condivido, in risposta ad un articolo di Diego Fusaro sul fascismo, perché io non credo che il capitalismo debba essere smantellato e nemmeno che non sia possibile praticare oggi politiche economiche keynesiane (anche se ne so meno di voi), perché finora il capitalismo per i paesi occidentali ha rappresentato molti vantaggi (democrazia, welfare state, aumento della durata della vita, progresso tecnologico, progresso scientifico, benessere sociale).

    Tutto ciò è avvenuto all’interno del sistema capitalistico e non comunista. Naturalmente con tutte le riserve del caso. Il capitalismo però si è dimostrato particolarmente pericoloso dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, quando, rimasto unico sistema dominante, si è trasformato in imperialismo.

    Dice infatti Gracco:
    Il capitalismo è una creatura vegetale, il suo spirito è l'accumulazione e come tale si perpetua -giustamente- anche nel collettivismo. L'imperialismo invece è una creatura animale, storicamente ed etnicamente connotata: il suo spirito è la sopraffazione, per questo nel suo grembo porta con sé il fascismo, da usare come essenziale pezzo di ricambio rispetto alla democrazia liberal-plutocratica.

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  5. Veramente interessante questo giro di posta. Sono argomenti che nei momenti mentali liberi (rari) si sono presentati spesso ed a cui non ho mai trovato una singola risposta valida. Siamo affannosamente alla ricerca del nuovo orizzonte, di un nuovo modello. A dirlo è facile ma forse non sarà possibile, non in tempi umani, direi, perché gli umani sono antropologicamente diversi, ed è questa diversità che rende tutto così maledettamente difficile.

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