In un post di qualche tempo fa ho
citato, come esempio di un tipo di analisi che potrebbe entrare in
sinergia col pensiero della decrescita, il saggio di Keynes sulle
“Possibilità economiche per i nostri nipoti”, originariamente
pubblicato nel 1931. Curiosando qua e là, mi sono accorto che in
anni recenti quel saggio ha suscitato un certo interesse. Ha avuto
varie ristampe ed è stato discusso da un certo numero di autori.
Evidentemente, di fronte alla crisi attuale, che appare
irrisolvibile, si cercano stimoli intellettuali un po' diversi dai
soliti. Fra le altre cose, è stata pubblicata una raccolta di saggi
di economisti
mainstream ad esso dedicata:
"Il ventunesimo secolo di Keynes. Economia e società per le nuove generazioni", a cura di L.Pecchi e G.Piga, LUISS University Press 2011. Vi sono presenti sia
autori che in qualche modo possiamo ascrivere ad una specie di “ala
sinistra” del
mainstream (Stiglitz, per esempio), sia autori di
vedute opposte. Si tratta di testi che stimolano molte riflessioni, e
che hanno spesso intuizioni notevoli, come quando Fitoussi parla, a
proposito del mondo futuro delineato da Keynes, di una sorta di
“comunismo delle élite”.
Nonostante le molte cose interessanti
che il libro contiene, la mia sensazione generale è stata quella di
una certa lontananza rispetto ai temi che personalmente sento
importanti, lontananza derivante dalla presenza, nei vari autori, di
alcune assunzioni implicite. In sostanza mi è sembrato di ritrovare,
in molte delle argomentazioni svolte nel libro, esempi abbastanza
evidenti di quello che generalmente si chiama “pensiero unico”.
Penso sia utile riflettere su questo, perché forse può aiutarci a
capire alcuni aspetti dello "spirito del tempo", e ad
articolare meglio le nostre critiche al “pensiero unico”.
Ricordiamo le tesi fondamentali del
saggio. Keynes argomenta che la crescita dell'economia capitalistica
potrà portare, nell'arco di un secolo, ad un tale aumento della
produttività da permettere a tutti un livello di vita decoroso e
contemporaneamente la riduzione generalizzata dell'orario di lavoro.
Egli ipotizza a questo proposito una settimana lavorativa di 15 ore,
e si pone poi il problema di cosa significhi tutto ciò per l'idea di
essere umano a cui siamo abituati.
A mio parere l'importanza odierna del
saggio sta nel fatto che esso può rappresentare uno stimolo per
pensare ad una politica che ponga come obbiettivo la riduzione
dell'orario di lavoro, e che cerchi di conciliare questo obiettivo
sia col mantenimento di un livello adeguato di benessere, sia con la
preservazione degli equilibri ecologici. Mi sembra invece di scarso
interesse la questione se Keynes abbia oppure no predetto
correttamente gli sviluppi economici successivi all'epoca di
pubblicazione del saggio. Ma è proprio questa, in sostanza, la
questione di cui si occupano molti degli interventi del libro,
rilevando che Keynes ha centrato la previsione sull'aumento della
produttività ma ha sbagliato quella sulla diminuzione del
tempo di lavoro. Spero sia comprensibile il fatto che, dal punto di
visto che ho sopra fatto mio, questo tipo di considerazioni appare
poco interessante. A me sembra ovvio che se questo saggio ha un
qualche interesse al di fuori dell'accademia non è perché Keynes ha
fatto delle previsioni (giusto o sbagliate), ma perché la sua è una
proposta politica. Keynes ci prospetta una possibilità: quella di
usare gli aumenti di produttività per diminuire l'orario di lavoro.
E poiché oggi il lavoro è essenzialmente lavoro salariato, la
proposta è ovviamente quella della riduzione del tempo del lavoro
salariato, mantenendo per tutti livelli di benessere accettabili. È
con questa possibilità che dobbiamo confrontarci. È vero però
che, ad una lettura più attenta, risulta chiaramente che questo
confronto, nei vari saggi, è presente, anche se non esplicitamente
tematizzato. Molti autori discutono infatti le ragioni del
“fallimento di Keynes” riguardo alla previsione della diminuzione
dell'orario di lavoro. E questo è in realtà un modo di rifiutare la
possibilità suggerita da Keynes, argomentando questo rifiuto. Quindi
queste discussioni, che presentate come spiegazioni del “perché
Keynes si è sbagliato” sarebbero, a mio avviso, poco interessanti,
acquistano il loro valore se le leggiamo come spiegazioni del perché
l'economia mainstream ritiene impraticabile una politica di
diminuzione dell'orario di lavoro.
Vediamo allora, perché, secondo alcuni
importanti economisti mainstream, Keynes “si è sbagliato”.
Perché continuiamo a lavorare molto? Citiamo un po' dai vari
interventi. I curatori del volume (L.Pecchi e G.Piga) ci dicono che
“l'aspirazione al miglioramento esiste sempre, indipendentemente da
quale livello standard di vita sia stato raggiunto, e con essa la
necessità di mantenere, risparmiare, accumulare e lavorare”
(pag.24). Ma, si potrebbe obiettare, perché mai il “miglioramento”
deve per forza essere connesso ad una maggiore produzione materiale?
Non sarebbe un bel “miglioramento” poter mantenere un livello di
vita “normale” lavorando la metà o un quarto del tempo?
E.Phelps (Premio Nobel per l'economia
2006) ci dice che il punto cruciale è che Keynes ha trascurato il
dato di fatto che “gli esseri umani hanno bisogno di esercitare
l'intelletto su nuove sfide, su problemi nuovi da risolvere, su nuovi
talenti da coltivare” (pag.101). E l'obiezione ovvia è che non si
capisce perché questo implichi il rapporto di lavoro salariato:
perché mai non si potrebbero fare tutte queste bellissime cose
dedicando la metà o un quarto del tempo attuale al lavoro salariato,
dedicandosi alle “nuove sfide” nel resto del tempo? Se questa
necessità di dedicarsi a “nuove sfide” fa parte della natura
umana, come sembra dire Phelps, perché mai dovrebbe avere bisogno
del rapporto di lavoro salariato per esprimersi?
B.M.Friedman ci parla di una continua
“aspirazione al miglioramento” che dà per scontato il livello di
vita al quale si è arrivati e chiede quindi di più (“dato che le
abitudini di vita si adeguano ai tenori di vita diventati
consuetudinari, l'aspirazione al miglioramento inizia sempre da quel
punto” pag.126), ma di nuovo, perché mai il “miglioramento”
deve essere inteso come aumento del consumo di merci? Perché una
vita in cui i bisogni primari siano assicurati e che preveda la
diminuzione del tempo del lavoro salariato non dovrebbe essere
considerata un “miglioramento”?
Particolarmente sorprendenti sono
alcune formulazioni di R.B.Freeman. In primo luogo, egli sintetizza
la posizione di Keynes in questo modo: “Keynes però si è
sbagliato nel pensare che questo miglioramento nel tenore di vita ci
avrebbe portato a ridurre notevolmente le ore di lavoro e a dedicare
più tempo ai lavoretti di casa o ad attività di svago” (pag.131),
ed è davvero notevole rendersi conto di come l'autore sia del tutto
incapace anche solo di pensare ad altri modi possibili di “uso
della vita”: poiché oggi l'uomo medio usa il tempo libero dal
lavoro appunto per qualche svago o per i lavoretti in casa, allora
una eventuale riduzione dell'orario di lavoro si tradurrà in maggior
tempo per quel tipo di attività, e nient'altro. L'essere umano
coincide con l'impiegato medio, e nessun altro modo di vivere la
propria vita è concepibile. Ma il punto più sorprendente del suo
contributo è il seguente. Freeman vuole argomentare che l'orario di
lavoro non diminuisce anche perché il lavoro è attraente di per sé,
indipendentemente dal salario. Fra i vari argomenti a favore di
questa tesi, egli porta il seguente: “Negli Stati Uniti, e in
misura minore nel Regno Unito, molte persone lavorano come volontari
per cause filantropiche pur di non stare in panciolle in casa come
facevano i ricchi oziosi dell'era di Keynes” (p.136). Questa mi
sembra una incomprensione davvero notevole del senso profondo della
tesi di Keynes: il lavoro volontario per cause filantropiche non è
lavoro salariato, e rappresenta appunto un esempio di quello che si
potrebbe fare diminuendo l'orario di lavoro salariato. Anche in Freeman si vede
chiaramente come la confusione fra “attività umana” e “lavoro
salariato” impedisca la comprensione della proposta politica
implicita nel testo di Keynes.
Si potrebbero fare altri esempi, ma mi
fermo qui, penso che l'essenza del discorso sia chiara: nel pensiero
degli economisti mainstream c'è un assioma indiscutibile, cioè il
fatto che “attività”, “impegno”, “creatività” e
concetti simili, si identificano con “lavoro per guadagnarsi da vivere” e quindi, nella nostra organizzazione sociale, essenzialmente con "lavoro salariato". Per cui
l'idea di ridurre il tempo del lavoro salariato coincide in sostanza
con la proposta di una vita inattiva. Siamo cioè di fronte a un caso
da manuale di come l'economia assuma come dato naturale i rapporti
sociali tipici della nostra società capitalistica, per cui risulta
incomprensibile una qualsiasi proposta politica che metta in
discussione una tale identificazione.
Con questo ovviamente non scopriamo
niente di nuovo rispetto a quanto Marx ha detto a suo tempo con tutta
la chiarezza necessaria: non facciamo che confermare una volta di più
la necessità di riprendere le fila di un pensiero critico, di una
rinnovata “critica dell'ideologia”.
(M.B.)