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martedì 10 marzo 2015

Il futuro dei greci è nelle mani dei greci

 Claudio Martini



Il commentatore Francesco ci segnala un pezzo di Michele Nobile, che giudico uno pochi commenti davvero all'altezza della situazione che sta vivendo la Grecia.
L'articolo ha diversi meriti. In primo luogo, fa piazza pulita della retorica (e della disinformazione) sulla presunta capitolazione del governo Tsipras.
Come il lettore ricorderà, La linea di Schauble era: nessuna trattativa con i greci; il memorandum sottoscritto dal governo di Samaras del 2012 va bene così com'è. Ed il ministro era sicuro di spuntarla, dato che poteva contare, sulla carta, della maggioranza dei voti in seno all'Eurogruppo.
Tale linea è stata platealmente sconfessata dal vice-presidente del consiglio tedesco, il segretario della SPD Sigmar Gabriel, e pertanto Schauble ha dovuto fare "marcia indietro", per la gioia di Verdi e Linke e lo scorno della CSU.
La "mozione Varoufakis", gradualmente, ha saputo conquistare i favori della Commissione Europea, del FMI, dell'OCSE, e persino il sostegno informale degli USA. Il governo greco, pertanto, è riuscito nell'opera di dividere il fronte dell'egemonia "eurista" e occidentale.

Questo purtroppo non è chiaro a molti commentatori, anche di aree molto diverse. Temo che siano condivisibili le parole di Krugman:

in realtà, la mia sensazione è che stiamo vedendo una diabolica alleanza qui tra gli scrittori di sinistra (e no-euro, NdA) con aspettative irrealistiche e la stampa economica, che ama la storia della debacle greca perché è quello che dovrebbe accadere a debitori arroganti.

La situazione è invece chiara a Nobile: 

Un risultato è che il governo Tsipras è sopravvissuto al negoziato, non come mero esecutore ma come autentica parte negoziale, attiva nel definire l'agenda delle misure di politica economica e sociale.

 Chiunque avesse contrattato con la troika in queste condizioni, nazionali e internazionali, avrebbe ottenuto gli stessi risultati.

Naturalmente, minacciare l'uscita dall'euro avrebbe comportato l'immediata vittoria delle controparti dei greci, in primo luogo della Germania. Non può passare inosservato come, nelle settimane antecedenti il negoziato, diversi esponenti tedeschi abbiano minimizzato gli effetti di un'eventuale uscita dall'euro della Grecia, in netto contrato con quanto affermato da Draghi. Anche durante il negoziato, Schauble si è spinto a dire che la permanenza dall'euro dipendeva dal governo greco, con un plateale tentativo di spostare le responsabilità del Grexit sulle spalle di Tsipras. La minaccia di uscire dall'euro unilateralmente, impraticabile per un governo appena insediato, politicamente impopolare in Grecia, economicamente foriera di ulteriori, gravissime difficoltà per un'economia già disastrata, sarebbe stata accolta dai negoziatori dei paesi del Nord con un largo sorriso.

Il merito più grande del pezzo di Nobile, tuttavia, è un altro. Egli mette in chiara luce la natura del confronto tra il governo Tsipras e gli altri esecutivi europei: democrazia vs post-democrazia, mandato popolare vs potere della finanza.E dato che la democrazia, in questo momento storico, è particolarmente debole, i rapporti di forza hanno permesso di raggiungere un accordo tra governo greco e 'istituzioni' che è, allo stesso tempo, il massimo che poteva essere raggiunto e il minimo che dovrebbe essere fatto oggi in Grecia.
Perché, sia ben chiaro, le riforme annunciate da Varoufakis sono positive, ma assolutamente insufficienti; e bene fa chi sottolinea la loro insufficienza. Afferma giustamente Nobile:

nella contrattazione con la troika il governo Tsipras sarebbe molto più forte se potesse far valere la mobilitazione spontanea e offensiva dei lavoratori e dei comuni cittadini greci; ma se questi ultimi pretendessero, com'è giusto, la realizzazione integrale e rapida (i tempi!) del Programma di Salonicco, allora Syriza dovrebbe rivedere la propria strategia, rischiando altrimenti di trovarsi invischiata in una terribile e fatale contraddizione politica.

In realtà, dubito fortemente che il governo greco, di fronte ad una mobilitazione spontanea e di massa, sposerebbe la linea del moderatismo compromissoria. Penso invece che approfitterebbe della situazione per rafforzare la propria posizione negoziale. Ma ciò non toglie valore all'analisi.

L'errore più grande che possiamo commettere (e che non devono commettere i greci) è di considerare Tsipras alla stregua di un salvatore. Non sarà il governo greco, da solo, a portate il paese fuori dell'abisso.  Occorre la mobilitazione di tutti. Chi invece oggi si affida, senza far nulla, all'azione del governo, si prepara, domani, a gridare al tradimento del presunto salvatore. Questo atteggiamento non prelude ad altro che a nuove sconfitte.
Per i greci, dunque, è proprio questo il momento di prendere in mano il proprio destino. Le mobilitazioni anti-austerità degli scorsi anni dovrebbero dunque riaccendersi, ancora più forti, nella consapevolezza che ad Atene c'è oggi un governo democratico, e non di nemici del popolo.
Questo discorso, naturalmente, coinvolge tutti i popoli europei. Maggiore sarà la loro (la nostra!) mobilitazione, nei nostri paesi e nelle nostre città, contro le misure decise dai rappresentanti della grande finanza europea, maggiore saranno le probabilità che il governo greco (e i governi democratici che verranno) riescano a cambiare le regole del regime dell'euro. Minore sarà tale mobilitazione, maggiore sarà la misura della nostra sconfitta.



martedì 24 giugno 2014

Dialogo a tre sul nostro futuro


Vi proponiamo un dialogo (via mail) fra i curatori del blog. Senza pretese di grande profondità teorica, crediamo che sia interessante per i lettori, poiché vengono toccati temi sui quali in molti ci arrovelliamo. Vengono messi a confronto punti di vista e prospettive diverse, che offriamo alla vostra valutazione.


FT: Voi sapete qualcosa di questa iniziativa? http://www.fiom-cgil.it/web/aree/europa/news/573-lanciata-la-campagna-contro-il-ttip-da-60-associazioni-in-europa


CM: Alcuni movimenti locali seguono la vicenda da un po', mi sembra con scarsi risultati.


FT: Non è strano, più il nemico si allontana, meno è facile costruire opposizione. In fondo è sensato non crederci. Pensa: una trattativa fra UE e USA, che cosa pensi di poterci fare? Davvero dovremmo riuscire a dire che l'unica cosa sensata sarebbe uscire da quest'incubo e tornare in una condizione in cui possiamo pensare di incidere nella realtà.


CM: Io non penserei di poter incidere nemmeno se comandassi un nucleo di Tupamaros armati fino ai denti, figurati. Del resto ve l'ho scritto: l'orizzonte concettuale della mia attività politica concreta è racchiuso nei confini del comune di Genova.
Cosa intendi, in pratica, con la frase “uscire da quest'incubo e tornare in una condizione in cui possiamo pensare di incidere nella realtà.”?


FT: Sei molto ottimista. Dubito che al momento si possa andare oltre la dimensione del condominio...
Uscire dall'incubo significa ricondurre il maggior numero di decisioni politiche in ambiti ove sia possibile la partecipazione democratica. La sovranità dovrebbe tornare alla stato nazionale (in parte c'è già, come spesso hai sostenuto tu, ma in buona parte è stata ceduta).
Poi però la sovranità, che appartiene al popolo, dovrebbe essere esercitata dai cittadini laddove è loro possibile, anche aumentando le competenze e le risorse degli enti locali.
Il punto centrale però è il discorso sulla globalizzazione. Se la si considera un dato di fatto indiscutibile, e non modificabile, allora possiamo anche piantarla lì, tanto non possiamo fare proprio nulla. Né a livello planetario, né a Genova.


CM: Il problema per me è il seguente: noi possiamo anche dichiarare modificabile e discutibile la globalizzazione, non è un problema. Di irreversibile c'è solo la morte. Concettualmente sfondi una porta aperta. Politicamente le cose si complicano. La domanda che mi pongo è: "Come si attua la de-globalizzazione?" 
Facciamo un'ipotesi di "fantascienza", e assumiamo di poter disporre, noi, di un notevole potere politico in ambito nazionale. Una volta al potere attuiamo misure de-globalizzatrici. Cominciamo dal blocco dei movimenti di capitale: senza di esso non si fa nulla. Ottimo, abbiamo creato un isola nel sistema finanziario internazionale; essa finirebbe stritolata nel giro di pochi mesi, o meglio ci stritolerebbero prima i cittadini, una volta che si siano accorti che non possono usare le loro carte di credito una volta usciti dai patrii confini (e mille altre limitazioni). Tutta roba già successa agli inizi degli anni '80, quando Mitterand provò a socialistizzare la Francia: bloccò i movimenti di capitale, nazionalizzò le banche, fece anche tante altre cose carine. Durò un anno. Figuratevi adesso.
La de-globalizzazione mi sembra analoga al disarmo: chi disarma per primo? Non credo proprio che sia alcunché di realizzabile per iniziativa unilaterale di uno stato solo (a meno che non si tratti degli Stati Uniti). O si fa in contemporanea tra i principali stati industrializzati, o non ha senso farlo.
L'eventuale de-globalizzazione dovrebbe essere frutto dell'azione coordinata di vasti movimenti internazionali. Allora potrebbe funzionare. Non è più fantascientifico di una nostra presa del potere in ambito nazionale, se ci riflettete.
Va detto infine che se per caso esistessero vasti movimenti internazionali in grado di agire in maniera coordinata tra loro, allora a quel punto si perderebbe la necessità di de-globalizzare: le forze popolari avrebbero la possibilità di gestire in maniera democratica le dinamiche economiche sovra-nazionali, per esempio inibendo la concorrenza tra stati e lavoratori.
La morale della favola è: se tanto è tutto utopico, scegli l'utopia che ti esalta di più (o quella che ti deprime di meno)


FT: Uhm... credo che quel che dici sia molto più fantascientifico di una presa di potere a livello nazionale. Però resta il problema che poni: che te ne fai del potere a livello nazionale, se gli altri sono tutti dentro la globalizzazione? Tuttavia non credo che la questione sia esattamente nei termini che indichi tu, perché probabilmente, in realtà, ci sono paesi che stanno cercando vie alternative. Forse. In Sudamerica per esempio. In ogni caso quel che è certo è che si scatenerebbero guerre terribili, sia in questo scenario, che nel caso della presa di potere da parte di movimenti internazionali (a meno che essi non riescano ad assumere contemporaneamente il comando di tutte, o quasi, le forze armate importanti del Mondo, il che è un tantino improbabile).


CM: Sudamerica? Non credo proprio, guarda il Brasile di oggi...
Sinceramente, non vedo alternative a livello mondiale. I paesi si differenziano per il modo di stare dentro la globalizzazione, ma nessuno la mette in discussione; il primo che lo facesse si autodistruggerebbe. Nessun capitalismo nazionale rinuncerà mai al mercato mondiale (anche perché credo che le classi dirigenti siano abbastanza memori di quel che è successo l'ultima volta...)
Quel che invece può accadere è che il mercato mondiale si segmenti in alcune macro-aree. Il TTIP è un passo verso tale direzione. È possibile che, in risposta all'iniziativa USA di creare tale "NATO economica" anche altri gruppi di stati apparecchino qualcosa (ma non è affatto detto: Giappone, Russia, India e Cina si mandano a quel paese ogni volta che possono).
La creazione di queste macro-aree potrebbe essere interpretato come un gesto di deglobalizzazione. Tuttavia, non sfugge che all'interno di queste aree il principio "liberista" tipico della globalizzazione verrebbe amplificato. Quindi in realtà si tratta di una globalizzazione più intensa, anche se più ristretta dal punto di vista dei soggetti coinvolti.
È probabile che USA e UE, legate da NATO e TTIP, daranno anche vita a qualcosa di simile ad un coordinamento permanente tra governi: qualcosa di più del G-7 e qualcosa di meno dell'attuale Consiglio Europeo, per dire. Magari, chissà, un giorno ci faranno eleggere una pazzesca assemblea parlamentare atlantica...
Al di fuori di questa area i singoli paesi continueranno la loro corsa verso il turbo-capitalismo, Sudamerica in testa.
Può darsi che in questo scenario le comunità locali diano vita a qualche forma di resistenza. Perché questa resistenza abbia forza, credo debbano esserci due condizioni:
1) forte solidarietà trans-nazionale tra le varie comunità e tra i vari movimenti;
2) totale indipendenza dagli organi dello stato nazionale, in particolare dai suoi addentellati partitici/sindacali/elettorali/istituzionali.
PS Poniamo che la presa del potere a livello nazionale abbia una possibilità su un milione. Ti concedo che la prospettiva "internazionalista" ne abbia una su tre milioni. Praticamente, che cambia? Sono entrambe fantascientifiche. Solo che la prima, a mio avviso, è un vicolo cieco, la seconda no.


FT: Infatti, il punto è che purtroppo sembra che non esista possibilità alcuna di cambiare veramente le cose. In base a qualche elucubrazione, qualcosa può apparire come vicolo cieco oppure no. Ma il punto è che non esiste possibilità alcuna. Il fatto è che, se siamo sinceri, dobbiamo ammettere che la classe dominante ha saputo unirsi. Nonostante divisioni, lotte intestine etc... ha saputo trovare un terreno comune, intorno al quale costruire un sistema condiviso (il che naturalmente non esclude che esistano fratture, battaglie, guerre).
E quindi, forse correttamente, pensi che l'unica strada sia quella di unire le forze dei dominati, contro i dominanti. Ma dubito che sia un tragitto che si possa realmente percorrere.
Guarda, facciamo un esempio banale: non riescono nemmeno a mettersi insieme le 16/17 squadre di serie A che non contano nulla, contro le 3/4 che contano. E' un caso interessantissimo, purtroppo. Se facessero "cartello", le 16/17 ricaverebbero tutte un grande vantaggio. Ma appena una di loro prova a costruire un po' di consenso su dei cambiamenti, le 3/4 reagiscono, e col loro potere, con concessioni e favori, distruggono l'unità creata.
Cambieremo il Mondo quando il Sassuolo vincerà lo scudetto.


CM: Oh! È proprio la mancanza di questa sincerità che critico in molti autori "anti-sistema"! Mancanza di sincerità accompagnata da wishful-thinking “crollista”. Io credo che fra i pre-requisiti dell'essere "rivoluzionari" sia convincersi del fatto che le classi dominanti la sanno lunga, ma davvero lunga, e che l'ultima cosa che faranno sarà permettere a dei pirla come noi di prevalere.
L'esempio che prendi è perfetto. È una conseguenza dell'effetto band-wagoning: la prima cosa che passa per la testa del debole non è diventare forte unendosi ad altri deboli, ma proteggere la propria debolezza affiliandosi a qualche soggetto forte. Ci sono anche casi più estremi della serie A: 180 stati nel mondo non riescono a coalizzarsi contro uno solo, gli USA...
Detto ciò, io studio la storia e l'attualità del medio oriente. Da questo studio ho tratto la convinzione che i miracoli esistono. Quel che sta accedendo ora in Iraq, per fare un esempio, è semplicemente miracoloso. Faremo miracoli? Probabilmente no. Però conserveremo la soddisfazione di non esserci resi complici di questo schifo di realtà.


FT: Su questo hai ragione: non possiamo essere complici. Il brutto è che poi tendono ad asfaltarti... temo che in Iraq sia questione di tempo...


MB: aggiungo anche il mio illuminato parere, visto che non sono intervenuto finora:
1.Probabile che la fase "neoliberista-globalizzata" del capitalismo sia entrata in una crisi senza uscita, e si stia lentamente, e sulla nostra pelle, elaborando una nuova forma del dominio capitalistico.
2.Probabile che questa nuova forma presenterà "grandi spazi" in competizione (economica, politica e militare).
3.Proprio questa configurazione potrebbe però riaprire spazi all'agire di uno Stato-nazione nel quale le forze antisistemiche siano arrivate al potere. In estrema sintesi, un tale Stato potrebbe giocare sulle rivalità fra i grandi centri di potere in competizione fra loro. L'analogia storica che ho in mente è quella del movimento dei paesi non allineati al tempo della guerra fredda, o del Vietnam che riuscì ad essere equidistante fra Russia e Cina, e a farsi aiutare da entrambi nella lotta contro gli USA, quando Russia e Cina si prendevano a cannonate sull'Ussuri (se ricordo bene).
Utopia per utopia....


CM: quella che tu indichi non è affatto un'utopia, ma la realtà odierna dei rapporti internazionali. Fuori dai grandi blocchi ci sono già oggi stati che praticano la politica dei due forni: un po' con gli USA, un po' con Russia-Cina. È la realtà di Iran, Arabia Saudita, a tratti persino Israele, Pakistan, il Viet Nam di oggi, molti stati africani, il Brasile...
Il punto è che lo "spazio di manovra" garantito dall'equidistanza, oltre a esporre a rischi chi lo pratica, non equivale alla possibilità di praticare politiche anti-capitalistiche. Infatti, nessuno degli stati citati fa un passo in quella direzione: nessuno si azzarda a mettere in discussione il mercato mondiale. Che destreggiarsi tra grandi potenze capitalistiche dia luogo alla possibilità di implementare politiche anti-capitalistiche è tutto da dimostrare.


MB: D'accordo, quindi la proposta di una politica dei due o tre forni non è utopica, anche nella realtà attuale. Il lato utopico sta nell'idea che in uno Stato arrivino al potere forze antisistemiche...

martedì 4 marzo 2014

La democrazia tirannica

Premessa dei giorni nostri
In una repubblica parlamentare la figura del presidente del consiglio eletto semplicemente non esiste. Tuttavia, questa verità ha che fare con la costituzione formale: la costituzione materiale, da vent'anni a questa parte, è ben diversa. Tutto il discorso politico dell'ultima generazione è improntato al presidenzialismo; e l'ultimo arrivato, Renzi, fino a una settimana fa era il più presidenzialista di tutti. Ecco perché l'avvicendamento Renzi-Letta appare a grandissima parte dell'opinione pubblica come palesemente illegittimo; e la sfacciata incoerenza del neo-premier certo non ne aiuta l'immagine.
Ma i renziani (scusate, i renzini) hanno pronta la risposta. Qualche giorno fa Aldo Cazzullo ha dichiarato "Renzi non sarà giudicato da come sarà andato al governo, ma da cosa avrà fatto una volta al governo". Altri ripetono più o meno questa formula: "anche se ora ci possono essere dei dubbi tra gli italiani, quando faremo le cose giuste ci ringrazieranno". Ora, questo può anche essere vero. Chissà. Ma se portiamo alle estreme conseguenze il ragionamento arriviamo a esiti piuttosto inquietanti.

L'elaborazione antica
I greci annoveravano nel loro lessico politico una parola di origine asiatica, tirannia. Nel contesto in cui era nata, la parola tiranno designava semplicemente un capo; il signore di una città, per la precisione. Molto tempo dopo, tiranno divenne sinonimo di un altro vocabolo greco, despota. Ma in un periodo intermedio tiranno non aveva una connotazione negativa, valutativa, bensì tecnico/analitica. il termine non alludeva alla qualità del governo del soggetto tirannico, bensì al modo in cui questi era arrivato al potere. Se questo modo era in contrasto o in deroga alle regole ordinarie per l'acquisizione delle cariche pubbliche si parlava di tirannia; dopodiché il governo del tiranno poteva anche essere illuminato, saggio, tollerante. Non era nemmeno necessario che la presa del potere fosse violenta; bastava che fosse illegittima, irregolare, al limite irrituale.

L'elaborazione contemporanea
Franco Russo,  molto opportunamente, ha collegato tra loro le modalità di funzionamento dell'attuale governance europea e il concetto di "working" e "output" "democracy", da contrapporre alla "input" o "voting" "democracy". La prima espressione potrebbe tradursi con "democrazia dei risultati"; la seconda con democrazia "della scelta", o "delle regole". Si tratta in realtà di due criteri distinti per valutare la legittimità dell'azione di un governo (in senso lato: vi può rientrare anche il mandato del Presidente della BCE, come vedremo). La democrazia dei risultati adotta un approccio conseguenzialista, e ritiene legittimo quel governo che riesce a conseguire i propri fini istituzionali. La democrazia delle regole adotta un approccio deontologico, e ritiene legittimo quel governo che nasce ed opera in conformità a norme che consentano ai cittadini di influire sulle grandi scelte politiche. Il primo criterio è sostanzialista; il secondo formalista. È agevole notare come il primo dei due criteri schiacci l'elemento della legittimità su quelli dell'efficienza e dell'efficacia. A quanto pare questa concezione è propria di Mario Draghi.

La tirannia democratica
I moderni politologi sembrano avere qualcosa in comune con gli antichi greci: entrambi ammettono che potrebbe rivelarsi "buono" quel governo che si forma in spregio alle regole precostituite. Tuttavia, i moderni politologi (e i politici che leggono i loro libri) fanno qualcosa di più: ritengono che l'approccio conseguenzialista sia quello decisivo, con buona pace di ogni deontologia democratica. Nei casi più estremi affermano senza mezzi termini che la "output democracy" può senz'altro sostituire la "voting democracy": l'operato della BCE, per esempio, può essere considerato rispettoso della democrazia, ma non perché Draghi debba rispondere del proprio operato ai cittadini, bensì in quanto la BCE produce una buona gestione della politica monetaria europea. Questa concezione spesso si accompagna ad un'altra, anch'essa assai diffusa tra gli studiosi: quella del ritorno delle élites. I problemi del mondo moderno sono troppo complessi per essere gestiti da profani. Il ruolo dell'elettore, dunque, è di scegliere il tecnico giusto: anzi, di scegliere i tecnici, evitando di farsi attrarre dalle sirene del populismo.
Queste due concezioni hanno entrambe un piccolo difetto. Non tengono conto del fatto che la bontà di certe scelte politiche e amministrative non è mai in re ipsa: non è mai oggettiva. Dipende dalle valutazioni che quelle scelte susciteranno: le quali saranno condizionate dalle opinioni, dalle ideologie, dagli interessi (sopratutto)... Ecco perché le regole formali sono importanti: servono a istutuzionalizzare il confronto pacifico tra idee e interessi diversi. In poche parole, se un governo fa scelte buone o cattive lo decidono gli elettori, che sanno da sé stessi qual è il loro bene. E se gli elettori sono tanto intelligenti da riuscire a distinguere tra scelte buone e scelte cattive, così come tra personale adeguato o inadeguato, allora non si capisce perché non dovrebbero essere in grado di gestire la cosa pubblica da loro stessi, senza ricorrere ai tecnici e alle élites. Negare tutto questo è negare la possibilità della democrazia, e avallare una forma di tirannia.

Conclusione
L'intera operazione che ha preparato il governo Renzi è ispirata alla "output democracy": l'irregoralità dell'operazione stessa verrà sanata dai buoni risultati che Renzi riuscirà a centrare. Esattamente il ragionamento che sorreggeva l'operazione Monti. Questo modo di fare politica è perfettamente coerente con lo spirito del tempo, e con le sensibilità diffuse a Bruxelles. Dovremmo dunque abituarci ad essere comandati da tiranni democratici. Tuttavia, c'è chi pensa che questa non sia una scelta obbligata. (C.M.)

sabato 7 dicembre 2013

Caro Rodotà, il maggioritario è sempre incostituzionale

Stefano Rodotà commenta la recente sentenza della Corte Costituzionale, in un intervento nel quale il noto giurista difende l'operato della Corte relativamente all'annullamento del premio di maggioranza senza soglia e delle c.d. 'liste bloccate'. Per capire cosa ciò comporti, ecco un breve riepilogo.

Non intendo dilungarmi sulle conseguenze politiche immediate di questo evento, né sui limiti della sentenza. Basti dire che, secondo un'opinione abbastanza accreditata , l'intervento della Corte configura un favore al Governo Letta;  e che non è stato toccato uno degli aspetti peggiori dell'attuale legge, e cioè la presenza di molteplici soglie di sbarramento.

Mi concentro qui su due passaggi dell'articolo di Rodotà:

La legge Calderoli ci aveva trascinato fuori dalla logica rappresentativa, e ci aveva abbandonato in una sorta di vuoto dove la logica costituzionale era stata sostituita dal potere assoluto di oligarchie ristrettissime (venti, trenta persone) di scegliere arbitrariamente 945 parlamentari. E tutto questo era avvenuto all’insegna della pura “governabilità”, parola che aveva cancellato, con una evidente e grave forzatura, il riferimento alla rappresentanza.
 E più avanti:

Nell’esercitare il potere di approvare una nuova legge elettorale, al quale fa esplicito riferimento il comunicato ufficiale della Corte, il Parlamento dovrà tuttavia tenere ben fermi alcuni vincoli che già emergono con grande nettezza (...)  Il secondo tipo di vincolo riguarda l’illegittimità costituzionale di meccanismi che alterano il rapporto tra voti e seggi attraverso forzature maggioritarie. In questo modo è possibile restaurare quella democrazia perduta negli anni tristi del Porcellum.

Qui S.R. da un lato sembra credere che i problemi legati alla presenza di oligarchie e allo stravolgimento della rappresentanza li abbia instaurati il Porcellum, come se il sistema precedente (Mattarellum) non avesse creato, più o meno negli stessi termini, i medesimi problemi; dall'altro appare consapevole che, sotto il profilo costituzionale, qualcosa nel maggioritario non va. Solo che questa consapevolezza non arriva al punto di considerare il maggioritario in sé e per sé come incompatibile con la Costituzione; e ci si appunta solo sugli aspetti patologici (le "forzature").

Il maggioritario è la negazione del suffragio universale. Innanzitutto dovrebbe essere definito minoritario, perché si tratta di un sistema concepito per trasformare nelle minoranze di rappresentati in maggioranze di rappresentanti; una forza politica che è maggioritario nel voto reale non ha bisogno del maggioritario. La questione è magnificamente inquadrata qui. In secondo luogo introduce nel dibattito politico un elemento di manipolazione del consenso espresso nelle urne, cosicché la lotta politica si sviluppa anche sul terreno delle "regole del gioco", perché le tecniche di manipolazione sono diverse e avvantaggiano, volta per volta, attori diversi: ecco un'ottima spiegazione. In terzo e decisivo luogo, il maggioritario vanifica il principio "una testa, un voto", che è la pietra angolare della democrazia elettorale. Per capire la misura della violenza che il maggioritario compie ai danni dei principi democratici non c'è nulla di meglio di questa lettura.

Per dimostrare quest'ultimo assunto, bastano alcuni facili esempi astratti. Immaginiamo un sistema elettorale maggioritario, articolato in tre collegi uninominali. Si affrontano due partiti, A e B. Supponiamo che tutti i collegi abbiano lo stesso numero di elettori registrati. A prende il 90% nel primo collegio; B il 51% negli altri due. Se si prende il totale dei collegi, B ha ricevuto il 37,3% dei voti, a fronte del 72,6% di A; tuttavia, B riceve il doppio dei seggi di A. 
Altro caso. B prende il 51% in tutti e tre i collegi, ricevendo così tre seggi. A rappresenta, a livello del voto popolare, quasi la metà del consenso espresso; tuttavia, la sua rappresentanza nell'assemblea elettiva è del tutto nulla.
Altri esempi possono essere suggeriti dalla fantasia dei lettori, e possono essere estesi anche ad altri tipi di maggioritario, diversi dall'uninominale secco: tanto il principio è sempre il medesimo.

Che questa roba non sia in contrasto solo con la Costituzione italiana, ma con tutte le possibili costituzioni di qualsiasi paese democratico, è sotto gli occhi di tutti. Coerentemente, Napolitano cerca di imporre il maggioritario al parlamento.
Ci aspetteremmo che Stefano Rodotà impegni tutto il suo prestigio in una campagna che conservi gli aspetti proporzionali della legge in vigore, così come ritoccata dalla Consulta. Gli ingenui richiami al Mattarellum non sembrano però deporre a favore di tale ipotesi. (C.M.)

giovedì 12 settembre 2013

Ancora su Destra e Sinistra

 Claudio Martini

L'ultimo post di Fabrizio ha riscosso un meritato successo. Evidentemente ha toccato alcune corde sensibili dell'animo di molti nostri lettori. Molti di essi, è evidente, appartengono alla schiera di coloro i quali un tempo credevano, in un modo o nell'altro, nella Sinistra, e che poi sono stati da essa "traditi". In fondo anche chi scrive su questo blog appartiene a tale categoria. Generalmente la reazione al tradimento è la rabbia, e questi casi non fanno eccezione: il più delle volte i commenti sono carichi di rabbia e disprezzo verso il PD e la sinistra politica; e come dar loro torto?
Tuttavia, come notava almeno un lettore, forse questa rabbia unidirezionale, rivolta esclusivamente verso Sinistra, è almeno in parte fuori bersaglio.
Il fatto è che questa rabbia, che a livello di elaborazione intellettuale si riflette nella constatazione dell'esaurimento della dicotomia destra-sinistra, trova la sua origine nella mutazione genetica unilaterale della Sinistra. Con "unilaterale" intendo che ad essa non si è associata un'analoga trasformazione da parte della Destra; questa è rimasta più o meno identica, mentre l'altro polo vedeva stravolta la propria identità. In altre parole, quando diciamo che Destra e Sinistra sono identiche, non intendiamo dire che entrambe si sono trasformate fino a "fondersi" in qualcosa di diverso e ulteriore; constatiamo invece che la Sinistra è diventata una nuova Destra. E così ci ritroviamo con due Destre, che danno vita a quel che alcuni definiscono "monopartitismo competitivo". È da qui che dobbiamo ripartire: dalla trasformazione della Sinistra in Destra, avvenuta in buona parte senza rinunciare agli orpelli e ai nominativi del passato.
La morte (o la mutazione genetica) della Sinistra in Europa è un fatto notevole nella storia del pensiero filosofico e politico, un fatto attorno al quale le ricerche non sono ancora a uno stato avanzato. Di sicuro, per descrivere il fenomento non aiuta la categoria del "tradimento": se il 90% dei dirigenti, degli intellettuali,  dei militanti e degli elettori della Sinistra approva e sostiene questa trasformazione in nuova Destra non si può dire che essi commettano una qualche forma di tradimento. La Sinistra di cui vale la pena parlare è quella realmente esistente; e quel 90% è il "legittimo titolare" della "ditta" costituita dalla Sinistra realmente esistente. Prendiamone atto, e pace.
Si pone un interrogativo: ma allora ha senso continuare a utilizzare la dicotomia Destra-Sinistra per leggere la realtà?

domenica 8 settembre 2013

Un nuovo manifesto

Riceviamo e pubblichiamo il manifesto della neonata associazione Bottega Partigiana.


La dignità umana non è in vendita
I BENI PUBBLICI ED I DIRITTI NON SONO IN VENDITA

E’ giunta l’ora di rivendicare con forza e coerenza la nostra libertà di scelta. Noi vogliamo recuperare in concreto il senso del bene
comune e la consapevolezza collettiva per cui i beni pubblici ed i diritti non sono, né dovranno mai più essere negoziabili o vendibili.
Dobbiamo ritrovare il senso di comunità e di appartenenza, riappropriandoci con orgoglio del nostro patrimonio collettivo affinché
alcun diritto possa mai più essere violato.
In nome di interessi che fanno leva sui dogmi neoliberisti dell’onorabilità del debito e del “Ce lo chiede l’Europa” ci vengono imposte
misure di austerità depressiva, con tagli alla spesa pubblica ed elevata pressione fiscale su famiglie ed imprese.
Una tra le più gravi forme di servitù politica è la sottomissione degli Stati alle logiche di mercato, che negano la possibilità di garan-
tire i diritti e le tutele sociali finalizzate al bene comune.
L’asservimento politico ha adeguato tutte le azioni e decisioni, quali privatizzazioni, liberalizzazioni e perdita del ruolo regolatore
dello Stato, all’esclusiva tutela degli interessi dei grandi gruppi finanziari e delle lobbies capitalistiche.

NESSUNO CI HA CHIESTO NULLA

Le attuali oligarchie politiche e finanziarie hanno utilizzato la retorica dell'Europa dei Popoli, per creare un'Europa monetaria
funzionale alle esigenze dell’aristocrazia finanziaria e del grande capitale europeo.
I cittadini non hanno avuto la possibilità di esprimersi sul reale significato economico e politico dei trattati firmati con l'Europa, e
quando hanno avuto la possibilità di farlo, come in occasione del referendum francese del 2005, si sono opposti al progetto.
L’Europa attuale, essendo stata costruita come un mercato di beni e capitali e come un’unione monetaria, è un’Europa capital-
finanziaria dove i popoli europei non contano più nulla né come soggetto politico, né come soggetto sociale.
E oggi, quando il progetto è vicino al fallimento, pur di non mettere in discussione i principi assurdi stipulati dal trattato di
Maastricht in poi, gli eurocrati di Bruxelles cercano di creare un "doppio euro" per salvarsi e conservare il loro dominio economico
e politico.

RICONQUISTARE LA SOVRANITÀ

In Italia e nei paesi che hanno aderito all'eurozona si sta accentuando la disparità fra i cittadini e la disoccupazione e la precarietà
sono diventate una vera emergenza umanitaria.
Perché, per sopperire alle nostre esigenze, dobbiamo chiedere in prestito denaro ai mercati di capitali privati? La moneta moderna
non è legata ad una corrispondenza in oro come avveniva in passato, e potrebbe essere lo Stato a gestirne l'emissione e la spesa,
in quanto i limiti a cui è sottoposta sono legati alle reali forze produttive disponibili.
La separazione tra le banche commerciali e le banche d'affari, la sovranità monetaria e fiscale, il ritorno all'unione tra Tesoro
e Banca D'Italia, e l’istituzione di misure protezionistiche che impediscano le attuali forme di delocalizzazione liberoscambista,
sono i primi passi necessari per costruire uno Stato che protegga i cittadini dall'aggressione dei grandi speculatori togliendo
loro il dominio sull'economia. Per riconquistare la sovranità politica ed economica, occorre combattere la logica dell'indipendenza
della Banca Centrale nazionalizzandola, per poterne sottoporne l’operato a un controllo democratico, che le conferisca una funzio-
ne sociale finalizzata non all’accumulo di capitale, ma alla promozione dell’occupazione.
Disponendo degli strumenti e delle risorse per finanziare una ripresa dell'economia, lo Stato potrebbe quindi assumere il ruolo di
“creatore di occupazione” sviluppando una finanza che sia davvero funzionale agli interessi popolari, e che ridimensioni il ruolo
della finanza privata nei processi produttivi legati all’occupazione.

LO STATO SIAMO NOI

Vogliamo che venga ridato un futuro ai lavoratori, alle imprese e al ceto medio che, per via della morsa della ristrettezza del credito
e grazie ad una tassazione improponibile, sono massacrati dalla crisi e non riescono più a trovare un lavoro dignitoso per il loro
sostentamento e per quello della loro famiglia.
Vogliamo una sovranità politica e monetaria in cui i finanziamenti vengano finalizzati al bene pubblico e a progetti socialmente utili.
Vogliamo che vengano creati nuovi servizi al cittadino e vengano migliorati quelli esistenti. Vogliamo che si crei occupazione.
Non vi può essere vera libertà senza la giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà. L'eredità
dei partigiani è calpestata insieme alla Costituzione.
"Non aspettarti nessuna risposta, oltre la tua" disse Berthold Brecht.
E' in gioco il futuro di tutti noi, il futuro dei nostri figli.
Dobbiamo ribellarci adesso per creare un nuovo paradigma politico e culturale fondato sulla dignità umana.
Facciamolo. Facciamolo insieme. Facciamolo adesso.


venerdì 6 settembre 2013

Il "piùeuropa" non esiste

Jurgen Habermas controbatte alle tesi di Wolfgang Streeck, di cui abbiamo già parlato (qui e qui) con un lungo articolo, nel quale tenta di rispondere gli argomento del sociologo, finendo però per ammettere gli eurocrati non hanno alcuna idea innovativa per fare uscire il loro progetto dalla crisi in cui si è cacciato.

Né la parte propositiva del testo (sostanzialmente: più poteri all'Europarlamento) nè quella che contiene la critica a Streeck rappresentano nulla di nuovo. Habermas attua il classico ribaltamento dell'onere dell'argomentazione, per cui non è lui a dover giustificare razionalmente la fondazione di una Europa unita, ma i critici della stessa a dover fornire motivi validi per negarla (ad esempio, a proposito della considerazione per cui il processo di integrazione è sempre stato voluto e gestito dalle élite capitalistiche, il filsofo risponde: " in ciò io non vedo motivi sufficienti per una rinuncia disfattista al progetto europeo"). Riprende inoltre il solito argomento secondo il quale la mancanza di un popolo europeo non sarebbe affatto un ostacolo all'unione politica, perché le identità nazionali sarebbero identità "fittizie" e "artificiali". Si resta sempre colpiti dall'inconsistenza di questi argomenti. Sotto gli aggettivi "fittizi" e "artificiali" si vorrebbe contrabbandare il concetto per cui le identità nazionali sono irrilevanti. Ma non tutto ciò che "artificiale" è per ciò solo poco importante. La musica e l'alfabeto, e in generale tutti i prodotti della cultura umana, sono assolutamente artificiali. Né si capisce cosa voglia dire affermare che quella di popolo è una nozione "fittizia". Che non sia "naturale" è ovvio, visto che è il risultato dello stratificarsi di dinamiche sociali di portata secolare. Le identità nazionali sono una realtà sociale di primaria importanza, nessun processo culturale negli ultimi anni le ha scalfite, e affermare migliaia di volte che sono "fittizie" e "artificiali" non sposta di un centimetro il problema.

Ma arriviamo al cuore del ragionamento. Habermas comprende le preoccupazioni di Streeck, specie quelle riferite al fatto che procedere con "piùeuropa" potrebbe rivelarsi un rimedio peggiore del male. E tenta di rassicurarlo così:

(...) il timore di Streeck di una centralizzazione repressiva si basa soprattutto sull’assunto sbagliato che l’approfondimento istituzionale dell’Unione europea debba condurre ad una sorta di repubblica federale europea. Lo Stato federale è il modello sbagliato. Infatti le condizioni di legittimazione democratica possono essere soddisfatte anche da una comunità democratica sovranazionale ma sovrastatale che consenta un governo comune. In essa tutte le decisioni politiche sarebbero legittimate dai cittadini nel loro doppio ruolo di cittadini europei e di cittadini dei vari Stati membri [10]. In una siffatta unione politica, chiaramente distinta da un “superstato”, gli Stati membri, in quanto garanti del livello da essi rappresentato di diritti e di libertà, conserverebbero un ruolo molto importante se paragonati alle articolazioni subnazionali di uno Stato federale.

 Chiaro? Quando si parla di unione politica, mica si intende un'unione politica: si tratta solo di un ulteriore rafforzamento delle attuali istituzioni europee, senza particolari cambiamenti di assetto. Ciò che è stato tolto dalle singole sovranità popolari (per esempio l'intervento pubblico in economia a scopi ridistributivi) non viene trasferito a livello continentale, ma viene semplicemente annullato. Non si tratta di costruire un mega-Stato, ma di cancellare l'idea stessa di Stato.

E qui faccio mea culpa. Gli Stati Uniti d'Europa sono una follia, ovviamente, ma io pensavo che Habermas li appoggiasse. Ma qualcuno aveva capito per tempo che gli USE, oltre che irrealizzabili, non sono affatto nell'agenda e negli interessi delle élite europee. Sono un mero specchietto per le allodole per illudere i dannati dell'euro che un giorno ci sarà redenzione. Il "piùeuropa" non esiste. Esiste il piùTroika. Esiste il progetto di rendere ancora più invasivo il controllo delle istituzioni UE, ma non quello di trasformarle: vanno benissimo come sono.

Abbiamo la conferma, per bocca di uno dei più autorevoli intellettuali europei ancora in attività, che l'alternativa "o si va avanti nell'integrazione europea, o si torna indietro" non ha ragione d'essere. Non c'è alcun "avanti" che ci attende. C'è solo un eterno presente fatto di austerità di negazione della democrazia. L'UE è un vicolo cieco, e la sua rottura non rappresenta un ritorno indietro, ma l'unica modo per "muoversi". Per cambiare le cose. (C.M.)

giovedì 5 settembre 2013

Grillo non ha tutti i torti

Chi frequenta questo blog sa che non abbiamo mai lesinato critiche al M5S, almeno quando le critiche apparivano necessarie. Tuttavia, non si può non notare che alcuni degli atteggiamenti che Grillo assume nei confronti dei "dissidenti" interni, nonostante la loro caratura autoritaria, sono ampiamente giustificabili.

Nei fatti, la "corrente" che a noi piacerebbe vedere presente all'interno del M5S non esiste in termini politicamente apprezzabili. Questa corrente dovrebbe essere composta di soggetti che rifiutino l'imperio di Grillo-Casaleggio sull'intero movimento, e reclamino democrazia interna (questione di metodo), ma che allo stesso tempo non abbiano il minimo dubbio sulla necessità di non collaborare in nessuno modo con una forza distruttiva e anti-popolare come il PD (questione di sostanza). Ebbene, nella realtà delle cose coloro che si trovano sul giusto versante per quando riguarda la questione di metodo sono pronti a sostenere un nuovo governo di centro-sinistra, mentre quelli che hanno ragione sulla sostanza sono i guardiani dell'autoritarismo anti-democratico di Grillo. Non vi è dunque alcuno spazio di medizione.
Ospite a giugno della prima puntata di "In Onda Estate", programma condotto da Luca Telese, Adele Gambaro, senatrice espulsa dal gruppo del M5S, riservava buone parole per il governo Letta-Alfano, e si diceva pronta a sostenere una maggioranza "per il bene del paese". Pochi giorni fa Orellana ha annunciato che bisognerebbe allearsi con il PD. La reazione da parte dei vertici del movimento è stata sempre la stessa, la solita: minacce di espulsione e proclami roboanti. Resta il fatto che Orellana si dice pronto a lasciare il gruppo, come hanno già fatto quattro suoi colleghi. Quindi il PD potrebbe contare su diverse stampelle, oltretutto sormontate dall'aura della "dissidenza" e del "martirio". La situazione in Senato è questa*:

PD: 107 senatori
PdL: 91
M5S: 50
Monti: 20
Autonomisti di varia estrazione: 19
Lega: 17
Sel: 7
Grillini dissidenti: 4

In grassetto i gruppi che sosterrebbero un nuovo governo di centro-sinistra.

Se contiamo i 4 senatori a vita provvidenzialmente nominati da Napolitano, a fronte di un'Aula con 319 membri, il centro-sinistra gode di una possibile maggioranza di 161 voti contro 158. Uno scarto minimale. Diventa così indispensabile attirare nuovi senatori, e putroppo il M5S è attualmente terreno fertile. Non è nemmeno escluso, anzi è molto probabile, che qualche voto per il nuovo governo provenga anche dal PdL. Basterebbero cinque senatori ex-grillini e cinque ex-berlusconiani per arrivare ad una maggioranza piuttosto solida. 

La prospettiva di un nuovo governo senza il PdL diventa più realistica man mano che si chiudono le porte dell'impunità a Berlusconi. Di fronte alla prospettiva dell'esclusione dalla vita politica, questi potrebbe tentare il colpo di mano, cercando di ottenere le elezioni anticipate da vincere con una campagna elettorale anti-euro e sostanzialmente eversiva. Gli esponenti più moderati del suo partito non lo seguirebbero. Ed è facile prevedere che un nuovo governo Monti-Letta-Vendola, formato "per senso di responsabilità nazionale", verrebbe sostenuto da una manciata di preziosi voti ex-M5S. (C.M.)




*Non ho contato il voto di Ciampi, che ha 93 anni, di Grasso, che è divenuto presidente dell'assemblea, e ho spostato il voto di Tremonti dal gruppo degli autonomisti a quello della Lega.

domenica 7 luglio 2013

Egitto: un golpe saudita (che potrebbe rivelarsi salutare)

Man mano che passano le ore la nebbia si dirada, e la situazione in Egitto diventà più decifrabile. A quanto pare il colpo di stato che ha portato alla destituzione e all'arresto di Mohammed Morsi è stato appoggiato, se non proprio organizzato, dai servizi segreti sauditi e degli Emirati Arabi Uniti. Lo dimostrano, al di là dei rumores, il fatto che i primi (e praticamente gli unici) paesi ad aver dimostrato apprezzamento per il cambio di regime ed essersi congratulati con il nuovo presidente Mansour sono stati proprio UAE e Arabia Saudita. Il nuovo Emiro del Qatar ha espresso le stesse congratulazioni in un tempo successivo, e a denti stretti: il Qatar infatti aveva puntato tutto sulla Fratellanza Musulmana, in Egitto come altrove, ed è considerato il soggetto politico che più ha da perdere dalla caduta di Morsi. Turchia e Tunisia protestano apertamente, temendo che lo scenario si riproponga anche da loro. Gli USA sembrano stati colti alla sprovvista, e appaiono in preda a un certo disorientamento. Dal canto suo, il ministro degli Esteri israeliano italiano, Emma Bonino, esprime costernazione e dice che l'Egitto "è a un punto di non ritorno".

Si tratta certamente di un colpo di stato, ed è certo che la reazione di molti islamisti sarà il ricorso alle armi; mossa che non sembra del tutto illegittima, visto che quanto è accaduto negli ultimi giorni è la dimostrazione patente che una "normale" dinamica democratica non può semplicemente aver luogo in Egitto. Tuttavia, non bisogna dimenticare che a rompere la legalità costituzionale è stato lo stesso Morsi, con la sua dichiarazione del 22 novembre 2012, con la quale:
  • cancellava il principio del ne bis in idem per i soggetti, sospettati di essere stati uomini di Mubarak, e che erano usciti prosciolti dai processi seguiti alla caduta del regime, e che perciò avrebbero dovuto essere ri-processati;
  • dotava se stesso di pieni poteri per la "salvaguardia della rivoluzione";
  • concedeva a se stesso una piena immunità giurisdizionale per i suoi atti;
  • negava che un qualsiasi suo atto legislativo potesse essere messo in discussione da una autorità giudiziaria, fosse anche la Corte Costituzionale.
Quindi i militari non hanno deposto un presidente democratico, ma una sorta di Faraone.  In questo senso il fato di Morsi assomiglia molto a quello di Mubarak, anch'esso estromesso dai militari in seguito a grandi manifestazioni di piazza. Se noi consideriamo quello che ha colpito Morsi un golpe, allora anche quello del 2011 lo è stato; se noi vediamo nei fatti del 2011 una rivoluzione, allora anche quella che ha rovesciato Morsi lo è.
Con una differenza non di poco conto.
Mubarak era sicuramente un autocrate con mille difetti, ma governava l'Egitto (e l'economia non andava malissimo). Morsi lo sgovernava. L'incompetenza e la sciatteria dimostrata dai Fratelli Musulmani nel loro periodo di governo non ha eguali nella storia recente del mondo arabo. Conseguentemente, l'economia è colata a picco.

Oggi le uniche cose che possono salvare gli egiziani dalla carestia (non esagero) sono la stabilità politica, e un forte afflusso di capitali esteri a fondo perduto. Entrambe le condizioni possono avverarsi con l'intervento dell'Arabia Saudita, che però non può tollerare di sostenere finanziariamente un governo retto dalla Fratellanza (il cui fine ultimo e strategico, lo ricordiamo, è proprio "liberare" la "terra santa" islamica, ossia Medina e la Mecca, dall'usurpazione dei Saud). C'è solo da sperare che l'Egitto non precipiti in una guerra civile in stile algerino, che darebbe luogo a una tragedia ancora più orribile di quelle occorse al Libano, all'Iraq, alla Siria.

In ogni caso si tratta di tempi duri per la Fratellanza. Il loro punto di riferimento teorico e spirituale, Yusuf Al Qaradawi, è stato appena espulso dal Qatar, da cui attraverso l'emittente Al Jazeera lanciava sermoni estremisti e pro-Fratellanza; e il movimento ha anche perso la guida dell'opposizione siriana all'estero a favore del candidato filo-saudita (la cui fazione, giova ricordarlo, è guidata da un cristiano marxista, Michel Kilo). Il 2011 è stato l'anno di grazia della Fratellanza, grazie all'aiuto e al sostegno del Qatar e degli USA (e in certi casi anche dell'Iran). Il 2013 sembra davvero che possa rappresentare il loro annus horribilis. (C.M.)



giovedì 13 giugno 2013

JP Morgan lo dice a chiare lettere: il problema dell'euro sono le costituzioni antifasciste


Ho trovato su questo blog una notizia molto interessante: JP Morgan ha emesso un documento, nel quale viene presentata un'analisi del processo di aggiustamento degli squilibri macro-economici dei paesi del sud. Ma il documento non si limita a parlare di inflazione o di partite correnti. Entra nel merito dei "difetti" dei paesi del sud. A proposito dei limiti tipici di questi paesi, si dice:
 Quando la crisi è iniziata era diffusa l'idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica: debito pubblico troppo alto, problemi legati ai mutui e alle banche, tassi di cambio reali non convergenti, e varie rigidità strutturali. Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell'area europea. Quando i politici tedeschi parlano di processi di riforma decennali, probabilmente hanno in mente sia riforme di tipo economico sia di tipo politico.
 è singolare che si tracci questo parallelo tra ciò che è scaturito dalla lotta antifascista e ciò che non ci permette di integrarci adeguatamente nel sistema dell'euro. Il problema è chiaramente individuato nelle costituzioni. Per fortuna i politici tedeschi lo sanno. Ma andiamo avanti.

giovedì 28 marzo 2013

L'idea di Democrazia che muove l'Unione Europea



Che le opinioni del popolo, quando siano ragionevoli e mature, debbano dirigere la condotta di coloro a cui ha affidato i suoi affari, è ciò che risulta naturalmente dallo stabilimento di una Costituzione repubblicana; ma i principi repubblicani non esigono affatto che ci si lasci impressionare dal minimo vento delle passioni popolari, né che si debba obbedire a tutti gli impulsi momentanei che la massa può ricevere dalla mano artificiosa di coloro che ne accarezzano i pregiudiziper tradirne gli interessi. Il popolo generalmente non desidera altro che il bene pubblico, questo è vero; ma sbaglia spesso nel cercarlo. (…)
Quando i veri interessi del popolo sono contrari ai suoi desideri, il dovere di quelli che esso ha posto alla guida dei suoi interessi è di combattere l'errore di cui esso è momentaneamente vittima, per dargli tempo di riconoscersi e di vedere le cose a sangue freddo. Ed è avvenuto più di una volta che il popolo, salvato così dalle fatali conseguenze dei suoi errori, abbia voluto elevare monumenti a uomini che avevano avuto il coraggio di dispiacergli per servirlo.

Alexander Hamilton, Federalist Paper n. 71. Citato in La Democrazia in Europa, di Monti e Goulard, a pp. 38. (C.M.)

domenica 17 marzo 2013

Se il M5S si spacca le conseguenze le traggano Grillo e Casaleggio


di Fabrizio Tringali

Scrivevo lo scorso 26 febbraio, all'indomani delle elezioni politiche che hanno sancito la mancanza di una chiara maggioranza di centrosinistra al Senato: “cercheranno di imbarcare il M5S. Non tutto, ovviamente, ma proveranno a spaccarlo e a tirar dentro 20 senatori a sostegno di un governo pro-euro supino di fronte ai diktat di Bruxelles e Francoforte.

Detto e fatto. La votazione di ieri per la presidenza del Senato può essere il prologo alla formazione di un governo europeista ancora più distruttivo dell'esecutivo guidato da Monti.
Vediamo perché: per governare, il centrosinistra non ha problemi alla Camera, grazie alla colossale maggioranza regalatagli dalla legge elettorale “porcata”, ma non raggiunge la maggioranza al Senato. Per averla, occorrono circa 160 senatori, ma Bersani ne ha solo 123, ai quali può facilmente aggiungere i 19 della lista Monti, arrivando così a 142.
Ne mancano altri 15-20, appunto quelli cui facevamo riferimento nel nostro precedente articolo.
Questa era la situazione fino a ieri.

lunedì 1 ottobre 2012

Ancora un tradimento dei chierici?

Per dare un po' di concretezza al nostro discorso sulla cultura contemporanea, discutiamo un esempio specifico: questo articolo di Etienne Balibar, pubblicato sul “Manifesto” qualche giorno fa.
Balibar non ha certo bisogno di grandi presentazioni: allievo di Louis Altusser, coautore di un testo classico del marxismo degli anni Sessanta come “Leggere il Capitale”, è davvero un “grande intellettuale di sinistra” se mai ve n'è uno.

giovedì 27 settembre 2012

Ecco perché Napolitano nominò Monti senatore a vita

di Fabrizio Tringali
Il mio ultimo post ha riscosso un certo successo ed è stato ripreso da molti altri siti e blog.
Qualcuno mi ha fatto notare che nella lista di colpi assestati alla Carta Costituzionale dal peggior presidente della Repubblica della storia d'Italia, mancava la nomina a senatore a vita di Mario Monti, avvenuta poco prima dell'investitura come premier.
Non mi ero dimenticato di questo fatto, anzi, per la sua importanza, esso va trattato a parte, ed il momento più adatto per farlo è questo, dato che Monti ha appena fatto outing: alle prossime elezioni non sarà candidato, dato che non ne ha bisogno, avendo diritto di essere membro del Parlamento a vita.

lunedì 18 giugno 2012

Voto in Grecia, l'Unione Europea canta vittoria. Per ora.

di Fabrizio Tringali
L'Unione Europea canta vittoria, per ora. Gli USA, ovviamente, si uniscono al coro.
Le elezioni greche si sono concluse con la vittoria del fronte pro-euro e si prospetta la formazione di un governo fedele ai diktat della UE, che infatti non ha perso un attimo per mostrarsi apparentemente indulgente, tendere la mano ai vincitori, e offrire "più tempo" alla Grecia per "rispettare i patti" (cioè eseguire gli ordini).
Nel frattempo l'euro si impenna, come la Lira del mitico Carcarlo Pravettoni.
C'è però da dubitare sul fatto che l'euforia duri..... a ben vedere, la situazione politica greca è ben lungi dall'aver raggiunto la stabilità. Vediamo perché.
Il partito di centrodestra pro-euro Nea Dimokratia ha ottenuto il generoso premio di  ben 50 seggi (su 300) che la legge elettorale attribuisce al primo classificato, ma nonostante ciò non può governare da solo. Dovrà allearsi coi socialisti del Pasok, e non a caso, il loro leader Venizelos ha già dichiarato che vorrebbe un governo di larghe intese, aperto alla collaborazione della sinistra di Syriza, che ha sfiorato il 30%.
Syriza ha ovviamente rifiutato, tenendosi ben stretto il ruolo di opposizione al prossimo governo prono verso la Troika (UE, BCE e FMI) e distruttore degli ultimi brandelli di tessuto sociale ancora vivi in territorio ellenico. Il Pasok ha subito una notevole emorragia di voti, e governando con ND rischierà di sparire. Ma allo stato delle cose, non può rifiutarsi di dar vita ad un esecutivo che presto sarà odiato dalla stragrande maggioranza dei greci, e che si troverà quindi a dover fare i conti con le forze sociali che tenteranno di resistere allo sfacelo imposto dai difensori dell'euro e da una ampia opposizione parlamentare, che comprenderà, oltre Syriza, anche l'estrema destra e i comunisti.
La situazione quindi appare tutt'altro che stabile. L'astensione sfiora il 40% e l'alleanza ND-Pasok potrà dar vita ad un governo solo grazie al corposo premio di maggioranza attribuito dalla legge elettorale, non perché sia maggioranza nel Paese. Il quadro sembra confermare quanto diciamo da tempo, e che probabilmente presto si paleserà in tutta evidenza: l'euro e la UE sono oramai incompatibili con la democrazia. Nessun governo democratico, infatti, potrà realizzare quando indicato dalla Troika perché alla lunga, tutti si rendono conto che quelle terribili imposizioni non fanno altro che peggiorare, drammaticamente, le cose. E che esse servono alle élite della UE, non certo ai ceti medi e popolari, i quali starebbero cento volte meglio se avessero, ciascuno, la propria moneta, la propria politica economica, la propria sovranità.
Se un governo democratico si prostra di fronte alla Troika, vede, giustamente, volatilizzarsi il consenso popolare, ed i partiti che lo sostengono rischiano il tracollo o la sparizione. Alla lunga, l'euro potrà essere imposto ai popoli sono spogliandoli della sovranità e della democrazia. Le scelte politiche ed economiche dovranno andare in capo ad entità autorizzate a decidere senza consenso.
Questo è il senso del "Fiscal compact", e delle forme di "Unione politica" di cui si parla.