domenica 5 ottobre 2014

La potenza del nemico

Continuo le riflessioni sul “perché la gente non si ribella”. Tempo fa leggevo, dal sito del “Corriere”, un articolo sull'Università, il cui contenuto non ricordo e adesso non è importante. Mi colpì un commento. Si trattava di un precario universitario che lamentava, del tutto giustamente, la propria condizione. Ciò che era interessante era la sua proposta per risolvere i problemi dell'Università e, se non ho capito male, anche quelli dei precari come lui: ovvero, rendere precari una metà degli attuali docenti e ricercatori non precari. Non è importante adesso recuperare quel commento e discutere su cosa intendesse veramente l'autore. La cosa davvero interessante è che esso è un piccolo segnale che permette di capire qualcosa sullo “spirito del tempo”. È chiaro infatti che nessuno, se subisce un'ingiustizia, chiederebbe che essa fosse subita anche da altri. Chi viene derubato in autobus se la prende con la sorte, con la mancanza di sicurezza, magari con gli immigrati, ma difficilmente dichiara che anche gli altri dovrebbero venire derubati. Una donna che subisce violenza chiede che il responsabile sia punito e che le altre donne siano più protette, non che subiscano la stessa violenza. Ma lo stesso vale per chi subisce non una ingiustizia (cioè un danno ingiusto derivante da un'azione altrui) ma una disgrazia non legata a volontà altrui: se qualcuno cade per le scale se la prende con la sfortuna o con la propria disattenzione, magari con il cattivo funzionamento della sanità se viene curato male, ma di certo non chiede che anche gli altri debbano cadere per le scale. In base a queste semplici considerazioni, uno si aspetterebbe che la richiesta di un precario sia quella di non essere più precario, cioè di essere assunto con un contratto a tempo indeterminato. Magari, addirittura, uno si aspetta  che un precario manifesti solidarietà agli altri precari, e chieda quindi che non ci siano più precari, cioè che anche gli altri precari siano assunti. Invece, sorprendentemente, abbiamo un precario che chiede di precarizzare anche chi precario non è. Cosa significa questo? Dalle osservazioni appena fatte, sembrerebbe di capire che la condizione di precarietà non è percepita come una ingiustizia e nemmeno come una disgrazia. Ma allora come viene percepita, da chi fa una proposta come quella citata? Evidentemente, viene percepita come uno stato normale, giusto e benefico per la società (perché rende più efficienti e produttivi, immagino), che purtroppo, per la solita arretratezza del nostro paese, non è distribuito secondo giustizia. Si tratta allora non di combattere la precarietà ma di rendere precario chi se lo merita, chi non è abbastanza produttivo, efficiente e così via. Si potrebbe sollevare qualche serio dubbio sul fatto che chi non è abbastanza produttivo (qualsiasi cosa significhi “essere produttivo”) lo diventi una volta reso precario, ma non è questo il punto. Il punto è, naturalmente,  che chi ragiona in questo modo ha perfettamente assorbito l'ideologia dominante. E non vale, temo, rispondere che si tratta solo di un commento ad un articolo, perché penso si tratti invece della manifestazione particolarmente chiara di un problema di fondo, del fatto cioè  che le vittime condividono i principi su cui si basa il sistema di potere di cui sono vittime. È questa la base vera della  potenza del nemico. Ma se questa è la situazione, è evidente che un peggioramento delle condizioni materiali di vita di per sé  non porta alla ribellione, perché verrà vissuto o come una disgrazia di fronte alla quale arrangiarsi, o come l'esca per una guerra fra poveri. Solo strappando i ceti subalterni dalla loro adesione al pensiero dominante, si può sperare di trasformare il disagio in rivolta. Ma come farlo, non lo sappiamo.
(M.B.)


Questo articolo è pubblicato anche su "Appello al popolo"

17 commenti:

  1. Agli autori del blog, questo commento non è inerente al tema ma è soltanto una informazione in più che se volete dare ne sarei grato, se ritenete che sia meglio di no cancellate pure.

    Dato che non si sa molto almeno in Italia di Jean Meslier prete ateo, se non per sentito dire, per chi vuole approfondire c'è questa tesi di laurea di Alessio Mulleri, relatore Professor Tomaso Cavallo - Università degli studi di Pisa, pubblicata in pdf dall'uaar (unione atei agnostici razionalisti):

    https://www.uaar.it/uaar/premio-laurea-uaar/2012/Mulleri-materialismo-critica-religione-testament-meslier.pdf

    Grazie

    Riccardo.

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  2. L'argomento è piuttosto complicato. Mi pare che la posizione espressa, cioè che la condizione di precarietà possa essere ritenuta naturale dai precari che la vivono, possa essere frutto di un eccessivo, per quanto comprensibile pessimismo (e sì che io di solito tendo al pessimismo più nero).

    Viene propagandata da decenni l'idea della perenne mobilità che porta molti chiedere la realizzazione di quelle condizioni che rendano possibile un mercato del lavoro (consentitemi questa brutta espressione) dove ci si ricolloca in maniera perfetta ed indolore. Una semplice utopia, una pericolosa favola che confonde le persone, destabilizza la società disgregandola e va a beneficio dei dominanti.

    Bisogna considerare anche il semplice terrore che questa destabilizzazione genera. Consideriamo ad esempio questo caso:

    Dipendenti di ruolo in sciopero contro le stabilizzazioni dei precari

    Ovviamente temevano questo:

    Dunque, ripetteremo le sentenze che ci obbligano ad assumere i precari ma poi l’azienda individuerà gli esuberi e attiverà le procedure di legge

    Come vedete i precari la stabilizzazione la chiedono eccome ma quando il Titanic affonda c'è il "si salvi chi può". Chiunque proponesse una lotta unitaria verrebbe visto, forse, come uno che vuol nascondere qualche fregatura dietro argomentazioni sofisticate.

    Anni fa si parlò anche di stabilizzazione di alcuni precari dell'università (gli assegnisti). Sapevo già che l'emendamento nasceva morto, era al governo Prodi e ci fu pure una epurazione nella sinistra cosiddetta radicale (ricordo vagamente i nomi di Rossi e Turigliatto ma non sono sicuro).

    Lei dice: "se qualcuno cade per le scale [..] di certo non chiede che anche gli altri debbano cadere per le scale". Questo dipende molto dalle circostanze. Restando nella metafora, se gli altri condomini approfittano della caduta per fregarti l'ascensore forse glielo auguri pure di cadere per le scale. L'università in questo meriterebbe un capitolo a parte che sarebbe troppo lungo ed OT qui.

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    1. Ho letto sotto la tua risposta al mio commento e sono d'accordo, esiste comunque una responsabilità etica individuale che va oltre ogni ideologia dominante con cui gli uomini devono fare i conti; se rifiutano di farlo allora diventano collaborazionisti dell'ideologia e si ricade nella banalità del male della Arendt, secondo la quale non è sufficente un sistema mediatico propagandistico, politico, economico per spiegare il male ; esso infatti attecchisce soltanto attraverso il disinteresse ed il conformismo generalizzati della popolazione che volge consapevolmente lo sguardo da un'altra parte per non vedere .

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  3. Citazione per citazione:

    As early as 1767, Simon Linguet declared that wage-labour is merely a form of slave labour: In his view, it was even worse than slavery. “It is the impossibility of living by any other means that compels our farm labourers to till the soil whose fruits they will not eat, and our masons to construct buildings in which they will not live. It is want that drags them to those markets where they await masters who will do them the kindness of buying them. It is want that compels them to go down on their knees to the rich man in order to get from him permission to enrich him ... What effective gain has the suppression of slavery brought him? ... He is free, you say. Ah. That is his misfortune. The slave was precious to his master because of the money he had cost him. But the handicraftsman costs nothing to the rich voluptuary who employs him ... These men, it is said, have no master – they have one, and the most terrible, the most imperious of masters, that is need. It is this that reduces them to the most cruel dependence.”

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  4. "chi ragiona in questo modo ha perfettamente assorbito l'ideologia dominante"
    Esatto. E' il risultato della guerra tra poveri che da anni viene perseguita dalle classi dirigenti italiane (e non solo).
    Ne usciremo solo facendo fronte comune come suggerito dal commento su Jean Meslier (che non conoscevo), andando oltre le ideologie e le identità.

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  5. Scusate, ma come farebbe il gregge ad avere nozione di idee diverse da quelle dominanti, nella misura in cui l'unica fonte di informazione dell'essere umano medio è la televisione, e di quello un po' istruito la televisione e i giornali - ed entrambi sono interamente abbracciati dall'ideologia mondialista?

    L'essere umano è poco più di una spugna evolutivamente programmata per assorbire i pregiudizi aggregativi dominanti nell'ambiente in cui vive. Se fosse programmato per esercitarci sopra le funzioni cognitive di cui pure dispone qualsiasi forma di vita associata diverrebbe impossibile.

    Io annovero fra le cause principali del "perché la gente non si ribella" il grande tradimento delle classi politiche estreme (per la destra e rimanendo all’Italia il MSI, per la sinistra il PCI e di tutti i partiti che ne hanno via via preso il posto a sinistra), che dimettendo le proprie narrazioni identitarie hanno consentito al regime di egemonizzare la complessione ideologica delle masse. Non tanto nel senso di far loro credere che sia quella giusta, ma nel senso di oscurare la percezione stessa dell’alterità. Il pregiudizio funzionante è quello che non viene recepito in termini di scelta: “più si scrive e più l’istituzione è debole” (de Maistre).

    Visto che siamo in vena di citazione me ne permetto una pure io: “non esiste alcuna pena che affligga l’uomo divenuto libero in modo più persistente e straziante come quella di trovare al più presto qualcosa da adorare. Ma l’uomo vuole adorare ciò che appare incontestabile, in modo che tutti si uniscano all’adorazione generale. Perché l’affanno di questa pietosa creatura non risiede solamente nel trovare qualcosa che l’uno o l’altro possano idolatrare, ma qualcosa da credere e da idolatrare tutti assieme. Questo bisogno di unanimità nell’adorazione costituisce la croce d’ogni singolo individuo e di tutta l’umanità fin dall’alba dei tempi. Per realizzarla si sono passati a fil di spada l’un coll’altro. Crearono dèi e si intimarono a vicenda: “abbandonate i vostri dèi, venite, adorate i nostri, e se non fosse così: morte a voi e ai vostri dèi!” E così sarà sino alla fine del mondo, persino nel caso che gli dèi scompaiano: fa lo stesso, piegheranno il ginocchio dinanzi agl’idoli” (Dostojewski).

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  6. Il bisogno, Roosvelt aveva messo anche questo come obiettivo del New Deal, affrancare l'uomo dal bisogno.

    Gustavo Zagrebelsky aveva fatto una conferenza sempre con l'uaar sulla laicità e c'è stata anche una digressione sul perchè la mafia nel mezzogiorno imperava, era una delle poche istituzioni che soddisfava i bisogni e sfruttava a suo vantaggio questo creando una economia criminale che ha fossilizzato il sud nella situazione che conosciamo adesso (anche con altri attori ovviamente, chiesa in primis e codazzo politco a seguire).

    Se poi ci mettiamo che i grossi problemi del sud sono cominciati con l'unità, con problemi economici derivanti dall'unione senza però aver trovato soluzione se non timidi accenni dopo la seconda guerra mondiale, con l'opera di redistribuzione e la programmazione economica che stava, molto lentamente, cominciando a ridurre le differenze.

    Adesso siamo tornati indietro di 60 anni.

    Negli USA stessi problemi, l'uomo è ormai considerato merce, come dice la tua citazione, peggio della schiavitù visto che è anche accettata e così si torna a Jean Meslier e il cerchio si chiude.

    Per questo Marx aveva messo la presa di coscienza del proletariato, io direi di tutte le classi subalterne a questo punto, come obiettivo primario.

    Sarebbe da discutere anche come evitare, se un giorno si riuscirà a costruire qualcosa di socialista, di buttare alle ortiche il lavoro fatto, come sono riusciti a fare i dirigenti della sinistra negli ultimi 40 anni.

    Riccardo.

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  7. Beh, Claudio, siamo perfettamente d'accordo, e questa costituisce una delle pietre miliari su cui Polanyi fonda la sua teoria.
    Nel campo progressista, essa costituisce l'attaco più sistematico e credibile al pensiero di Marx in due punti fondamentali.
    L'uno, quello più evidente, è nella negazione del capitalismo come uno step avanti rispetto al feudalesimo, e quindi la riduzione a favoletta del materialismo storico.
    Vi è tuttavia un altro punto che non trascurerei, ed è il riconoscimento di due fasi totalmente differenti del capitalismo, il mercantilismo e la società di mercato. E' appunto a cavallo tra settecento ed ottocento che si compie il passaggio dall'uno all'altro di questi sistemi sociali, ed uno degli elementi fondamentali è proprio costituito dal concepire l'uomo stesso come merce.
    Forse sarebbe giunto il momento di smetterla di minimizzare le falle nel pensiero di Marx, e di iniziare a valorizzare pensatori finora marginalizzati come appunto Polanyi.

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  8. Come citazione ci sarebbe anche quella di Simon Weil che, quando fece l’esperienza diretta di vita operaia, disse che i lavoratori che entrano in fabbrica equivalgono alle ragazze che entrano in un postribolo.
    Sono d’accordo con molte delle cose che sono state scritte, molto interessanti le citazioni inserite. L’unica cosa che vorrei aggiungere riguarda la frase di Peppe Dantini “ne usciremo andando oltre le ideologie e le identità”. Qui occorre una riflessione. Perché se si dice che occorre andare oltre le ideologie e le identità novecentesche, è un discorso. Se invece si pensa al superamento generalizzato di ideologie e identità, credo che ci sia un problema. Il termine “ideologia” è usato in senso dispregiativo da Marx, inteso come falsa coscienza. Pensiamo a quanta “ideologia” ci sia nella propaganda martellante di tutti i giorni. Giocano col il senso di colpa (abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità), sul debito come “colpa” (in tedesco i termini coincidono), mentre basta conoscere i rudimenti di macro-economia per comprendere che il debito (pubblico o privato) è funzionale al funzionamento del capitalismo. Se i lavoratori non hanno reddito a sufficienza, comprano a debito, e così i profitti delle aziende sono garantiti. La stessa funzione la svolge lo Stato e le spese militari americane e i suoi disavanzi dovrebbero far comprendere.
    Se invece si parla di ideologia come visione completa del mondo, non pragmatica e settoriale, ma completa, allora la mancanza di questa ideologia è proprio quello che genera i fenomeni distruttivi di cui parla Marino Badiale. Il problema è che occorre essere irriverenti verso le forme ideologiche del ‘900, verso il marxismo-leninismo di provenienza staliniana, tanto per capirci. Occorre essere capaci di smontare e rimontare. Ma senza una visione del mondo, senza identità e senza essere capaci di costruire un’organizzazione politica capace di rappresentare i soggetti sociali e dare loro obiettivi comuni, credo che la barbarie avanzerà. A vincere, da quarant’anni a questa parte, è l’altra ideologia, quella che qui è chiamata “capitalismo assoluto”.

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  9. Forse però sarebbe il caso di leggerselo Marx prima di criticarlo. Tutto è criticabile, ma non si può dire "la favoletta" del materialismo storico. Dire che il capitalismo non è un passo evolutivo del feudalesimo è inquietante. Nello stesso tempo però, il fatto che l'abolizione della schiavitù non rappresentasse di per sè la soluzione del problema era chiarissimo anche a Marx, tanto che, parlando di libertà, quando non si può sopravvivere se non vendendo la propria forza-lavoro, criticò chi pensava entusiasticamente alla nuova società. Criticare si può e si deve, prima però studiare.

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  10. Francesco, ho bestemmiato e tu mi rimbrotti, chiedendomi di studiare pur non conoscendomi neanche un po' e meno che mai sapendo quali siano le mie letture. E' evidente che la mia osservazione si legava strettamente al passo citato da Claudio rispetto a cui non hai sollevato alcun tipo di obiezione, anche se lì si dice appunto che il capitalismo abbassa e non solleva il livello di dignità degli uomini. Non avrò studiato abbastanza, dirò cose che non condividi, ma credo che tu dovresti argomentare le tue obiezioni invece di rispondere in modo dogmatico ed anche inutilmente arrogante. A proposito, la favoletta del "materialismo storico" si può dire, te lo confermo.

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  11. Condivido in parte le osservazioni di Marino Badiale. Perfetto: l'ideologia dominante è stata assimilata. E' come l'aria che si respira. Tuttavia questo ha ulteriori spiegazioni, diciamo "etologiche". Se il clima che percepisco è di "naturale" competizione lamenterò - a meno che non abbia sviluppato una certa maturità e/o ricevuto una certa educazione - l'impossibilità di competere tutti alla pari. Livellare verso il basso, togliendo diritti a tutti, sembra a molti smarriti esseri umani l'unico modo per lottare ad armi pari nella giungla. E aggiungo: purtroppo lorsignori vedono nei diritti degli altri proprio un'ingiustizia. Sebbene essa sia l'effetto di azioni del sistema, l'uomo sente il bisogno sempre di prendersela con qualche altro suo simile. Allora chi conserva diritti appare "ingiustamente" privilegiato. Sembrerebbe un riflesso condizionato simile a quello per cui, se sbattiamo il mignolo contro un mobile, e nei dintorni c'è solo nostra moglie, se siamo belli arrabbiati rischiamo di prendercela con lei che non c'entra nulla. In altre parole: la discultura della competizione di tutti contro tutti opera fin dentro i funzionamenti più profondi del cervello. Per non parlare dello spirito. Che soffia dove vuole, ma sempre con più difficoltà

    Cordiali saluti, Paolo Bartolini

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  12. L'articolo di Badiale ha comunque una crepa in quanto considera soltanto l'assorbimento dell'ideologia dominante da parte del precario , mentre sul non precario o stabilizzato non dice nulla , forse da per scontato che non abbia assorbito l'ideologia dominante oppure che l'abbia assorbita completamente; dall'esperienza comune noto che il comportamento del precario è pari a quella del non precario in quanto il non precario non solidarizza col precario ma spera di non diventarlo mai a qualsiasi costo, insomma non scarichiamo tutte le responsabilità sul precario ma semmai osserviamo che ci troviamo in pieno darwinismo sociale , in cui una fetta corposa di dipendenti pubblici se ne sbatte altamente della sorte degli altri pur avendo un potere ed una forza contrattuali enormi derivante dalle tutele che non sono previste per gli altri dipendenti, in particolare quelli delle PMI che non hanno mai avuto diritto all'art 18, che sono svariati milioni e sempre dimenticati da Dio , coloro che non hanno potere contrattuale e che non possono organizzarsi per la polverizzazione delle piccole imprese; insomma se siamo giunti al mors tua vita mea non è solo colpa dell'ideologia dominante ma del conformismo a dell'indifferenza degli uomini che si fa sentire come in altri e più catastrofici periodi storici. Quindi la responsabilità è individuale e chi chiude gli occhi e colpevole , quindi non si deve stupire se quando Cottarelli annuncia i licenziamenti nel settore pubblico si sente un'ovazione, naturalmente è un errore ma il conformismo e l'indefferenza non pagano!

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    1. E' grossomodo in linea con quello che sostenevo sopra. Ribadisco che si sta secondo me discutendo su una questione tutto sommato semplice. Non è che il precario non voglia condizioni migliori e più stabili, è che queste gli sono state talmente allontanate che ormai le considera irraggiungibili. "Lo schiavo non è tanto quello che ha la catena al piede quanto quello che non è più capace di immaginarsi la libertà" (pare sia di Agosti).

      Un diritto, quando non è dato a tutti, diventa un privilegio anche se nei fatti non lo è. Un diritto quando non lo puoi trasmettere lo hai perso (quest'ultima invece è di Cremaschi), quanto ci vuole prima che lo tolgano anche agli altri?

      Basterebbe andare in televisione a dire le cose che vengono scritte in questi blog, divulgando idee emancipative e politiche di welfare. Penso che la gente impiegherebbe molto poco a convincersene perché adesso è confusa e chiusa in gabbia dal bisogno e dalla propaganda. Ma l'accesso alla TV è blindato.

      Cosa fare? Quello che si sta già facendo, prepararsi nell'attesa che probabili prossimi peggioramenti portino questa crisi in un fase ulteriore all'attuale mortorio.

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  13. Mi dispiace di essere stato arrogante. Il passaggio di Claudio non mi è sfuggito, mi è perfettamente chiaro e lo condivido. Non condivido la visione semplicistica che Marx era un produttivista o uno "sviluppista" come qualcuno dice. La critica che fa è proprio nei confronti della visione entusiastica dell'abolizione dello schiavismo. Mi sembra noto che la definizione di proletariato come quella classe che non ha altro da vendere se non le proprie braccia, sia sua. E che considerasse questa condizione come servile. Detto questo, l'affermazione che la società borghese, affermata dopo la rivoluzione francese, non sia evolutiva mi fa pensare ad un filone di pensiero fortemente reazionario, come quello di Buttafuoco che cita Julius Evola. La conquista della cittadinanza è della rivoluzione borghese, e non mi pare che negarla sia un passo avanti. Concettualmente, quello che viene dopo, per il fatto di essere "nuovo", non necessariamente è "meglio". Su questo penso che possiamo convergere. Ma sognare il bei tempi che furono, oltre a non essere condivisibile dal mio punto di vista, non porta a nessuno sbocco. Storicamente, la reazione, porta a rafforzare i poteri esistenti, non a far tornare indietro. Cosa impossibile.

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  14. Io avrei una proposta, per capire come uscire da questo cul de sac bisognerebbe fare una conferenza molto approfondita con sociologi, antropologi, esperti di comunicazione, esperti di marketing, storici, politologi seri esecondo me anche psichiatri e psicologi e con questi trarre delle conclusioni e delle vie di uscita perchè credo che solo con degli esperti ci possa essere una risposta alla domanda dell'articolo.

    Riccardo.

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  15. Faccio sommessamente notare che il passaggio citato è tratto dl saggio "il controllo operaio" di Paul Mattick (1967), esponente della sinistra comunista e del marxismo consiliarista. Così, tanto per chiarire dove si va a parare.

    Claudio Martini

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