martedì 9 ottobre 2012

Il mondo dell'indifferenza/2

Proseguo la pubblicazione di un mio vecchio intervento critico su alcuni aspetti della cultura contemporanea
(M.B.)



Alla parte 1                                                                                                            Alla parte 3




3. Valore, tradizione, scelta: una citazione di F.Fortini .
«Valore, in questo senso, [...] [è] l'abitudine e l'educazione a distinguere i livelli, ad attribuire i
gradi diversi di rilevanza e di urgenza. [...] Significa percepire, valutare, affermare, difendere le differenze qualitative; ossia qualcosa che potenzialmente tutti possono fare anche se nella realtà
ne sono ostacolati. [...] Tradizione (non senza implicita possibilità di tradimento e trasgressione)
è trasmissione e traduzione. Tradizione è coscienza del passaggio dal passato al futuro, atto di
quel transito, fondazione del futuro attraverso una selezione dell'eredità. Tradizione è 1a passione nella quale ogni generazione comprende interamente l'altra e comprende se stessa (Kierkegaard). In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto
di sopraffarla (Benjamin). Tradizione è il contrario dell'atteggiamento [...] che conserva tutto,
affidandolo agli specialisti, e in realtà distrugge tutto. Novismo e giovanilisrno sono l’altra faccia dell'incapacità di scegliere. Se valore e tradizione sono nozioni contigue, criterio di valore è criterio di scelta. E si sceglie dal passato per il futuro. È sapere cosa fa di bisogno per prima cosa,
e poi per seconda, per terza e così via. Marx e Lenin lo seppero. E scelsero quel che secondo loro
doveva essere portato dai rivoluzionari oltre la rivoluzione (Shakespeare, Darwin, le statue greche, l'etica laica e Guerra e Pace; fra l'altro). Sappiamo che in parte si sono sbagliati; che la storia, non senza ragione, ha bruciato molto di quel che, secondo loro, avrebbe dovuto essere salvato; e troppo ha preservato della vecchia infamia. Ecco perché noi la cerchiamo, una tradizione. [...] Tradizione culturale è uno specifico senso dei passaggi; da ieri (o secoli or sono) a domani (o secoli avvenire), da vita a morte, da malattia a salute, da padri a figli come da figli a padri, da amori a odi e viceversa; senso che tutti possono avere e che a tutti può essere tolto, senso di quel che è conscio e di quel che non lo è, di storia e di non-storia. È senso della necessità di preparare agli altri, a tutti gli altri le condizioni [...] a che 1'uso del valore, ossia delle differenze e del giudizio che le accompagna [corsivo mio, MB] non subisca oblii o interruzioni maggiori di quelli atti a generare un più alto sentimento della qualità e dei doveri della tradizione»
(F. Fortini, Il potere e la critica, in Insistenze, Garzanti 1985, pp. 51-55).

4. Contro il relativismo culturale.
La tesi fondamentale del relativismo culturale è il rifiuto di ogni gerarchia oggettiva di valore fra le diverse culture e le diverse manifestazioni di una cultura. Nella versione “di sinistra", che cercheremo di criticare, tale relativismo è pensato come un aspetto fondamentale di una visione del mondo che si oppone ai meccanismi di appiattimento e di omologazione tipici dell’attuale capitalismo “globale”: secondo questo relativismo “di sinistra”, l’Occidente distrugge le altre culture perché si pensa superiore ad esse; quindi, se vogliamo un mondo autenticamente multiculturale, non appiattito sulla civiltà industriale dell'Occidente, dobbiamo rifiutare l'idea stessa di una gerarchia di valori fra le culture. In questa sezione esporrò una tesi radicalmente opposta a queste forme di relativismo: la tesi che il relativismo culturale, lungi dal costituire una barriera all'omologazione e all'appiattirnento, è in realtà il principale strumento culturale di tale omologazione. Esso rappresenta la formazione ideologica più adatta al capitalismo, nella fase che stiamo vivendo. In sintesi, il risultato del relativismo è di porre tutti i dati culturali in uno spazio omogeneo e indifferenziato, dopodiché è facile la presa del capitale su di essi. Inseriti nello spazio astratto del relativismo, lo spazio in cui ogni cultura e ogni dato culturale ha esattamente lo stesso valore di tutti gli altri, i prodotti culturali sono pronti per essere afferrati e portati nei banchi dei supermercati.
Per spiegare quello che qui si intende dire facciamo un esempio “classico” di intolleranza culturale: la distruzione dei libri sacri dei Maya ad opera delle gerarchie cattoliche. Siamo tutti d’accordo sul fatto che questo evento rappresenta una perdita. Perché? Saremmo tentati di dire che la cultura dei Maya, espressa ai livelli più alti nei libri perduti, rappresenta qualcosa di essenziale, di necessario per capire la nostra umanità, per capire ciò che siamo (si ricordi quanto detto nella sez. 2). Ma se questo è vero, non è possibile sostenere che le culture hanno tutte lo stesso valore: nella felice ipotesi che si fossero salvati i libri dei Maya, e che essi fossero oggi letti e studiati come Confucio o i Rig-Veda, l’attuale civiltà occidentale avrebbe conservato in sé un dato essenziale dell’essere umano, si sarebbe con esso confrontata, avrebbe con esso interagito e si sarebbe trasformata; ma allora sarebbe oggettivamente superiore ad una civiltà (quella del papua nel suo villaggio, per es.) che né ha mai saputo di quei libri né si è interessata ad essi.
Se il relativista vuole evitare questa conclusione è costretto, a mio parere, a negare la premessa
da cui siamo partiti. A negare cioè che i libri sacri dei Maya fossero qualcosa di essenziale per l'umanità, a negare che noi si sia perso qualcosa di essenziale, con la loro distruzione. Ma in tal caso il relativista si trova a dover rispondere a questa semplice domanda: se è così , che c’è di
male a distruggerli? Nel corso della storia, di scritti se ne perdono tanti; lettere private, diari,
libretti e libroni. Perché non si dovevano perdere anche i libri dei Maya? Se tutte le culture sono
sullo stesso piano e hanno lo stesso valore, la cultura occidentale che ha distrutto i libri sacri dei
Maya non è né migliore né peggiore di una possibile cultura occidentale che non li abbia distrutti e abbia fatto loro posto nel proprio mondo di significati. Non potendo affermare una differenza di valori oggettivi fra tali due culture, il relativista è incapace di dirci perché “non bisognava” distruggere i libri sacri dei Maya.
L'esempio che abbiamo sviluppato può sembrare un poco astratto, visto che nessuno può
immaginare quali contenuti avrebbero apportato alla cultura umana i libri dei Maya. È chiaro però che si possono portare infiniti esempi più “concreti”. Ne facciamo solo uno: durante il
terremoto che nell'inverno scorso ha colpito l'Italia centrale, sono stati seriamente danneggiati
gli affreschi di Giotto e Cimabue nella basilica di S. Francesco ad Assisi. L'evento è stato sentito
come un grave perdita per la cultura del mondo intero. Ripetiamo la stessa domanda posta sopra:
perché il danneggiamento o la scomparsa degli affreschi di Giotto è una perdita? Come si vede,
le alternative sono le stesse delineate sopra: o gli affreschi sono un valore essenziale, qualcosa
che è fondamentale per la nostra idea di un mondo “giusto e bello", oppure no. Nel primo caso
non si può affermare che “tutte le culture hanno lo stesso valore”, perché se gli affreschi di Giotto sono qualcosa di essenziale allora una cultura che non li conosca, non si confronti con
essi, non li inserisca nel proprio orizzonte di significati è una cultura che rinuncia a qualcosa di
essenziale; nel secondo caso gli affreschi di Giotto non sono qualcosa di essenziale, non sono
qualcosa la cui esistenza o non esistenza faccia una vera differenza: e dunque perché non lasciarli distruggere?
In questi due esempi abbiamo svolto lo stesso argomento, che proviamo adesso a esporre in
termini astratti. Pensando agli esempi appena esposti, la struttura dell'argomentazione dovrebbe
risultare chiara. L'operazione del relativista consiste nell’azzerare ogni gerarchia di valore, nel
dare a “tutto” lo stesso valore, illudendosi che questo coincida col dar valore a tutto. Ma, come
dice Fortini nel brano citato sopra, il valore è essenzialmente gerarchia di valore. Dire che qualcosa vale vuol dire che vale più di altre cose. Distruggere ogni gerarchia di valore significa quindi distruggere ogni valore. Il relativista vuole attribuire valore a tutto e in realtà toglie valore a tutto. Consideriamo un qualsiasi dato culturale (i libri dei Maya, gli affreschi di Giotto o
qualsiasi altra cosa). Se tutte le culture sono sullo stesso piano di valore, una qualsiasi formazione culturale che assuma quel dato nel proprio orizzonte di significati è sullo stesso piano di una
qualsiasi altra che non lo assuma. Quel singolo dato non genera dunque nessuna vera differenza,
è del tutto indifferente la sua presenza o assenza. Ma allora è anche indifferente che esso venga
conservato e valorizzato o invece manipolato e distrutto. La deformazione o distruzione di un
singolo contenuto di cultura non diminuisce in nessun modo il valore della cultura che risulta da
tale deformazione o distruzione. Di ogni singolo dato culturale è dunque, nell’orizzonte del
relativismo, perfettamente indifferente il fatto che venga conservato e vitalizzato o deformato e
distrutto. Per usare una bella battuta dell’amico Preve, la retorica della differenza produce il
mondo dell'indifferenza. Ma allora il singolo dato culturale, così immerso nello spazio dell’indifferenza generalizzata che il relativismo genera, è pronto per essere inserito nel mondo della mercificazione universale che l'odierno capitalismo produce. Siamo dunque arrivati alla fine
della nostra argomentazione. Lo spazio omogeneo e indifferenziato del relativismo, spazio in
cui è ammucchiata alla rinfusa, senza una gerarchia di valore, la totalità della produzione culturale umana, è lo “spazio di passaggio” necessario per far arrivare tale produzione sui banconi dei
supermercati culturali del “tardo capitalismo”.

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