Ne avevamo già discusso tempo fa qui. Nel frattempo la legge sta seguendo il suo iter. Ne parla Franco Cardini in questo articolo. Non ho molto da aggiungere a quanto ho scritto a suo tempo nel post sopra citato.
(M.B.)
lunedì 30 giugno 2014
sabato 28 giugno 2014
Benvenuta Riscossa italiana
Segnaliamo la nascita dell'associazione "Riscossa italiana". Fra i fondatori, alcune persone che probabilmente i lettori di questo blog conoscono, per esempio Luciano Barra Caracciolo, Nino Galloni, Vladimiro Giacché, Diego Fusaro.
(M.B.)
(M.B.)
martedì 24 giugno 2014
Dialogo a tre sul nostro futuro
Vi proponiamo un dialogo (via mail)
fra i curatori del blog. Senza pretese di grande profondità teorica, crediamo che sia interessante
per i lettori, poiché vengono toccati temi sui quali in molti ci arrovelliamo. Vengono messi a confronto punti di vista e prospettive
diverse, che offriamo alla vostra valutazione.
FT: Voi sapete qualcosa di questa iniziativa? http://www.fiom-cgil.it/web/aree/europa/news/573-lanciata-la-campagna-contro-il-ttip-da-60-associazioni-in-europa
CM: Alcuni movimenti locali seguono la vicenda da un po', mi sembra con scarsi risultati.
FT: Non è strano, più il nemico si allontana, meno è facile costruire opposizione. In fondo è sensato non crederci. Pensa: una trattativa fra UE e USA, che cosa pensi di poterci fare? Davvero dovremmo riuscire a dire che l'unica cosa sensata sarebbe uscire da quest'incubo e tornare in una condizione in cui possiamo pensare di incidere nella realtà.
CM: Io non penserei di poter incidere nemmeno se comandassi un nucleo di Tupamaros armati fino ai denti, figurati. Del resto ve l'ho scritto: l'orizzonte concettuale della mia attività politica concreta è racchiuso nei confini del comune di Genova.
Cosa intendi, in pratica, con la frase “uscire da quest'incubo e tornare in una condizione in cui possiamo pensare di incidere nella realtà.”?
FT: Sei molto ottimista. Dubito che al momento si possa andare oltre la dimensione del condominio...
Uscire dall'incubo significa ricondurre il maggior numero di decisioni politiche in ambiti ove sia possibile la partecipazione democratica. La sovranità dovrebbe tornare alla stato nazionale (in parte c'è già, come spesso hai sostenuto tu, ma in buona parte è stata ceduta).
Poi però la sovranità, che appartiene al popolo, dovrebbe essere esercitata dai cittadini laddove è loro possibile, anche aumentando le competenze e le risorse degli enti locali.
Il punto centrale però è il discorso sulla globalizzazione. Se la si considera un dato di fatto indiscutibile, e non modificabile, allora possiamo anche piantarla lì, tanto non possiamo fare proprio nulla. Né a livello planetario, né a Genova.
CM: Il problema per me è il seguente: noi possiamo anche dichiarare modificabile e discutibile la globalizzazione, non è un problema. Di irreversibile c'è solo la morte. Concettualmente sfondi una porta aperta. Politicamente le cose si complicano. La domanda che mi pongo è: "Come si attua la de-globalizzazione?"
Facciamo un'ipotesi di "fantascienza", e assumiamo di poter disporre, noi, di un notevole potere politico in ambito nazionale. Una volta al potere attuiamo misure de-globalizzatrici. Cominciamo dal blocco dei movimenti di capitale: senza di esso non si fa nulla. Ottimo, abbiamo creato un isola nel sistema finanziario internazionale; essa finirebbe stritolata nel giro di pochi mesi, o meglio ci stritolerebbero prima i cittadini, una volta che si siano accorti che non possono usare le loro carte di credito una volta usciti dai patrii confini (e mille altre limitazioni). Tutta roba già successa agli inizi degli anni '80, quando Mitterand provò a socialistizzare la Francia: bloccò i movimenti di capitale, nazionalizzò le banche, fece anche tante altre cose carine. Durò un anno. Figuratevi adesso.
La de-globalizzazione mi sembra analoga al disarmo: chi disarma per primo? Non credo proprio che sia alcunché di realizzabile per iniziativa unilaterale di uno stato solo (a meno che non si tratti degli Stati Uniti). O si fa in contemporanea tra i principali stati industrializzati, o non ha senso farlo.
L'eventuale de-globalizzazione dovrebbe essere frutto dell'azione coordinata di vasti movimenti internazionali. Allora potrebbe funzionare. Non è più fantascientifico di una nostra presa del potere in ambito nazionale, se ci riflettete.
Va detto infine che se per caso esistessero vasti movimenti internazionali in grado di agire in maniera coordinata tra loro, allora a quel punto si perderebbe la necessità di de-globalizzare: le forze popolari avrebbero la possibilità di gestire in maniera democratica le dinamiche economiche sovra-nazionali, per esempio inibendo la concorrenza tra stati e lavoratori.
La morale della favola è: se tanto è tutto utopico, scegli l'utopia che ti esalta di più (o quella che ti deprime di meno)
FT: Uhm... credo che quel che dici sia molto più fantascientifico di una presa di potere a livello nazionale. Però resta il problema che poni: che te ne fai del potere a livello nazionale, se gli altri sono tutti dentro la globalizzazione? Tuttavia non credo che la questione sia esattamente nei termini che indichi tu, perché probabilmente, in realtà, ci sono paesi che stanno cercando vie alternative. Forse. In Sudamerica per esempio. In ogni caso quel che è certo è che si scatenerebbero guerre terribili, sia in questo scenario, che nel caso della presa di potere da parte di movimenti internazionali (a meno che essi non riescano ad assumere contemporaneamente il comando di tutte, o quasi, le forze armate importanti del Mondo, il che è un tantino improbabile).
CM: Sudamerica? Non credo proprio, guarda il Brasile di oggi...
Sinceramente, non vedo alternative a livello mondiale. I paesi si differenziano per il modo di stare dentro la globalizzazione, ma nessuno la mette in discussione; il primo che lo facesse si autodistruggerebbe. Nessun capitalismo nazionale rinuncerà mai al mercato mondiale (anche perché credo che le classi dirigenti siano abbastanza memori di quel che è successo l'ultima volta...)
Quel che invece può accadere è che il mercato mondiale si segmenti in alcune macro-aree. Il TTIP è un passo verso tale direzione. È possibile che, in risposta all'iniziativa USA di creare tale "NATO economica" anche altri gruppi di stati apparecchino qualcosa (ma non è affatto detto: Giappone, Russia, India e Cina si mandano a quel paese ogni volta che possono).
La creazione di queste macro-aree potrebbe essere interpretato come un gesto di deglobalizzazione. Tuttavia, non sfugge che all'interno di queste aree il principio "liberista" tipico della globalizzazione verrebbe amplificato. Quindi in realtà si tratta di una globalizzazione più intensa, anche se più ristretta dal punto di vista dei soggetti coinvolti.
È probabile che USA e UE, legate da NATO e TTIP, daranno anche vita a qualcosa di simile ad un coordinamento permanente tra governi: qualcosa di più del G-7 e qualcosa di meno dell'attuale Consiglio Europeo, per dire. Magari, chissà, un giorno ci faranno eleggere una pazzesca assemblea parlamentare atlantica...
Al di fuori di questa area i singoli paesi continueranno la loro corsa verso il turbo-capitalismo, Sudamerica in testa.
Può darsi che in questo scenario le comunità locali diano vita a qualche forma di resistenza. Perché questa resistenza abbia forza, credo debbano esserci due condizioni:
1) forte solidarietà trans-nazionale tra le varie comunità e tra i vari movimenti;
2) totale indipendenza dagli organi dello stato nazionale, in particolare dai suoi addentellati partitici/sindacali/elettorali/istituzionali.
PS Poniamo che la presa del potere a
livello nazionale abbia una possibilità su un milione. Ti concedo
che la prospettiva "internazionalista" ne abbia una su tre
milioni. Praticamente, che cambia? Sono entrambe fantascientifiche.
Solo che la prima, a mio avviso, è un vicolo cieco, la seconda no.
FT: Infatti, il punto è che purtroppo sembra che non esista possibilità alcuna di cambiare veramente le cose. In base a qualche elucubrazione, qualcosa può apparire come vicolo cieco oppure no. Ma il punto è che non esiste possibilità alcuna. Il fatto è che, se siamo sinceri, dobbiamo ammettere che la classe dominante ha saputo unirsi. Nonostante divisioni, lotte intestine etc... ha saputo trovare un terreno comune, intorno al quale costruire un sistema condiviso (il che naturalmente non esclude che esistano fratture, battaglie, guerre).
E quindi, forse correttamente, pensi che l'unica strada sia quella di unire le forze dei dominati, contro i dominanti. Ma dubito che sia un tragitto che si possa realmente percorrere.
Guarda, facciamo un esempio banale: non riescono nemmeno a mettersi insieme le 16/17 squadre di serie A che non contano nulla, contro le 3/4 che contano. E' un caso interessantissimo, purtroppo. Se facessero "cartello", le 16/17 ricaverebbero tutte un grande vantaggio. Ma appena una di loro prova a costruire un po' di consenso su dei cambiamenti, le 3/4 reagiscono, e col loro potere, con concessioni e favori, distruggono l'unità creata.
Cambieremo il Mondo quando il Sassuolo vincerà lo scudetto.
CM: Oh! È proprio la mancanza di questa sincerità che critico in molti autori "anti-sistema"! Mancanza di sincerità accompagnata da wishful-thinking “crollista”. Io credo che fra i pre-requisiti dell'essere "rivoluzionari" sia convincersi del fatto che le classi dominanti la sanno lunga, ma davvero lunga, e che l'ultima cosa che faranno sarà permettere a dei pirla come noi di prevalere.
L'esempio che prendi è perfetto. È una conseguenza dell'effetto band-wagoning: la prima cosa che passa per la testa del debole non è diventare forte unendosi ad altri deboli, ma proteggere la propria debolezza affiliandosi a qualche soggetto forte. Ci sono anche casi più estremi della serie A: 180 stati nel mondo non riescono a coalizzarsi contro uno solo, gli USA...
Detto ciò, io studio la storia e l'attualità del medio oriente. Da questo studio ho tratto la convinzione che i miracoli esistono. Quel che sta accedendo ora in Iraq, per fare un esempio, è semplicemente miracoloso. Faremo miracoli? Probabilmente no. Però conserveremo la soddisfazione di non esserci resi complici di questo schifo di realtà.
FT: Su questo hai ragione: non possiamo essere complici. Il brutto è che poi tendono ad asfaltarti... temo che in Iraq sia questione di tempo...
MB: aggiungo anche il mio illuminato parere, visto che non sono intervenuto finora:
1.Probabile che la fase "neoliberista-globalizzata" del capitalismo sia entrata in una crisi senza uscita, e si stia lentamente, e sulla nostra pelle, elaborando una nuova forma del dominio capitalistico.
2.Probabile che questa nuova forma presenterà "grandi spazi" in competizione (economica, politica e militare).
3.Proprio questa configurazione potrebbe però riaprire spazi all'agire di uno Stato-nazione nel quale le forze antisistemiche siano arrivate al potere. In estrema sintesi, un tale Stato potrebbe giocare sulle rivalità fra i grandi centri di potere in competizione fra loro. L'analogia storica che ho in mente è quella del movimento dei paesi non allineati al tempo della guerra fredda, o del Vietnam che riuscì ad essere equidistante fra Russia e Cina, e a farsi aiutare da entrambi nella lotta contro gli USA, quando Russia e Cina si prendevano a cannonate sull'Ussuri (se ricordo bene).
Utopia per utopia....
CM: quella che tu indichi non è affatto un'utopia, ma la realtà odierna dei rapporti internazionali. Fuori dai grandi blocchi ci sono già oggi stati che praticano la politica dei due forni: un po' con gli USA, un po' con Russia-Cina. È la realtà di Iran, Arabia Saudita, a tratti persino Israele, Pakistan, il Viet Nam di oggi, molti stati africani, il Brasile...
Il punto è che lo "spazio di manovra" garantito dall'equidistanza, oltre a esporre a rischi chi lo pratica, non equivale alla possibilità di praticare politiche anti-capitalistiche. Infatti, nessuno degli stati citati fa un passo in quella direzione: nessuno si azzarda a mettere in discussione il mercato mondiale. Che destreggiarsi tra grandi potenze capitalistiche dia luogo alla possibilità di implementare politiche anti-capitalistiche è tutto da dimostrare.
MB: D'accordo, quindi la proposta di una politica dei due o tre forni non è utopica, anche nella realtà attuale. Il lato utopico sta nell'idea che in uno Stato arrivino al potere forze antisistemiche...
FT: Infatti, il punto è che purtroppo sembra che non esista possibilità alcuna di cambiare veramente le cose. In base a qualche elucubrazione, qualcosa può apparire come vicolo cieco oppure no. Ma il punto è che non esiste possibilità alcuna. Il fatto è che, se siamo sinceri, dobbiamo ammettere che la classe dominante ha saputo unirsi. Nonostante divisioni, lotte intestine etc... ha saputo trovare un terreno comune, intorno al quale costruire un sistema condiviso (il che naturalmente non esclude che esistano fratture, battaglie, guerre).
E quindi, forse correttamente, pensi che l'unica strada sia quella di unire le forze dei dominati, contro i dominanti. Ma dubito che sia un tragitto che si possa realmente percorrere.
Guarda, facciamo un esempio banale: non riescono nemmeno a mettersi insieme le 16/17 squadre di serie A che non contano nulla, contro le 3/4 che contano. E' un caso interessantissimo, purtroppo. Se facessero "cartello", le 16/17 ricaverebbero tutte un grande vantaggio. Ma appena una di loro prova a costruire un po' di consenso su dei cambiamenti, le 3/4 reagiscono, e col loro potere, con concessioni e favori, distruggono l'unità creata.
Cambieremo il Mondo quando il Sassuolo vincerà lo scudetto.
CM: Oh! È proprio la mancanza di questa sincerità che critico in molti autori "anti-sistema"! Mancanza di sincerità accompagnata da wishful-thinking “crollista”. Io credo che fra i pre-requisiti dell'essere "rivoluzionari" sia convincersi del fatto che le classi dominanti la sanno lunga, ma davvero lunga, e che l'ultima cosa che faranno sarà permettere a dei pirla come noi di prevalere.
L'esempio che prendi è perfetto. È una conseguenza dell'effetto band-wagoning: la prima cosa che passa per la testa del debole non è diventare forte unendosi ad altri deboli, ma proteggere la propria debolezza affiliandosi a qualche soggetto forte. Ci sono anche casi più estremi della serie A: 180 stati nel mondo non riescono a coalizzarsi contro uno solo, gli USA...
Detto ciò, io studio la storia e l'attualità del medio oriente. Da questo studio ho tratto la convinzione che i miracoli esistono. Quel che sta accedendo ora in Iraq, per fare un esempio, è semplicemente miracoloso. Faremo miracoli? Probabilmente no. Però conserveremo la soddisfazione di non esserci resi complici di questo schifo di realtà.
FT: Su questo hai ragione: non possiamo essere complici. Il brutto è che poi tendono ad asfaltarti... temo che in Iraq sia questione di tempo...
MB: aggiungo anche il mio illuminato parere, visto che non sono intervenuto finora:
1.Probabile che la fase "neoliberista-globalizzata" del capitalismo sia entrata in una crisi senza uscita, e si stia lentamente, e sulla nostra pelle, elaborando una nuova forma del dominio capitalistico.
2.Probabile che questa nuova forma presenterà "grandi spazi" in competizione (economica, politica e militare).
3.Proprio questa configurazione potrebbe però riaprire spazi all'agire di uno Stato-nazione nel quale le forze antisistemiche siano arrivate al potere. In estrema sintesi, un tale Stato potrebbe giocare sulle rivalità fra i grandi centri di potere in competizione fra loro. L'analogia storica che ho in mente è quella del movimento dei paesi non allineati al tempo della guerra fredda, o del Vietnam che riuscì ad essere equidistante fra Russia e Cina, e a farsi aiutare da entrambi nella lotta contro gli USA, quando Russia e Cina si prendevano a cannonate sull'Ussuri (se ricordo bene).
Utopia per utopia....
CM: quella che tu indichi non è affatto un'utopia, ma la realtà odierna dei rapporti internazionali. Fuori dai grandi blocchi ci sono già oggi stati che praticano la politica dei due forni: un po' con gli USA, un po' con Russia-Cina. È la realtà di Iran, Arabia Saudita, a tratti persino Israele, Pakistan, il Viet Nam di oggi, molti stati africani, il Brasile...
Il punto è che lo "spazio di manovra" garantito dall'equidistanza, oltre a esporre a rischi chi lo pratica, non equivale alla possibilità di praticare politiche anti-capitalistiche. Infatti, nessuno degli stati citati fa un passo in quella direzione: nessuno si azzarda a mettere in discussione il mercato mondiale. Che destreggiarsi tra grandi potenze capitalistiche dia luogo alla possibilità di implementare politiche anti-capitalistiche è tutto da dimostrare.
MB: D'accordo, quindi la proposta di una politica dei due o tre forni non è utopica, anche nella realtà attuale. Il lato utopico sta nell'idea che in uno Stato arrivino al potere forze antisistemiche...
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domenica 22 giugno 2014
Movimenti interni ai ceti dominanti
Oggi sul Sole24ore alcuni articoli parlano della necessità di rilanciare la crescita, ovviamente mantenendo i vincoli dei Trattati. Non riesco a recuperare questi articoli in rete, ma il tono generale è quello che trovate qui.
Sembra davvero che ci sia qualche divergenza interna ai ceti dominanti sul "che fare".
(M.B.)
Aggiornamento: segnalo un articolo, breve e chiaro, sui temi teorici che stanno dietro a queste discussioni.
Ulteriore aggiornamento, dal Corriere della Sera.
Sembra davvero che ci sia qualche divergenza interna ai ceti dominanti sul "che fare".
(M.B.)
Aggiornamento: segnalo un articolo, breve e chiaro, sui temi teorici che stanno dietro a queste discussioni.
Ulteriore aggiornamento, dal Corriere della Sera.
giovedì 19 giugno 2014
Piccoli comunisti noeuro crescono?
Due interventi (non recentissimi) relativi al dibattito in Rifondazione, di Mimmo Porcaro e Ugo Boghetta:
http://sinistracontroleuro.blogspot.it/2014/06/di-classe-quindi-nazionale-di-mimmo.html#more
http://sinistracontroleuro.blogspot.it/2014/06/non-raccontiamoci-storiedi-ugo-boghetta.html
Segnalo un passaggio dell'intervento di Porcaro (lucido e interessante come sempre) sul quale mi permetto di esprimere un dissenso. Il passaggio è quello in cui dice che, appoggiando la lista Tsipras, la sinistra radicale si è trovata a svolgere
"forse per la prima volta nella sua storia, una funzione sostanzialmente conservatrice: quella di impedire la nascita, a sinistra, di una forza capace di contendere alla destra il campo dell’inevitabile battaglia antiunionista."
Ebbene, secondo me è dalla fine del PCI e dalla nascita di Rifondazione che la sinistra radicale ha in Italia il ruolo che Porcaro denuncia in riferimento alle vicende recenti: negli ultimi venti (e passa) anni la sinistra radicale ha avuto come effetto storico della sua azione quello di sostenere da sinistra le politiche impopolari dei governi di centro-sinistra, e di impedire la nascita di una seria opposizione.
(M.B.)
http://sinistracontroleuro.blogspot.it/2014/06/di-classe-quindi-nazionale-di-mimmo.html#more
http://sinistracontroleuro.blogspot.it/2014/06/non-raccontiamoci-storiedi-ugo-boghetta.html
Segnalo un passaggio dell'intervento di Porcaro (lucido e interessante come sempre) sul quale mi permetto di esprimere un dissenso. Il passaggio è quello in cui dice che, appoggiando la lista Tsipras, la sinistra radicale si è trovata a svolgere
"forse per la prima volta nella sua storia, una funzione sostanzialmente conservatrice: quella di impedire la nascita, a sinistra, di una forza capace di contendere alla destra il campo dell’inevitabile battaglia antiunionista."
Ebbene, secondo me è dalla fine del PCI e dalla nascita di Rifondazione che la sinistra radicale ha in Italia il ruolo che Porcaro denuncia in riferimento alle vicende recenti: negli ultimi venti (e passa) anni la sinistra radicale ha avuto come effetto storico della sua azione quello di sostenere da sinistra le politiche impopolari dei governi di centro-sinistra, e di impedire la nascita di una seria opposizione.
(M.B.)
lunedì 16 giugno 2014
Lo sciagurato errore di Enrico Berlinguer
Quest'anno, in occasione del trentennale della morte di Enrico Berlinguer (1922-1984), si è molto parlato della sua figura umana e politica. Come spesso accade di questi tempi, la tendenza mi sembra quella a “santificare” il personaggio e ad usarlo come nume tutelare delle più diverse scelte politiche (da Veltroni a Ferrero, per dire). Questa tendenza ha qualche giustificazione: in effetti Berlinguer appare il simbolo di un modo di essere “uomo politico” distante anni luce dalla volgarità e dall'affarismo spudorati cui ci ha abituati l'attuale ceto politico. Più in profondità, conta forse il fatto che Berlinguer è una figura di transizione: con lui si attua in sostanza il passaggio dalla sinistra emancipativa, ancora bene o male aderente ai suoi ideali storici di difesa delle classi subalterne, alla sinistra attuale, completamente interna alle logiche di un potere ferocemente antipopolare. La figura di Berlinguer rappresenta, almeno in Italia, l'estrema incarnazione della sinistra storica, e la sua morte rappresenta la morte di tale sinistra e la sua sostituzione con la ripugnante sinistra dei Veltroni e dei D'Alema.
Ci sono dunque dei motivi perché Berlinguer sia diventato il simbolo di una politica più degna di rispetto di quella contemporanea. Ma Berlinguer è stato un uomo politico importante, che ha segnato in profondità la storia del nostro paese per almeno un decennio. Un personaggio di questo calibro non può essere giudicato in primo luogo sulla base delle sue doti di dignità personale, o sulla base del valore simbolico che certi aspetti della sua vicenda possono assumere. Questa cose hanno una loro importanza, ma in primo luogo, nella valutazione di un uomo politico importante, vi è la valutazione di ciò che ha concretamente fatto. Se i ciabattini vanno giudicati dalle scarpe, gli scrittori dai romanzi, i registi dai film, è ovvio che i politici vanno giudicati dalle scelte politiche e dalle azioni politiche. Ora, l'azione politica di Berlinguer segretario del PCI si compendia nella proposta del “compromesso storico”. Naturalmente nella sua storia intellettuale c'è dell'altro, ma non mi sembra ci possano essere dubbi sul fatto che l'azione politica storicamente significativa di Berlinguer sia stata quella di portare il PCI alla politica del compromesso storico e di mantenervelo per tutti i turbolenti anni Settanta. Il giudizio sulla figura di Berlinguer come uomo politico storicamente significativo coincide dunque con il giudizio sulla politica del compromesso storico. Ritengo che su questo punto occorra esprimersi in maniera chiara e netta: il compromesso storico è stato uno sciagurato errore politico, una catastrofe sia per la sinistra (e di questo ormai mi importerebbe poco) sia per il paese (e di questo continua ad importarmi).
Ci sono dunque dei motivi perché Berlinguer sia diventato il simbolo di una politica più degna di rispetto di quella contemporanea. Ma Berlinguer è stato un uomo politico importante, che ha segnato in profondità la storia del nostro paese per almeno un decennio. Un personaggio di questo calibro non può essere giudicato in primo luogo sulla base delle sue doti di dignità personale, o sulla base del valore simbolico che certi aspetti della sua vicenda possono assumere. Questa cose hanno una loro importanza, ma in primo luogo, nella valutazione di un uomo politico importante, vi è la valutazione di ciò che ha concretamente fatto. Se i ciabattini vanno giudicati dalle scarpe, gli scrittori dai romanzi, i registi dai film, è ovvio che i politici vanno giudicati dalle scelte politiche e dalle azioni politiche. Ora, l'azione politica di Berlinguer segretario del PCI si compendia nella proposta del “compromesso storico”. Naturalmente nella sua storia intellettuale c'è dell'altro, ma non mi sembra ci possano essere dubbi sul fatto che l'azione politica storicamente significativa di Berlinguer sia stata quella di portare il PCI alla politica del compromesso storico e di mantenervelo per tutti i turbolenti anni Settanta. Il giudizio sulla figura di Berlinguer come uomo politico storicamente significativo coincide dunque con il giudizio sulla politica del compromesso storico. Ritengo che su questo punto occorra esprimersi in maniera chiara e netta: il compromesso storico è stato uno sciagurato errore politico, una catastrofe sia per la sinistra (e di questo ormai mi importerebbe poco) sia per il paese (e di questo continua ad importarmi).
venerdì 13 giugno 2014
Su decrescita e marxismo
Pubblico di seguito un mio articolo apparso sull'ultimo numero della rivista "Alfabeta2".
(M.B.)
La decrescita è rivoluzionaria ma i marxisti non lo sanno
(Marino Badiale)
Vi è qualcosa di paradossale nel modo in cui il variegato mondo dell'estrema sinistra più o meno marxista ha finora discusso e criticato la proposta della decrescita. Vi è infatti un consenso abbastanza diffuso, fra i marxisti, su due questioni: in primo luogo lo sviluppo storico degli ultimi due secoli ha portato ad una situazione nella quale il rapporto sociale capitalistico non implica solamente, come in passato, sfruttamento e disumanità nei rapporti sociali, ma sta ormai minacciando la distruzione degli equilibri naturali e, quindi, delle stesse condizioni fisiche di una vita umana sensata, se non di una vita umana tout court. In secondo luogo, tale rapporto sociale, nella forma attuale, ha come elemento necessario la crescita della mercificazione di ogni ambito dell'esistenza, cioè la riduzione a merce di sempre maggiori settori dell'attività produttiva umana, e quindi la correlativa crescita del consumo di merci, perché beni e servizi prodotti sempre più nella forma di merci devono ovviamente trovare degli acquirenti.
Il pensiero della decrescita parte da una analisi che ha forti assonanze con quanto appena detto, e propone come risultato di tale analisi la riduzione della sfera dell'attività sociale organizzata secondo la logica del rapporto sociale capitalistico. Per capire questa proposta occorre naturalmente distinguere fra beni e merci: i beni (beni materiali o servizi) sono i prodotti del lavoro umano che soddisfano a qualche tipo di bisogno, le merci sono i beni prodotti per il mercato e dotati di un prezzo. La decrescita di cui si parla è quella delle merci, non dei beni. Ci si propone cioè di ridurre la sfera dell'attività umana che si esprime nella produzione di merci per il mercato. Le proposte sono di molti tipi diversi, perché è un'intera forma di organizzazione della produzione umana che deve essere ripensata. Si va quindi da forme di autoproduzione di beni e servizi, scambiati all'interno di reti non mercantili, alla ricerca di sviluppi tecnologici che permettano la produzione di merci più durature e meno inquinanti, al risparmio energetico, alla creazione di una vasta rete di servizi pubblici gratuiti sottratti al mercato, alla riduzione dell'orario di lavoro. E si potrebbe continuare.
La caratteristica più interessante del movimento per la decrescita è probabilmente lo sforzo di articolare queste idee in proposte concrete, che incidano sulla vita quotidiana e che possano essere praticate nel presente.
(M.B.)
La decrescita è rivoluzionaria ma i marxisti non lo sanno
(Marino Badiale)
Vi è qualcosa di paradossale nel modo in cui il variegato mondo dell'estrema sinistra più o meno marxista ha finora discusso e criticato la proposta della decrescita. Vi è infatti un consenso abbastanza diffuso, fra i marxisti, su due questioni: in primo luogo lo sviluppo storico degli ultimi due secoli ha portato ad una situazione nella quale il rapporto sociale capitalistico non implica solamente, come in passato, sfruttamento e disumanità nei rapporti sociali, ma sta ormai minacciando la distruzione degli equilibri naturali e, quindi, delle stesse condizioni fisiche di una vita umana sensata, se non di una vita umana tout court. In secondo luogo, tale rapporto sociale, nella forma attuale, ha come elemento necessario la crescita della mercificazione di ogni ambito dell'esistenza, cioè la riduzione a merce di sempre maggiori settori dell'attività produttiva umana, e quindi la correlativa crescita del consumo di merci, perché beni e servizi prodotti sempre più nella forma di merci devono ovviamente trovare degli acquirenti.
Il pensiero della decrescita parte da una analisi che ha forti assonanze con quanto appena detto, e propone come risultato di tale analisi la riduzione della sfera dell'attività sociale organizzata secondo la logica del rapporto sociale capitalistico. Per capire questa proposta occorre naturalmente distinguere fra beni e merci: i beni (beni materiali o servizi) sono i prodotti del lavoro umano che soddisfano a qualche tipo di bisogno, le merci sono i beni prodotti per il mercato e dotati di un prezzo. La decrescita di cui si parla è quella delle merci, non dei beni. Ci si propone cioè di ridurre la sfera dell'attività umana che si esprime nella produzione di merci per il mercato. Le proposte sono di molti tipi diversi, perché è un'intera forma di organizzazione della produzione umana che deve essere ripensata. Si va quindi da forme di autoproduzione di beni e servizi, scambiati all'interno di reti non mercantili, alla ricerca di sviluppi tecnologici che permettano la produzione di merci più durature e meno inquinanti, al risparmio energetico, alla creazione di una vasta rete di servizi pubblici gratuiti sottratti al mercato, alla riduzione dell'orario di lavoro. E si potrebbe continuare.
La caratteristica più interessante del movimento per la decrescita è probabilmente lo sforzo di articolare queste idee in proposte concrete, che incidano sulla vita quotidiana e che possano essere praticate nel presente.
mercoledì 11 giugno 2014
Per chi vuole vedere...
Nell'Iraq Nord-occidentale si scatena l'insurrezione sunnita contro il governo settario sciita di Nuri Al Maliki. A Baghdad giunge la solidarietà, nonché l'offerta di aiuto sul campo, da tre capitali: Damasco, Teheran e Washington.
Discussioni sull'austerità
Qualche giorno fa abbiamo segnalato due ipotesi sui possibili sviluppi futuri della situazione nell'eurozona. In questo articolo trovate ulteriori elementi per la comprensione delle discussioni interne ai ceti dominanti.
(M.B.)
(M.B.)
martedì 10 giugno 2014
Il valore delle parole
La sinistra, almeno in Italia, è allo stadio terminale. Non ci si riferisce qui alla "sinistra" di Matteo Renzi, su cui non occorre sprecare parole, bensì a quella che passa per sinistra "radicale".
Qualche anno fa, gli esponenti di quella sinistra votavano, in parlamento, a favore delle missioni di occupazione militare all'estero; fuori dal parlamento, manifestavano contro le missioni di occupazione militare all'estero. Le loro parole non avevano più alcun collegamento, nemmeno remoto, con i fatti politicamente rilevanti.
Ma almeno si trattava di fatti politicamente rilevanti!
Barbara Spinelli ha recentemente dimostrato il valore della propria parola. Lo ha fatto con questa lettera, la quale andrebbe letta e riletta più volte, tanto per comprendere meglio gli schemi entro cui si muove l'immaginazione di chi vive in certi ambienti. Ambienti nei quali, lo dicevamo, le parole hanno perso ogni contatto con la realtà.
Non commentiamo la succitata lettera: a farlo, e a sottolineare il valore morale e intellettuale di chi l'ha scritta, ci hanno pensato Christian Raimo e Leonardo Mazzei.
Auspichiamo solo che su questi temi non si debba tornare a parlare. È un po'deprimente, alla lunga. (C.M.)
Qualche anno fa, gli esponenti di quella sinistra votavano, in parlamento, a favore delle missioni di occupazione militare all'estero; fuori dal parlamento, manifestavano contro le missioni di occupazione militare all'estero. Le loro parole non avevano più alcun collegamento, nemmeno remoto, con i fatti politicamente rilevanti.
Ma almeno si trattava di fatti politicamente rilevanti!
Barbara Spinelli ha recentemente dimostrato il valore della propria parola. Lo ha fatto con questa lettera, la quale andrebbe letta e riletta più volte, tanto per comprendere meglio gli schemi entro cui si muove l'immaginazione di chi vive in certi ambienti. Ambienti nei quali, lo dicevamo, le parole hanno perso ogni contatto con la realtà.
Non commentiamo la succitata lettera: a farlo, e a sottolineare il valore morale e intellettuale di chi l'ha scritta, ci hanno pensato Christian Raimo e Leonardo Mazzei.
Auspichiamo solo che su questi temi non si debba tornare a parlare. È un po'deprimente, alla lunga. (C.M.)
lunedì 9 giugno 2014
La tragedia della crescita
È superfluo ritornare sulle malefatte della nostra classe politico-imprenditoriale: è come sparare sulle ambulanze. Il livello di corruttela ha ormai raggiunto picchi inauditi, e i casi dell'EXPO e del MOSE sono lì a dimostrarlo (come presto sarà per il caso della TAV).
Non è superfluo, invece, concentrarsi sull'unanime coro che si è levato,in questi giorni, da parte degli esponenti del ceto politico non ancora lambiti dall'azione degli inquirenti: "mettete in galera i delinquenti, ma per favore completiamo le opere". È un messaggio che pare stare a cuore sopratutto a Matteo Renzi.
Eppure il problema, più che nelle tangenti, sta proprio nelle opere. Meglio: le une e le altre sono figlie della stessa logica. Una logica improntata all'autodistruzione.
Consigliamo vivamente di leggere questo articolo dello storico dell'arte Tomaso Montanari, introdotto da Miguel Martinez. La lettura consente di comprendere fino in fondo la tragedia che sta dietro quest'ennesima grande opera. In buona sostanza, essa è funzionale all'iper-sfruttamento turistico di una Venezia ridotta a Disneyland; iper-sfruttamento che è incompatibile con l'equilibrio ambientale che ha permesso a Venezia di nascere e di conservarsi in tutta la sua bellezza.
È possibile che la nostra specie, e persino buona parte del nostro benessere, sopravvivano all'incalzare della legge delle riproduzione allargata del capitale, nota anche come crescita del PIL; è assai improbabile che vi riesca il nostro patrimonio culturale, e con esso quel che resta della nostra civilità.
Non è superfluo, invece, concentrarsi sull'unanime coro che si è levato,in questi giorni, da parte degli esponenti del ceto politico non ancora lambiti dall'azione degli inquirenti: "mettete in galera i delinquenti, ma per favore completiamo le opere". È un messaggio che pare stare a cuore sopratutto a Matteo Renzi.
Eppure il problema, più che nelle tangenti, sta proprio nelle opere. Meglio: le une e le altre sono figlie della stessa logica. Una logica improntata all'autodistruzione.
Consigliamo vivamente di leggere questo articolo dello storico dell'arte Tomaso Montanari, introdotto da Miguel Martinez. La lettura consente di comprendere fino in fondo la tragedia che sta dietro quest'ennesima grande opera. In buona sostanza, essa è funzionale all'iper-sfruttamento turistico di una Venezia ridotta a Disneyland; iper-sfruttamento che è incompatibile con l'equilibrio ambientale che ha permesso a Venezia di nascere e di conservarsi in tutta la sua bellezza.
È possibile che la nostra specie, e persino buona parte del nostro benessere, sopravvivano all'incalzare della legge delle riproduzione allargata del capitale, nota anche come crescita del PIL; è assai improbabile che vi riesca il nostro patrimonio culturale, e con esso quel che resta della nostra civilità.
venerdì 6 giugno 2014
Amici del futuro/2: Jean-Claude Michéa.
J.C. Michéa, Il vicolo cieco dell'economia, Elèuthera.
È bello scoprire di non essere soli nell'universo. Solo da poco ho avuto occasione di leggere questo piccolo libro del filosofo francese Michéa, uscito in Francia nel 2002 e in Italia nel 2004, e vi ho trovato una serie di riflessioni in forte assonanza con quanto Bontempelli ed io abbiamo elaborato negli ultimi anni. Il fatto che autori diversi arrivino in maniera del tutto indipendente a conclusioni simili è un buon indizio del fatto che certi concetti stanno facendosi strada.
Il punto di partenza di Michéa è la necessità di una critica radicale della nostra organizzazione sociale, le cui contraddizioni sono evidenti negli stessi discorsi ideologici ufficiali. Infatti l'apparato ideologico dominante ci presenta contemporaneamente queste due “narrazioni”: da una parte lo sviluppo tecnologico e scientifico ci offre ogni giorno nuovi progressi e nuove potenzialità, promettendo a breve l'avvento di un mondo in cui l'umanità realizzerà i suoi sogni secolari, e anche i sogni che non aveva mai sognato; dall'altra parte, appena si arriva alle “cose concrete”, il discorso dominante cambia di colpo e ci viene ricordato che abbiamo vissuto finora al di sopra dei nostri mezzi, che occorre rinunciare a diritti che si erano creduti acquisiti, che un lavoro stabile, una pensione dignitosa, cure mediche e istruzione universali sono ormai privilegi in contrasto con le leggi dell'economia. Come osserva Michéa,
“suppongo non sia necessario avere un carattere particolarmente ombroso o incontentabile per arrivare alla conclusione che un sistema sociale che ha bisogno di favole di questo genere per legittimare le proprie modalità di funzionamento reali sia ingiusto e inefficace nel principio stesso, e proprio per questo imponga una critica radicale” (pagg.12-13)
La radicalità della critica di Michéa investe il capitalismo ma anche i suoi oppositori, perché, dopo due secoli di esistenza della sinistra, cioè della “parte sociale” che raccoglie gli oppositori al capitalismo, occorre ovviamente chiedersi
“come può essere (..) che un movimento storico di tale portata non sia mai riuscito a rompere nella pratica l'organizzazione capitalistica dell'esistenza?”(pag.13)
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martedì 3 giugno 2014
Cos'è la democrazia partecipativa?
di Fabrizio Tringali
Il "granello di sabbia", periodico online di Attac Italia, ha
recentemente lanciato un dibattito sulla democrazia partecipativa.
La discussione parte dall'articolo intitolato "democrazia partecipata" che trovate in questo numero.
La discussione parte dall'articolo intitolato "democrazia partecipata" che trovate in questo numero.
Si tratta, a mio avviso, di un tema di importanza centrale,
perché senza una radicale evoluzione in senso democratico del
funzionamento delle istituzioni e dei soggetti politici,
non esiste possibilità di invertire la rotta verso il baratro. Anche il
recupero della sovranità nazionale, della possibilità di implementare
politiche economiche e monetarie autonome (uscendo dalle gabbie
dell'euro e della UE) vanno viste come "condicio sine qua non" per poter
ripensare l'intero assetto politico-sociale in senso democratico (è
abbastanza chiaro a tutti, spero, che senza sovranità non ha senso
parlare di evoluzione democratica, perché le decisioni importanti
vengono prese altrove).
Il problema è che, purtroppo, il tema della democrazia
partecipativa è molto più ostico di quanto non si possa pensare. Le
approssimazioni e le banalità si sprecano, e il dibattito lanciato dal
"granello" può essere, invece, una buona occasione per chiarirci qualche
idea.
lunedì 2 giugno 2014
Ancora sulle elezioni
Segnalo un intervento sulle elezioni europee di Leonardo Mazzei:
http://sollevazione.blogspot.it/2014/05/la-resistibile-ascesa-di-matteo-renzi.html
Mi sembra interessante notare che, a partire da uno sfondo condiviso di analisi, vi sia una differenziazione fra quanto dice Mazzei (e condiviso da molti, anche fra i lettori di questo blog) e quanto ha sostenuto Claudio Martini in vari interventi sul blog: il punto è se i ceti dominanti siano in grado di stabilizzare la situazione attuale, magari concedendo qualcosa in termini di allentamento delle politiche di austerità (e chiedendo molto, si intende, in termini di perdita di democrazia e di diritti), oppure se all'interno di euro e UE questo sia impossibile e il tavolo da gioco di Renzi e sodali sia quindi destinato a saltare. La prima è l'opinione di Claudio (ma anche di molti analisti mainstream, che ovviamente attribuiscono un segno positivo a questa eventualità), la seconda di Mazzei e di molti “antisistemici”. È una questione aperta, e probabilmente i prossimi mesi ci daranno la risposta.
(M.B.)
http://sollevazione.blogspot.it/2014/05/la-resistibile-ascesa-di-matteo-renzi.html
Mi sembra interessante notare che, a partire da uno sfondo condiviso di analisi, vi sia una differenziazione fra quanto dice Mazzei (e condiviso da molti, anche fra i lettori di questo blog) e quanto ha sostenuto Claudio Martini in vari interventi sul blog: il punto è se i ceti dominanti siano in grado di stabilizzare la situazione attuale, magari concedendo qualcosa in termini di allentamento delle politiche di austerità (e chiedendo molto, si intende, in termini di perdita di democrazia e di diritti), oppure se all'interno di euro e UE questo sia impossibile e il tavolo da gioco di Renzi e sodali sia quindi destinato a saltare. La prima è l'opinione di Claudio (ma anche di molti analisti mainstream, che ovviamente attribuiscono un segno positivo a questa eventualità), la seconda di Mazzei e di molti “antisistemici”. È una questione aperta, e probabilmente i prossimi mesi ci daranno la risposta.
(M.B.)
domenica 1 giugno 2014
Il problema è Napolitano, o è la Costituzione?
A partire dal fatidico 11 novembre 2011
Giorgio Napolitano è stato sovente accusato di sovversivismo
costituzionale; egli avrebbe modificato la costituzione materiale del
paese in maniera illegittima.
-Modificato la costituzione materiale, in quanto avrebbe concentrato nelle proprie mani una quantità di potere del tutto esorbitante rispetta a quella riconosciutagli dalla Carta, e comunque in netto contrasto con la prassi consolidata, arrivando addirittura a modificare la forma di governo;
-in maniera illegittima, in quanto per cambiare la costituzione materiale avrebbe posto in atto patenti violazioni della costituzione formale, venendo meno ad obblighi o non rispettando divieti.
Tali accuse non sono certo piovute da parte dei media mainstream né da parte delle fazioni del ceto politico, di cui Napolitano è sempre più apparso, in questi anni, il dominus incontrastato; sono provenute dal mondo anti-sistema italiano, che in questo momento ha la sua rappresentanza politico-elettorale prevalente nel Movimento 5 Stelle. Proprio quest'ultimo soggetto politico si è fatto promotore dell'iniziativa di messa in stato d'accusa del Presidente della Repubblica, mostrando una notevole coerenza tra parole e fatti concreti.
-Modificato la costituzione materiale, in quanto avrebbe concentrato nelle proprie mani una quantità di potere del tutto esorbitante rispetta a quella riconosciutagli dalla Carta, e comunque in netto contrasto con la prassi consolidata, arrivando addirittura a modificare la forma di governo;
-in maniera illegittima, in quanto per cambiare la costituzione materiale avrebbe posto in atto patenti violazioni della costituzione formale, venendo meno ad obblighi o non rispettando divieti.
Tali accuse non sono certo piovute da parte dei media mainstream né da parte delle fazioni del ceto politico, di cui Napolitano è sempre più apparso, in questi anni, il dominus incontrastato; sono provenute dal mondo anti-sistema italiano, che in questo momento ha la sua rappresentanza politico-elettorale prevalente nel Movimento 5 Stelle. Proprio quest'ultimo soggetto politico si è fatto promotore dell'iniziativa di messa in stato d'accusa del Presidente della Repubblica, mostrando una notevole coerenza tra parole e fatti concreti.
Tuttavia, non paiono condivisibili
gran parte delle argomentazioni addotte in sostegno della tesi in
esame. In particolare, l'ipotesi di violazione di norme
costituzionali da parte di Napolitano non sembra reggere a fronte di
una semplice verifica del dato testuale della Carta.
Intendiamoci: Napolitano ha commesso
atti gravissimi sotto il profilo politico e istituzionale.
L'operazione Monti, dal punto di vista sociale, si è concretizzata
in un autentico supplizio economico per i ceti subalterni di
questo paese; il conflitto di attribuzioni sollevato nei confronti
della Procura di Palermo ha prodotto una situazione senza precedenti
di tensione istituzionale, che ha visto la Consulta costretta a
scegliere tra il dare torto al Presidente della Repubblica oppure al
Codice di Procedura Penale, gettando inoltre un'ombra nerissima sul
possibile ruolo dello stesso Napolitano nella vicenda della
“trattativa Stato-Mafia”.
Quando però si accusa qualcuno di aver
trasgredito ad una legge, non bastano le ragioni di opportunità
politica a fondare un tale giudizio; è necessaria individuare quali
norme, nello specifico, sarebbero state violate. È vero che
Napolitano ha, di fatto, mutato la forma di governo della Repubblica,
rompendo consuetudini di decennale stratificazione; ma nel farlo si è
servito di tutte e sole le disposizioni costituzionali che
disciplinano le prerogative del Presidente della Repubblica: e se non
si dimostra il mancato rispetto di quelle disposizioni non può aver
seguito l'accusa di aver attentato alla Costituzione.
È necessario distinguere tra TEORIA e
IDEOLOGIA della funzione presidenziale. La teoria è la catalogazione
dei poteri del Presidente come desunti dalla lettura della Carta;
l'ideologia è l'insieme delle posizioni dottrinali che gli studiosi
del diritto costituzionale hanno per generazioni coltivato,
costruendo una figura ideale di Presidente alla luce della quale
interpretare le disposizioni costituzionali. Notate bene: la teoria
segue logicamente l'analisi delle norme, l'ideologia la precede.
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