venerdì 5 dicembre 2014

Le parole e le cose

Di questi tempi appare abbastanza evidente come la sinistra sia la parte politica maggiormente responsabile del disastro verso cui si avvia il nostro paese, e come il suo “popolo” sia totalmente incapace di capire questo semplice dato di fatto. Occorre naturalmente distinguere fra le tendenze di fondo del nostro tempo e il modo in cui esse si concretizzano nei diversi contesti. Non c'è dubbio che, rispetto al tema di cui stiamo discutendo, la tendenza generale è quella della trasformazione, da tempo compiuta, della sinistra europea da forza di emancipazione e difesa dei ceti subalterni (il che ovviamente non vuol dire: forza rivoluzionaria) a forza totalmente asservita agli interessi dei ceti dominanti, e funzionale alla distruzione dei diritti degli stessi ceti subalterni. Questa trasformazione richiede ovviamente un certo tasso di inganno e autoinganno, perché i ceti dirigenti della sinistra devono distruggere diritti e redditi dei ceti subalterni continuando a richiamarsi ad una tradizione dove si faceva il contrario, e i loro elettori devono in qualche modo credergli. La mia impressione è che questo gioco sia particolarmente evidente e “spudorato” nel nostro Paese, cioè che in esso appaia in maniera particolarmente evidente, rispetto ad altri paesi, l'inganno perpetrato dai ceti dirigenti della sinistra, e la radicata volontà del “popolo di sinistra” di non prendere coscienza dell'inganno. Nella sinistra del nostro paese vi è una scissione, particolarmente evidente, fra le parole e le cose, fra quello che si dice e quello che si fa. Ripeto, questo è un dato generale, ma mi sembra più accentuato in Italia. Se è davvero così, sarebbe il caso di chiedersi perché.
Prima di provare a fornire una risposta, possiamo fare un paio di esempi. Il primo, sul quale ritorno di tanto in tanto perché, lo confesso, a suo tempo ne fui particolarmente colpito, è quello del Partito dei Comunisti Italiani, che nel '99 fa parte (con 4 ministri, se non ricordo male) del governo D'Alema, e quindi si assume la responsabilità dell'aggressione alla Jugoslavia, cui il governo D'Alema partecipa assieme ad altri paesi NATO. Il punto è che il PdCI partecipa a questa guerra di aggressione imperialistica protestando e manifestando contro di essa e contro la NATO, senza che questo atteggiamento assurdo appaia, ai suoi elettori e in generale alle persone di sinistra, per quello che è, una intollerabile ipocrisia sufficiente a seppellire all'istante una forza politica.
L'altro esempio è quello di Walter Veltroni, che dopo aver fatto un'intera carriera politica nel PCI, arrivando nel 1987 ad essere eletto deputato al Parlamento nazionale, può tranquillamente dichiarare, dopo la fine del socialismo reale e dello stesso PCI, di non essere mai stato comunista. Anche in questo caso, senza che nessuno sembri rendersi conto, nel mondo della sinistra, che una simile dichiarazione dovrebbe essere sufficiente a classificare il suo autore come un mentitore privo di qualsiasi affidabilità e indegno di fiducia, e a troncarne di conseguenza ogni ambizione politica.
Il punto, in questi due esempi, non sta tanto nel fatto che il PdCI abbia fatto scelte politiche sbagliate, o che Veltroni possa essere definito oppure no un ex-comunista: la storia è piena di errori politici dei comunisti, ed è piena di ex-comunisti. Il punto è il carattere particolarmente “sfacciato”, impudente, sprezzante di logica, intelligenza e buon gusto, di queste scelte e dichiarazioni. Evidentemente i loro autori sapevano di poter contare su una indulgenza a priori, da parte del “popolo di sinistra”, nei confronti di simili macroscopiche contraddizioni.
Si tratta, lo ripeto, di una particolare declinazione nazionale di un dato epocale. Provo ad ipotizzare una possibile spiegazione. Mi sembra che una tale possibile spiegazione, o almeno un suo ingrediente, stia nel fatto che nel nostro Paese il partito che ha egemonizzato la sinistra, per tutto il secondo dopoguerra, è stato il Partito Comunista Italiano. Questo è in effetti un dato specifico del nostro paese, fra tutti i paesi occidentali. Altrove, i partiti comunisti erano o piccole formazione estremiste, del tutto ininfluenti, oppure erano (come in Grecia, Portogallo e in sostanza anche in Francia) parti significative della sinistra, ben radicate nel paese, ma minoritarie e non egemoniche nella sinistra stessa. In Italia, invece, “essere di sinistra” ha sempre voluto dire avere a che fare con la presenza egemonica del PCI.
Ora, a me sembra che il più elementare buon senso dovrebbe suggerire che un Partito si dichiara “comunista” perché intende realizzare il comunismo, e, di conseguenza, che un tale partito ha il dovere di spiegare cosa intenda per “comunismo” e come intenda arrivarci. Naturalmente, poiché stiamo parlando di un partito politico, cioè di una organizzazione nata per l'azione politica, la risposta alla domanda “cosa si intende per comunismo” non può essere una bella frase vuota del tipo “il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”, non può essere una enunciazione di principi generali del tipo “ da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni”, non può essere una dotta discussione filosofica sulla natura comunitaria dell'essere umano. Deve essere un progetto politico di una società alternativa all'attuale che, senza essere delineato nei dettagli, ci faccia però capire alcune delle strutture fondamentali di tale società alternativa. Correlato a questo, e anche più importante per un partito politico, è l'indicazione di un ragionevole percorso storico-politico che  mostri la possibilità concreta di arrivare, in tempi non lontanissimi, alla configurazione sociale desiderata.
Ora, è evidente che nessuno si è mai sognato, nel vasto mondo del PCI e della sinistra italiana da esso egemonizzata, di chiedere questo tipo di chiarimenti e nessuno si è mai sognato di fornirli. Questo non vuol dire, ovviamente, che non si sapesse cosa intendeva fare il PCI. Le sue scelte politiche erano piuttosto chiare, sia in politica interna sia in politica internazionale. Il punto è che tali scelte politiche non avevano nulla di “comunista”. Il PCI era un partito comunista di nome, ma di fatto era un partito socialdemocratico nella politica interna e filosovietico in quella internazionale. Tutto questo non è necessariamente un male. Con queste caratteristiche, il PCI ha secondo me avuto una funzione essenzialmente positiva nel dopoguerra italiano, fino agli anni Settanta. Il punto è che questa strana natura del PCI aveva in sé i germi dei fenomeni degenerativi dei quali abbiamo discusso all'inizio.  Nel mondo della sinistra italiana egemonizzato dal PCI era considerato normale aderire a un “partito comunista”, o votarlo, o avere rapporti politici con esso, senza che per lunghi decenni nessuno si ponesse il problema di cosa mai volesse dire, per un partito politico di massa in un paese occidentale, “essere comunista”, e soprattutto cosa c'entrasse il “comunismo”, qualsiasi cosa esso sia, con la concreta prassi politica del PCI. La sinistra italiana è stata cioè abituata, dalla massiccia presenza del PCI, ad una radicale scissione fra parole e fatti, fra slogan e realtà. È stata abituata a trovare del tutto normale definirsi in un modo e comportarsi in modo diverso. E proprio qui, a mio avviso, sta una delle radici dei fenomeni degenerativi di cui si diceva.
C'è una conseguenza: se tutto questo è sensato, è chiaro che occorre essere molto diffidenti verso i tentativi, riproposti ogni tanto, di ricostruire un partito comunista in Italia: alle difficoltà oggettive si aggiungono infatti i dubbi, mai affrontati seriamente, su cosa possa voler dire, per un partito politico, essere “comunista”, in un paese occidentale. L'impressione è che con questi tentativi si cerchi in sostanza di ripetere l'esperienza del PCI, in una situazione nella quale non vi sono evidentemente più le condizioni che l'hanno resa possibile, e oltretutto perpetuando le ambiguità e le ipocrisie che hanno segnato quella storia. Non è davvero di questo che abbiamo bisogno. Nel bene e nel male, il PCI ha segnato una parte della storia di questo paese. Quella storia è finita, occorre costruirne un'altra.
(M.B.)





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6 commenti:

  1. In effetti, l'Agenda 2010 poteva facilmente esser scambiata per politica di sinistra.

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  2. Il (compianto) Fernando Vianello era di analogo avviso. Penso che anche il complesso della città assediata, per cui non si doveva mai rompere la disciplina perché se no "ne approfittavano le destre", abbia avuto il suo peso. Da questo punto di vista il grottesco anticomunismo berlusconiano, a cui si davano risposte di una debolezza ai limiti del patetico, risultava solo utile a compattare i ranghi.

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  3. Condivido la brillante analisi e la sottoscrivo.Finalmente qualcuno che si pone domande di fondo troppo a lungo rimosse.E' a partire dalla metà degli anni settanta che sono arciconvinto che quel partito, e SOPRATTUTTO LA SUA BASE, non avessero nessuna intenzione di cambiare il "sistema",per la semplice ragione che quella base assieme alla sua nomenklatura ERANO E SONO consustanziali al modo di produzione capitalistico,interni ad esso ed indispensabili al "buon funzionamento"dello stesso.Chi votava quel partito non lo faceva in nome di un progetto teso a sovvertire il capitalismo,ma semmai a modificarne gli aspetti più cruenti,ritenuto per ciò stesso eterno e immodificabile.La forma mentis era ed è ancora questa,supportata da un fideismo che a questo punto rasenta il fanatismo religioso,simile ad una sorta di militarismo d'altri tempi con l'ottusità che ne consegue.Da lì bisogna partire,da quel contesto storico e da quegli anni per rendersi conto di quanto quella formazione NULLA AVEVA di quel respiro trasformatore delle stato di cose presenti e che la definizione di"sinistra"è un insulto per chi si è speso davvero per quella concezione di società.Chiamiamo le cose con il loro nome:chiamiamola DESTRA,e della peggior specie.La sinistra è un'altra cosa.Luciano

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  4. Sono in totale disaccordo. Non è mai esistito un comunista che avesse chiaro l’esatto (o anche meno esatto) significato della sua fede, proprio come non è mai esistito un cristiano che avesse chiara la natura del paradiso; sono proiezioni mitico-escatologiche che – come e più di altri pregiudizi aggregativi – si mantengono tantopiù vitali quantomeno i fedeli si interrogano sul loro significato preciso. I miti-forza sguazzano in un’aura di accattivante oscurità: nella manipolazione della complessione ideologica del gregge “i termini dal significato più confuso possiedono il più grande potere” (Le Bon).

    E’ vero invece che in Italia l’idiosincrasia fra una sinistra totalmente asservita ai poteri forti e il tenace rifiuto della sua base elettorale di prendere atto di questo stato di cose è particolarmente pronunciata. Io riconosco due motivi: la fermissima presa del PCI sulla sua base elettorale (quella che Renzi sta definitivamente rottamando, rendendo un ottimo servigio ai nemici del regime) e l’eccezionale destrezza (verosimile frutto di un lungo e segreto lavoro preparatorio gestito in collaborazione con agenzie anglosassoni di public relations) palesata dallo stesso PCI nel gestire il suo rovesciamento di campo: sostituzione del mito-forza comunista con quello europeista (quintessenza dell’atlantismo reazionario), dei diritti socioeconomici con quelli cosmetici, sublimazione dell’antifascismo nell’antirazzismo, e soprattutto accorta e lungimirante diffamazione (nei termini di fascisti, populisti, gufi ecc.) degli avversari della nuova oratoria di massa.

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  5. Io credo che la spiegazione sia tutta nella storia del ‘900 italiano. Cioè, al di là delle dichiarazioni ufficiali, al di là delle etichette, al di là anche delle elaborazioni teoriche, ci sia la reale funzione che il PCI ha svolto in Italia. Lo dico col massimo rispetto, anche se io, personalmente, non sono mai stato in quel partito.
    Se vogliamo partire dagli aspetti più nobili, possiamo dire che l’elaborazione di Gramsci, dopo il biennio rosso, ha il suo peso. Il concetto di “egemonia” è importante e allontana le posizioni da quelle leniniste rivoluzionarie. Le discussioni sul Principe di Machiavelli costituiscono una base importante, il Partito come “Principe”.
    Questa elaborazione è importante, ma poi, di fatto, è stata abusata, tirata da una parte e dall’altra secondo le convenienze politiche della fase. Prima di tutti da Togliatti.
    Sappiamo la storia. Togliatti, ministro della giustizia nel ’46, firma l’amnistia. Il congresso di Salerno sancisce la svolta della via parlamentare, del partito dentro le istituzioni, ufficializza l’abbandono definitivo di qualsiasi strategia rivoluzionaria. Era solo l’ufficialità, il PCI già durante il fascismo e la resistenza aveva già, di fatto, sposato quella collocazione.
    Non credo che nel trentennio che va dal ’45 al ’75 il PCI possa essere definito “socialdemocratico”. L’esperienza socialdemocratica è stata diversa, si può parlare di socialdemocrazia in Germania e nei paesi scandinavi. Paesi nei quali il capitalismo si sviluppava con la programmazione pubblica. In Italia il PCI non fu mai al governo. Ebbe un ruolo esterno e la funzione di programmazione (keynesiana) fu svolta, in maniera molto approssimativa, dalla DC e dai suoi alleati. Diciamo che in Italia le categorie classiche difficilmente sono applicabili. Sicuramente il PCI è stato un partito nazional-popolare che ha svolto la funzione di governare il mondo del lavoro e contribuire allo sviluppo del capitalismo italiano.
    Dico queste cose perché un’attenta analisi storica è fondamentale per comprendere l’oggetto della discussione. Cioè, il ruolo oggettivo che questo partito ha svolto nella storia italiana del ‘900.
    Dopo la caduta del muro di Berlino, la ricerca di una nuova collocazione nel nuovo scenario di quella tradizione ha portato alle conclusioni che Marino Badiale mette in evidenza. Non voglio qui discutere di Veltroni e D’Alema perché mi sembra che siano state dette tutte le cose che servono.
    Se l’obiettivo è la trasformazione dei rapporti sociali della società, certamente non ci si può ispirare a quella tradizione. Questo è un punto importante. Al di là delle etichette, più o meno evocative, qui il discorso è di contenuti. A mio avviso, la rottura della tradizione marxista del ‘900 è indispensabile, attraverso l’analisi storica senza sconti per nessuno. Ma anche verso la conoscenza reale del pensiero di Marx, che sembra proprio il terzo incomodo. La tradizione stalinista del marxismo è un completo stravolgimento del pensiero autentico di Marx e anche l’elaborazione italiana del vecchio PCI è da smontare pezzo a pezzo, difficilmente recuperabili.
    Quindi, se l’operazione è nostalgica, “non c’è più un Partito Comunista, ricostruiamolo”, credo che sia destinata al fallimento.

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    1. Sono d'accordo con quanto scritto nel tuo commento.E' tempo di rispolverare vecchie categorie politiche dirimenti e inconciliabili.Se per sinistra intendiamo una visione sociale poggiante sull'egualitarismo e sulla giustizia,intesa come difesa delle classi dominate in funzione di un loro superamento in una futura "nuova società",possiamo dire che quel partito ha davvero fatto proprio l'insegnamento di Marx circa le insanabili contraddizioni fra lavoro e capitale?Io direi di sì;il problema è che l'accorta sua nomenklatura la lezione di Marx l'ha introiettata molto bene,ma a favore del capitale.Possiamo chiamarla sinistra,o,era già un'altra cosa?Esisteva una sorta di linea di demarcazione oltre la quale non ci si doveva spingere,rappresentata molto bene dalla levata di scudi contro gli "untorelli"nei cruciali anni settanta;anni in cui un vasto movimento di contestazione dal basso del sistema orientato DAVVERO a sinistra, è stato spazzato via con una durezza tale da non avere riscontri nella storia recente delle cosiddette democrazie rappresentative di stampo borghese.Si poteva etichettare come sinistra una formazione che annichiliva e riduceva vasti strati di proletariato al rango di "visionari" senza costrutto?Se poi pensiamo che un allora segretario come Togliatti ha varato la famosa amnistia per i crimini efferati commessi dalle bande fasciste nel ventennio,si intuisce perfettamente quanto quel partito fosse lontano dalle esigenze di riscatto delle classi subalterne.Diciamo che la sua base elettorale e la sua pletora di militanti sono serviti,eccome,ma a stabilizzare il sistema,come degli utili idioti sempre agli ordini del capitale.Luciano

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