François Heisbourg, La fin du reve européen, Stock 2013
François Heisbourg non è “uno dei nostri”. Come si può capire anche solo dando un'occhiata a Wikipedia, si tratta di un membro delle oligarchie europee, che ha condiviso le scelte (costruzione di questa UE, creazione dell'euro) che hanno portato ai problemi attuali. Del resto, basta citare le parole con le quali inizia il suo libro: “L'autore è un europeo convinto (…). Nella sua vita adulta, ha lavorato nei suoi diversi ruoli pubblici, industriali e accademici alla costruzione europea (pag. 7)”. L'idea di Europa che Heisbourg condivide è quella che abbiamo discusso più volte in questo blog: una Europa in cui l'eliminazione dei vincoli alla circolazione di merci e capitali permetta le “riforme”, cioè la distruzione dei diritti del lavoro e l'abbattimento dei costi del Welfare State, affinché il capitalismo europeo possa meglio competere con il resto del mondo. La costruzione di una UE rigidamente incardinata sui principi neoliberisti e di una moneta unica che mette i lavoratori di ciascun paese europeo in concorrenza fra loro, sono ovviamente frutto non di errori intellettuali ma di precise visioni politiche, economiche e culturali.
È allora di grande interesse il fatto, già segnalato su questo blog, che una persona di questo tipo scriva un libro in cui propone con molta chiarezza e lucidità la fine dell'euro, concordata e controllata, e il ritorno alle monete nazionali. Proprio il fatto che, come s'è detto, l'autore non è “uno dei nostri”, rende utile confrontarsi con quello che dice (e quello che non dice).
La tesi fondamentale Heisbourg è che le economie dei paesi dell'eurozona sono troppo diverse tra loro per poter stare sotto l'ombrello di una moneta unica. Inoltre, l'introduzione dell'euro non ha contribuito a ridurre tali divergenze, come era la speranza (o l'illusione) delle élite che hanno voluto l'euro, ma anzi le ha aumentate. Heisbourg critica le risposte che alla crisi hanno dato i ceti dirigenti europei (austerità e “riforme strutturali”) perché capisce che non si possono colpire i redditi del lavoro con le riforme strutturali e contemporaneamente diminuire la spesa pubblica, visto che in questo modo si ammazza l'economia. La soluzione alla crisi potrebbe invece essere il “più Europa”, la creazione cioè di un vero Stato federale nel quale i dislivelli economici fra le varie realtà territoriali siano compensati, in un modo o nell'altro, da forme di redistribuzione della ricchezza gestite a livello federale. E se si fermasse qui, niente distinguerebbe Heisbourg da tanti altri difensori d'ufficio del “sogno europeo”. Ma Heisbourg è una persona lucida, e quindi capisce benissimo dov'è il problema: non c'è nessuna possibilità realistica di passare ad uno Stato federale europeo, perché non esiste un popolo europeo che possa riconoscersi in esso e accettare i sacrifici che esso potrebbe comportare. I popoli dei paesi “forti” non accetteranno mai di condividere i vantaggi economici da loro conseguiti, e che a loro sono costati indubbi sacrifici, con i greci e gli spagnoli. Questa semplice considerazione, con la quale i tanti sostenitori italiani del “sogno europeo” rifiutano di confrontarsi, spinge Heisbourg alle sue proposte radicali. Visto che l'euro in questa situazione non può reggere, visto che il suo crollo disordinato sarebbe, dal suo punto di vista, un disastro che metterebbe in pericolo la stessa UE, e visto che Heisbourg ritiene l'eventualità di una rottura della UE il vero pericolo da scongiurare, la sua proposta è quella di una dissoluzione concordata dell'euro mantenendo per il resto la struttura istituzionale dell'UE.
lunedì 30 dicembre 2013
sabato 28 dicembre 2013
La vispa Michela
Occorre
dire con chiarezza che uno dei motivi della decadenza del nostro
paese è il crollo degli intellettuali, la loro rinuncia alla
comprensione e alla critica del reale. Abbiamo già parlato in vari
modi di questi temi, ma occorrerà tornarci ancora. Un'occasione è l'intervista di Michela Marzano apparsa sul Fatto quotidiano del 27
dicembre. Michela Marzano è una giovane studiosa di filosofia,
piuttosto nota, che insegna in Francia ed è deputata PD al
Parlamento italiano. Non ho avuto occasione di leggere i suoi libri,
ma sono convinto che essa sia nel suo campo una valida studiosa.
Appunto per questo è interessante notare come la sua intervista
riveli una totale incomprensione della realtà. Michela Marzano ha
infatti scoperto da deputata che “anche
il Pd era intriso dei vecchi meccanismi della politica”, e che “la
scelta di candidare persone nuove, provenienti dalla società civile,
a partire da me, dipendeva più dalla voglia di portare delle
figurine, che da una reale volontà di cambiamento”. E tutto questo
per lei “è stato uno choc”. Benvenuta nella realtà, verrebbe da
dire. Ma a che serve fare dell'ironia? È più interessante notare
che Marzano è passata a Renzi con la motivazione che “noi dobbiamo
portare in Italia giustizia sociale”. Che è un po' come De Gregori
che vota Monti per tutelare le fasce sociali più deboli. Di fronte a
simili esempi di totale inintelligenza della realtà, verrebbe davvero
da dire che, se questa è la cultura, è meglio lasciar
perdere e occuparsi del calciomercato. Per ragioni di serietà
intellettuale, preciso.
Ma lasciamo perdere le battute e passiamo alle cose fondamentali. Un'intervista come questa ci dice che Michela Marzano non ha capito nulla, ma proprio nulla, delle fondamentali dinamiche economiche, sociali e politiche che negli ultimi trent'anni hanno radicalmente mutato la realtà dei paesi avanzati. E poiché Michela Marzano non è né stupida né ignorante, questo è un sintomo di qualcosa di importante. E cioè del fatto che il ceto intellettuale di sinistra ha totalmente abdicato alla propria funzione, quella appunto di stimolare la comprensione critica del reale. Non possiamo più aspettarci nulla, ma proprio nulla, da intellettuali come Michela Marzano. Non abbiamo nulla a che spartire col ceto intellettuale di sinistra. Dobbiamo fare da soli. Dobbiamo andarcene. Per citare le parole scritte trent'anni fa da un intellettuale vero, dobbiamo lavorare ad “una congiura in piena luce”:
Ma lasciamo perdere le battute e passiamo alle cose fondamentali. Un'intervista come questa ci dice che Michela Marzano non ha capito nulla, ma proprio nulla, delle fondamentali dinamiche economiche, sociali e politiche che negli ultimi trent'anni hanno radicalmente mutato la realtà dei paesi avanzati. E poiché Michela Marzano non è né stupida né ignorante, questo è un sintomo di qualcosa di importante. E cioè del fatto che il ceto intellettuale di sinistra ha totalmente abdicato alla propria funzione, quella appunto di stimolare la comprensione critica del reale. Non possiamo più aspettarci nulla, ma proprio nulla, da intellettuali come Michela Marzano. Non abbiamo nulla a che spartire col ceto intellettuale di sinistra. Dobbiamo fare da soli. Dobbiamo andarcene. Per citare le parole scritte trent'anni fa da un intellettuale vero, dobbiamo lavorare ad “una congiura in piena luce”:
“Che
i giovani si separino, invece. Li invito ad una dissidenza meno
teatrale e vistosa di quella del '68 ma più spietata e
intransigente. A una clandestinità; che nulla abbia di quella
terroristica. A una segretezza; che nulla abbia della P2. Una
congiura in piena luce che non perdoni nessuno e non renda facondo il
disprezzo; e che, con tenacia da formica, ripensi e rifondi le
ragioni di una democrazia, proponendosi un “fino in fondo” che
implica la più radicale condanna, quella dell'oblio, per chi li avrà
ingannati” (F.Fortini, da “L'ospite ingrato”, Marietti 1985,
pag.171)
(M.B.)
giovedì 19 dicembre 2013
La sinistra inutile
Fa impressione vedere il tipo di reazione che la maggioranza della sinistra, sedicente "moderata" o sedicente "radicale", ha riservato alle proteste dei giorni scorsi, diventate note come "le proteste di forconi" dal pittoresco nome di una delle componenti.
Molti dei commenti che si leggono fanno venire in mente l'osservazione di Dostoevskij su quei rivoluzionari che amano l'umanità ma detestano gli esseri umani in carne e ossa, o quella di Brecht sul Comitato Centrale che ha destituito il popolo e ne ha nominato un altro.
Vi sono sicuramente delle eccezioni, come l'ottimo intervento di Mimmo Porcaro, largamente condivisibile.
Purtroppo quella di Porcaro è, appunto, un'eccezione. In sostanza il movimento viene stigmatizzato come eversore e parafascista, anche se si riconosce il suo rispecchiare un disagio sociale autentico. Il distacco siderale dalla realtà del paese da parte della sinistra, in quasi tutte le sue componenti, che abbiamo più volte evidenziato in questo blog, appare con tutta evidenza in una simile circostanza.
Non c'è dubbio che il movimento di protesta che si è manifestato nei giorni scorsi presenti contraddizioni, ingenuità, ambiguità e vi sia in esso una componente vicina alla destra. Ma a me pare ovvio che qualsiasi discussione su questo tema debba partire da due assunzioni ineludibili:
1. L'intera classe dirigente italiana (ceto politico, ma non solo) ha accettato la prospettiva di devastazione del paese, di distruzione della sua civiltà e di degrado economico e sociale, a cui porta l'attuale dinamica del capitalismo globale e, al suo interno, i vincoli dell'euro e dell'UE.
2. La sinistra, in tutte le sue componenti, o è complice di questo degrado o in ogni caso è totalmente impotente di fronte ad esso, per evidenti limiti culturali e sociali.
Se non si parte da qui, ogni discussione è aria fritta. Ma se si parte da qui, è ovvio che l'unica speranza di salvezza del nostro paese, dei nostri diritti, delle nostre vite, è il montare di una protesta
popolare che spazzi via l'attuale classe dirigente, in tutte le sue componenti. Visto che il degrado della cultura e della politica nel nostro paese dura da decenni, visto che lungo questi decenni nessuno,
tantomeno a sinistra, è riuscito a fornire al popolo di questo paese parole sensate per pensare la protesta, è chiaro che all'inizio ogni forma di autentica protesta popolare assumerà forme confuse,
illogiche, magari reazionarie. Ma non c'è altra possibilità, se si vuole lottare nella realtà contro il capitalismo reale, che gettarsi nel gorgo e cercare di fornire a chi è ormai alla disperazione le parole e i concetti necessari. Che la maggioranza della sinistra non capisca questo, è solo un'ulteriore dimostrazione della sua inutilità, del suo essere arrivata al capolinea.
(M.B.)
mercoledì 18 dicembre 2013
Sergio Stalin
I fatti sono ben riassunti qui. Le vignette satiriche dovrebbero divertire e far riflettere, e spesso ci riescono, quando sono concepite con intelligenza e al fine di schernire un potente, ridicolizzare un pregiudizio, attaccare un dogma e gridare che il Re è nudo. Quando invece sono fatte per esaltare un sopruso e una prepotenza, oltraggiandone le vittime, producono soltanto disgusto.
E un po' dispiace di dover affiancare, per amor di battuta, il nome di un personaggio sì controverso e terribile, ma di di prima grandezza storica, a quello di un piccolo imbrattacarte di partito, il cui unico fine (da anni) è ricordare ai sempre meno numerosi militonti che la Linea è Giusta, e che i Capi hanno Ragione.
A ben guardare però la battuta ha una sua dignità "filologica": in effetti queste sono pure manifestazioni di stalinismo. Stalinismo in sedicesimo, certo, molto meno tragico e assai più grottesco dell'originale, ma pur sempre stalinismo; e tale è sempre stata l'ideologia di fondo del nostro Presidente della Repubblica (mai dimenticare che in Ungheria l'URSS portava la pace).
Quanto all'attuale ideologia del giornalista Eugenio Scalfari, confessiamo la nostra incertezza. Sarebbe troppo facile dedurla dai trascorsi giovanili del nostro (che risalgono a quando il padre della Spinelli marciva al confine, guarda che caso). Quel che è sicuro è che le frasi
Sono intrise di una tale indecente volgarità, oltre alla carica intimidatoria, da far impallidire qualsiasi cosa abbia mai detto e fatto Silvio Berlusconi. (C.M.)
Ti assicuro che da questo momento in poi cancello dalla mia memoria quanto ho ora ricordato. Voglio solo pensare il meglio di te a cominciare dal fatto che sei la figlia di Altiero Spinelli. Ricordalo sempre anche tu e sarà il tuo maggior bene
sabato 14 dicembre 2013
Il debito è sostenibile e l'Italia non svaluterà
Interessante l'articolo del Sole24Ore nel quale si illustra la situazione patrimoniale del nostro paese. Non si tratta di novità assolute, soprattutto per i nostri lettori, ma è sempre opportuno ricordarle: il patrimonio delle famiglie, al netto delle passività, è tra i più ingenti nell'ambito delle nazioni industrializzate; il debito dello Stato è grande in assoluto, ma mostra una dinamica assolutamente stabile e non preoccupante. Non vi sono dunque le basi per dubitare del merito di credito dell'Italia, e dunque non vi è il rischio che vengano meno i capitali necessari a rifinanziare la spesa delle pubbliche amministrazioni.
Questo fatto può essere accompagnata ad una considerazione su cui insiste da tempo l'economista Gennaro Zezza (vedi qui e qui), e cioè che la posizione favorevole delle imprese italiane sui mercati internazionali non ci consente di poter affermare, con assoluta certezza, che un'eventuale "nuova lira" si deprezzerebbe rispetto alla valuta di riferimento internazionale, il dollaro. Anzi: dato che la fine dell'euro preluderebbe all'avvio di un "nuovo marco", che certo si rivaluterebbe rispetto al dollaro, il vantaggio competitivo che deriverebbe da questa situazione potrebbe persino portare a un successivo apprezzamento della "nuova lira".
Tutto quanto su esposto non desta eccessive sorprese, solo che non ci si faccia ingannare dalla propaganda-PUDE, la quale ripete ossessivamente che in Italia "non abbiamo fatto le riforme". Le riforme le abbiamo fatte, da Dini a Fornero, da Treu a Maroni, da Tremonti a Padoa Schippa e Saccomanni. L'Italia ha adottato una politica di compressione della domanda interna fin da metà degli anni '90. Gli effetti si vedono nella vita di tutti i giorni: i salari sono fermi da tempo, e la qualità dei servizi pubblici è in diminuzione costante a causa dei risparmi imposti dal Patto di Stabilità (che, lo ricordiamo, vige dal '97).
L'Italia non è solo un gigante economico, dunque: ma è un gigante risparmiatore, deflazionista, mercantilista. Infatti i cittadini sono allo stremo. Ma a sentire i telegiornali non abbiamo dato ancora abbastanza sangue al mostro della competitività. (C.M.)
Questo fatto può essere accompagnata ad una considerazione su cui insiste da tempo l'economista Gennaro Zezza (vedi qui e qui), e cioè che la posizione favorevole delle imprese italiane sui mercati internazionali non ci consente di poter affermare, con assoluta certezza, che un'eventuale "nuova lira" si deprezzerebbe rispetto alla valuta di riferimento internazionale, il dollaro. Anzi: dato che la fine dell'euro preluderebbe all'avvio di un "nuovo marco", che certo si rivaluterebbe rispetto al dollaro, il vantaggio competitivo che deriverebbe da questa situazione potrebbe persino portare a un successivo apprezzamento della "nuova lira".
Tutto quanto su esposto non desta eccessive sorprese, solo che non ci si faccia ingannare dalla propaganda-PUDE, la quale ripete ossessivamente che in Italia "non abbiamo fatto le riforme". Le riforme le abbiamo fatte, da Dini a Fornero, da Treu a Maroni, da Tremonti a Padoa Schippa e Saccomanni. L'Italia ha adottato una politica di compressione della domanda interna fin da metà degli anni '90. Gli effetti si vedono nella vita di tutti i giorni: i salari sono fermi da tempo, e la qualità dei servizi pubblici è in diminuzione costante a causa dei risparmi imposti dal Patto di Stabilità (che, lo ricordiamo, vige dal '97).
L'Italia non è solo un gigante economico, dunque: ma è un gigante risparmiatore, deflazionista, mercantilista. Infatti i cittadini sono allo stremo. Ma a sentire i telegiornali non abbiamo dato ancora abbastanza sangue al mostro della competitività. (C.M.)
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lunedì 9 dicembre 2013
PAUSA
Come i lettori avranno notato, negli ultimi tempi il blog è stato
"sostenuto" dagli interventi di Claudio. Marino e Fabrizio, per vari
motivi di ordine sia professionale sia personale, non hanno potuto
contribuire. Ora anche Claudio è risucchiato da impegni vari, il che
significa che fino ai primi mesi del nuovo anno le pubblicazioni saranno molto diradate. In
sostanza il blog si concede delle lunghe vacanze natalizie. Torneremo nel 2014. Saluti e buone feste a tutti (La redazione)
sabato 7 dicembre 2013
Caro Rodotà, il maggioritario è sempre incostituzionale
Stefano Rodotà commenta la recente sentenza della Corte Costituzionale, in un intervento nel quale il noto giurista difende l'operato della Corte relativamente all'annullamento del premio di maggioranza senza soglia e delle c.d. 'liste bloccate'. Per capire cosa ciò comporti, ecco un breve riepilogo.
Non intendo dilungarmi sulle conseguenze politiche immediate di questo evento, né sui limiti della sentenza. Basti dire che, secondo un'opinione abbastanza accreditata , l'intervento della Corte configura un favore al Governo Letta; e che non è stato toccato uno degli aspetti peggiori dell'attuale legge, e cioè la presenza di molteplici soglie di sbarramento.
Mi concentro qui su due passaggi dell'articolo di Rodotà:
Qui S.R. da un lato sembra credere che i problemi legati alla presenza di oligarchie e allo stravolgimento della rappresentanza li abbia instaurati il Porcellum, come se il sistema precedente (Mattarellum) non avesse creato, più o meno negli stessi termini, i medesimi problemi; dall'altro appare consapevole che, sotto il profilo costituzionale, qualcosa nel maggioritario non va. Solo che questa consapevolezza non arriva al punto di considerare il maggioritario in sé e per sé come incompatibile con la Costituzione; e ci si appunta solo sugli aspetti patologici (le "forzature").
Il maggioritario è la negazione del suffragio universale. Innanzitutto dovrebbe essere definito minoritario, perché si tratta di un sistema concepito per trasformare nelle minoranze di rappresentati in maggioranze di rappresentanti; una forza politica che è maggioritario nel voto reale non ha bisogno del maggioritario. La questione è magnificamente inquadrata qui. In secondo luogo introduce nel dibattito politico un elemento di manipolazione del consenso espresso nelle urne, cosicché la lotta politica si sviluppa anche sul terreno delle "regole del gioco", perché le tecniche di manipolazione sono diverse e avvantaggiano, volta per volta, attori diversi: ecco un'ottima spiegazione. In terzo e decisivo luogo, il maggioritario vanifica il principio "una testa, un voto", che è la pietra angolare della democrazia elettorale. Per capire la misura della violenza che il maggioritario compie ai danni dei principi democratici non c'è nulla di meglio di questa lettura.
Per dimostrare quest'ultimo assunto, bastano alcuni facili esempi astratti. Immaginiamo un sistema elettorale maggioritario, articolato in tre collegi uninominali. Si affrontano due partiti, A e B. Supponiamo che tutti i collegi abbiano lo stesso numero di elettori registrati. A prende il 90% nel primo collegio; B il 51% negli altri due. Se si prende il totale dei collegi, B ha ricevuto il 37,3% dei voti, a fronte del 72,6% di A; tuttavia, B riceve il doppio dei seggi di A.
Altro caso. B prende il 51% in tutti e tre i collegi, ricevendo così tre seggi. A rappresenta, a livello del voto popolare, quasi la metà del consenso espresso; tuttavia, la sua rappresentanza nell'assemblea elettiva è del tutto nulla.
Altri esempi possono essere suggeriti dalla fantasia dei lettori, e possono essere estesi anche ad altri tipi di maggioritario, diversi dall'uninominale secco: tanto il principio è sempre il medesimo.
Che questa roba non sia in contrasto solo con la Costituzione italiana, ma con tutte le possibili costituzioni di qualsiasi paese democratico, è sotto gli occhi di tutti. Coerentemente, Napolitano cerca di imporre il maggioritario al parlamento.
Ci aspetteremmo che Stefano Rodotà impegni tutto il suo prestigio in una campagna che conservi gli aspetti proporzionali della legge in vigore, così come ritoccata dalla Consulta. Gli ingenui richiami al Mattarellum non sembrano però deporre a favore di tale ipotesi. (C.M.)
Non intendo dilungarmi sulle conseguenze politiche immediate di questo evento, né sui limiti della sentenza. Basti dire che, secondo un'opinione abbastanza accreditata , l'intervento della Corte configura un favore al Governo Letta; e che non è stato toccato uno degli aspetti peggiori dell'attuale legge, e cioè la presenza di molteplici soglie di sbarramento.
Mi concentro qui su due passaggi dell'articolo di Rodotà:
La legge Calderoli ci aveva trascinato fuori dalla logica rappresentativa, e ci aveva abbandonato in una sorta di vuoto dove la logica costituzionale era stata sostituita dal potere assoluto di oligarchie ristrettissime (venti, trenta persone) di scegliere arbitrariamente 945 parlamentari. E tutto questo era avvenuto all’insegna della pura “governabilità”, parola che aveva cancellato, con una evidente e grave forzatura, il riferimento alla rappresentanza.E più avanti:
Nell’esercitare il potere di approvare una nuova legge elettorale, al quale fa esplicito riferimento il comunicato ufficiale della Corte, il Parlamento dovrà tuttavia tenere ben fermi alcuni vincoli che già emergono con grande nettezza (...) Il secondo tipo di vincolo riguarda l’illegittimità costituzionale di meccanismi che alterano il rapporto tra voti e seggi attraverso forzature maggioritarie. In questo modo è possibile restaurare quella democrazia perduta negli anni tristi del Porcellum.
Qui S.R. da un lato sembra credere che i problemi legati alla presenza di oligarchie e allo stravolgimento della rappresentanza li abbia instaurati il Porcellum, come se il sistema precedente (Mattarellum) non avesse creato, più o meno negli stessi termini, i medesimi problemi; dall'altro appare consapevole che, sotto il profilo costituzionale, qualcosa nel maggioritario non va. Solo che questa consapevolezza non arriva al punto di considerare il maggioritario in sé e per sé come incompatibile con la Costituzione; e ci si appunta solo sugli aspetti patologici (le "forzature").
Il maggioritario è la negazione del suffragio universale. Innanzitutto dovrebbe essere definito minoritario, perché si tratta di un sistema concepito per trasformare nelle minoranze di rappresentati in maggioranze di rappresentanti; una forza politica che è maggioritario nel voto reale non ha bisogno del maggioritario. La questione è magnificamente inquadrata qui. In secondo luogo introduce nel dibattito politico un elemento di manipolazione del consenso espresso nelle urne, cosicché la lotta politica si sviluppa anche sul terreno delle "regole del gioco", perché le tecniche di manipolazione sono diverse e avvantaggiano, volta per volta, attori diversi: ecco un'ottima spiegazione. In terzo e decisivo luogo, il maggioritario vanifica il principio "una testa, un voto", che è la pietra angolare della democrazia elettorale. Per capire la misura della violenza che il maggioritario compie ai danni dei principi democratici non c'è nulla di meglio di questa lettura.
Per dimostrare quest'ultimo assunto, bastano alcuni facili esempi astratti. Immaginiamo un sistema elettorale maggioritario, articolato in tre collegi uninominali. Si affrontano due partiti, A e B. Supponiamo che tutti i collegi abbiano lo stesso numero di elettori registrati. A prende il 90% nel primo collegio; B il 51% negli altri due. Se si prende il totale dei collegi, B ha ricevuto il 37,3% dei voti, a fronte del 72,6% di A; tuttavia, B riceve il doppio dei seggi di A.
Altro caso. B prende il 51% in tutti e tre i collegi, ricevendo così tre seggi. A rappresenta, a livello del voto popolare, quasi la metà del consenso espresso; tuttavia, la sua rappresentanza nell'assemblea elettiva è del tutto nulla.
Altri esempi possono essere suggeriti dalla fantasia dei lettori, e possono essere estesi anche ad altri tipi di maggioritario, diversi dall'uninominale secco: tanto il principio è sempre il medesimo.
Che questa roba non sia in contrasto solo con la Costituzione italiana, ma con tutte le possibili costituzioni di qualsiasi paese democratico, è sotto gli occhi di tutti. Coerentemente, Napolitano cerca di imporre il maggioritario al parlamento.
Ci aspetteremmo che Stefano Rodotà impegni tutto il suo prestigio in una campagna che conservi gli aspetti proporzionali della legge in vigore, così come ritoccata dalla Consulta. Gli ingenui richiami al Mattarellum non sembrano però deporre a favore di tale ipotesi. (C.M.)
giovedì 5 dicembre 2013
Diritto di replica
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, la risposta di Fabio Sabatini a questo articolo.
Cari redattori di Mainstream,
Cari redattori di Mainstream,
vi ringrazio per l'interesse che avete mostrato per il pezzo pubblicato su MicroMega.
Mi
permetto di scrivervi per fornire alcuni chiarimenti non richiesti, e
per fare delle piccole precisazioni. Senza alcuna preghiera di
rettifica, beninteso: il mio intento è solo fare chiarezza.
- Riconosco pienamente la validità di alcuni dei
problemi che sollevate sul mio tentativo di ricognizione. Spero di
averne dato, almeno in parte, conto nel post che ho pubblicato
successivamente su MicroMega: http://blog- micromega.blogautore.espresso. repubblica.it/2013/11/27/ fabio-sabatini-alcuni- commenti-su-economisti- dappertutto/
- Nel vostro post viene avanzato il sospetto che il tentativo di ricognizione sia stato concepito "a favore" degli economisti liberisti, coloro che a vario titolo gravitano intorno a Fermare il declino per intenderci.
- Nel vostro post viene avanzato il sospetto che il tentativo di ricognizione sia stato concepito "a favore" degli economisti liberisti, coloro che a vario titolo gravitano intorno a Fermare il declino per intenderci.
E' un sospetto che con mia sorpresa è stato condiviso da molti, "a sinistra".
Ed
è del tutto paradossale, per una serie di ragioni. La prima è che, per
certi versi, io stesso sono un ricercatore in Economia politica
"eterodosso". Mi rendo conto che dall'esterno della disciplina certe
distinzioni possono sembrare - e forse lo sono - anacronistiche, ma
tutta la mia attività pubblicistica (su Il Fatto Quotidiano e su
MicroMega) va in quella direzione. Penso che ogni fermatore del declino
inorridirebbe nel leggere i pezzi che firmo, in cui molto spesso critico
gli approcci di politica economica di stampo liberista, nonché il modo
in cui si va sviluppando l'Unione Monetaria (basti pensare ai miei pezzi
sugli accordi fiscali) o più in generale il processo di integrazione
europea.
Nella mia attività di ricerca poi sono forse ancora
meno "allineato", visto che mi occupo di temi un po' particolari, al
confine dell'economia con la sociologia e le scienze politiche (il mio
profilo di ricerca è consultabile qui: http://www. socialcapitalgateway.org/ editor).
Come non bastasse, non ho mai fatto mistero della
mia distanza da Fid, pur nel rispetto dei colleghi che apprezzano quel
partito. All'epoca di Giannino scrissi un pezzo su Il Fatto Quotidiano
che per un po' di tempo mi ha attirato parecchi insulti da parte dei fan
di Fid (ma temo che sia un problema generalizzato per chiunque scriva
su quella testata).
Inoltre ho conseguito il mio dottorato in Economia
politica presso la Sapienza dove, almeno ai miei tempi, l'insegnamento
dell'eterodossia aveva un ruolo di primo piano nella nostra formazione.
Ho avuto il privilegio di conoscere Pierangelo Garegnani e di seguire i
suoi corsi, e quelli di diversi suoi allievi. Successivamente, ho
lavorato con Sergio Cesaratto, per quattro anni mio supervisor
all'Università di Siena, che a mio modestissimo parere è in questo
momento il più autorevole esponente delle varie scuole eterodosse in
Italia.
Poi, può anche darsi che alcuni economisti (di quale
"scuola" non so) mi abbiano preso in antipatia per via del mio impegno
civile sulla trasparenza nei concorsi (si veda per esempio il servizio
di Report sulla mia iniziativa: http://www. youtube.com/watch?v=bK_ TTQMoF38 e
i diversi pezzi che ho scritto in proposito). Impegno che, invece,
credo sia stato apprezzato dalle persone che scrivono o commentano su
noiseFromAmerika. Ma questo proprio non dipende da me.
In generale, penso che distinguere chi ha una
competenza da economista formata attraverso decenni di ricerca
scientifica da chi ha esperienze professionali certo preziose, ma
diverse, sia utile a tutti e non solo a una parte, e soprattutto che
possa costituire un elemento di chiarezza per i lettori. Poi, concordo
sul fatto che la mia impostazione sia fallace e possa essere migliorata
in tanti modi.
- Nel vostro post scrivete anche che Alberto Bisin
avrebbe contribuito alla redazione della tabella. Ciò è falso. Credo che
Bisin abbia appreso del mio pezzo da Facebook (dove siamo amici. Per
inciso non ci siamo mai incontrati personalmente, come spesso succede
agli amici di Facebook). Certo ho letto il post che Bisin ha pubblicato
su nFA tempo fa, ma da qui a ipotizzare una "collaborazione" ne passa.
- Scrivete infine che è evidente che la mia
iniziativa sia legata a doppio filo al dibattito sull'euro. Secondo me
non èevidente, e tale questione è del tutto incidentale e, credo, dovuta
al fatto che alcuni economisti che non rientrano nella mia
(opinabilissima) definizione è proprio all'Unione Monetaria che dedicano
gran parte della loro attività di divulgazione. Da qui l'equivoco.
In realtà il mio intento, passato in secondo o terzo
piano agli occhi dei lettori, è indagare come, nel dibattito sui media,
sono rappresentati diversi punti di vista degli economisti su temi
sensibili di politica economica. Che potrebbe essere un modo per
verificare chi ha maggiore influenza nel dibattito (per esempio: sono
più influenti i liberisti o i non liberisti? Possono raggiungere un
pubblico più ampio i sostenitori della spesa pubblica o quelli dei tagli
alla spesa pubblica? E così via).
Questo è un obiettivo che dovrebbe suscitare
l'interesse e l'empatia di coloro che accusano i mezzi di informazione
di essere sbilanciati a favore di posizioni liberiste. Essi infatti
potrebbero, in caso di risultati "favorevoli", utilizzare la mia piccola
ricognizione come evidenza per sostenere la loro tesi (che
l'informazione è sbilanciata, appunto). In estrema sincerità, mi ha
sorpreso molto vedere che tale opportunità - esplicitamente messa in
evidenza nel mio pezzo - sia invece completamente sfuggita ai più.
- Dette tutte queste cose, non posso che ringraziarvi per avermi definito "giovane" economista!
Cordiali saluti,
Fabio Sabatini
Fabio Sabatini
mercoledì 4 dicembre 2013
L'euro minaccia il predominio del dollaro
...ma anche no.
E così giustizia è fatta di tutti i discorsi sulle virtù dell'eurone forte che funge da contropotere monetario del dollaro. Perché questo avvenisse la moneta europe dovrebbe essere usata, almeno come moneta di riferimento per gli scambi commerciali, dalla maggioranza dei paesi del mondo. Invece non lo usa nemmeno la Germania. Una prece.
E così giustizia è fatta di tutti i discorsi sulle virtù dell'eurone forte che funge da contropotere monetario del dollaro. Perché questo avvenisse la moneta europe dovrebbe essere usata, almeno come moneta di riferimento per gli scambi commerciali, dalla maggioranza dei paesi del mondo. Invece non lo usa nemmeno la Germania. Una prece.
domenica 1 dicembre 2013
Nazionalismo, identità nazionale ed europeismo
È frequente imbattersi
nella seguente considerazione: l'identità alla base delle comunità
nazionali è una costruzione ideologica, anzi una fabbricazione
elaborata 'a tavolino' per tutelare gli interessi dei ceti dominanti.
Dato il carattere di artificiosità e di surrettizietà della nozione
di “identità nazionale”, ogni tentativo di porla alla base di un
discorso politico è del tutto fuorviante, sempre che si intenda fare
un discorso emancipativo; se invece si intende impegnarsi in un
progetto reazionario, allora quella costruzione è perfettamente
adeguata allo scopo.
Questo tipo di
argomentazione contiene in sé molti elementi di ragionevolezza,
anche se andrebbe espresso con un linguaggio più preciso. Dire che
un certo concetto è “artificiale”, volendo con ciò indicarne un
difetto, non ha molto senso: non esistono i concetti “naturali”,
e d'altra parte la caratteristica di essere artificiale non
rappresenta un che di deteriore (la musica è artificiale). Andrebbe
invece spiegato che alla base dimolti discorsi apologetici della identità (e
della sovranità!) nazionale c'è invece un meccanismo di costruzione
(ovviamente artificiale) di miti; un processo di mitopoiesi.
Usare il
passato in maniera strumentale e senza riguardi per la razionalità
storica allo scopo di fabbricare un'apposita mitologia, mitologia che
a sua volta sarà utile per giustificare una certa strategia
politica: questo è il vero fenomeno che la considerazione di cui
sopra critica, e che costituisce l'essenza di quella che qualcuno ha
chiamato cultura di destra. Quando la fabbricazione mitologica verte
sull'identità nazionale, porta sempre con sé almeno due elementi,
di cui uno assolutamente peculiare. Innanzitutto, la comunità
nazionale della cui identità si discetta è sempre presentata come
un ché di compatto e omogeneo, scevra da lacerazioni e conflitti
strutturali, un organismo che, lasciato a sé stesso, genera
benessere e soddisfazione per tutti. Quando esso va in crisi è
perché qualcosa, da fuori, lo ha attaccato, magari servendosi di
quinte colonne traditrici. Lo schema è sempre il medesimo: andava
tutto bene, un tempo, finché non è arrivata la minaccia esterna che
ci ha rovinati. Questo ci permette di passare al secondo elemento
immancabile di questo tipo di operazione ideologica, quello
peculiare: la rimozione degli elementi negativi dalla storia della
comunità nazionale. Chi ha analizzato i profili ideologici del
British National Party e dell'United Kingdom Indipendence Party ha
trovato solo pochi punti in comune, creando qualche imbarazzo nello
stabilire che cosa ci fa dire, apparentemente senza difficoltà, che
entrambe sono formazioni di destra. Il punto in comune più rilevante
era proprio una ricostruzione della storia britannica che la
presentava come esente da gravi colpe, o di cose di cui vergognarsi.
In ambito domestico ho trovato un brano che rende perfettamente
l'idea di quando vado descrivendo:
quello italiano oggi non è un popolo fiero. (…)
La fierezza nasce da una ricostruzione della storia
passata, non esiste altra possibile genesi. Dunque, per cominciare a
ricostituirla, è necessario andare alla ricerca del meglio della
nostra storia: il volontarismo risorgimentale, il pensiero di
Mazzini, la figura di Garibaldi, la Costituzione romana, la precoce
abolizione della pena di morte, la compattezza mostrata nella
macelleria della prima guerra mondiale, l'eccellente legge bancaria
del 1936, lo scoperto infinito dello Stato presso la banca d'Italia
(1936-1945), il divieto di acquistare titoli emessi all'estero per
motivi speculativi (1934), la stratosferica tecnica legislativa dei
codici, la resistenza, la costituente, la riforma agraria,
l'abolizione della mezzadria, la piena occupazione, la scala mobile,
lo stato sociale, il piano casa, la enorme mobilità sociale degli
anni settanta e ottanta, il non aver avuto per decenni, fino a
Berlusconi, imprenditori che abbiano ricoperto ruoli politici di
primo piano, una scuola e una università di massa a lungo più serie
e (quindi) severe rispetto a scuola e università di altri Stati a
noi simili, la repressione della rendita finanziaria fino al 1981,
l'attenuazione delle differenze tra nord e sud nel periodo 1951-1981,
le partecipazioni statali e altro ancora.
Mitogenesi, anzi
mitopoiesi. Per restituire “fierezza” al popolo è indispensabile
fornire loro una ricostruzione della storia d'Italia basata
esclusivamente sugli elementi positivi (o presunti tali), e su un una
totale rimozione di tutto quanto possa turbare il quadro. La storia
d'Italia è una storia di crimini, e anche il periodo repubblicano
risulta ricco di contraddizioni. E non potrebbe che essere così. Per
andare avanti, per progredire in un cammino di civiltà, è
indispensabile prendere coscienza dei lati negativi del proprio
passato nazionale, in un certo senso riconciliarsi con essi; allo
stesso modo, un vero progetto di emancipazione non può che radicarsi
nelle contraddizioni reali in seno alla società, nei conflitti che
sempre la attaversano; nelle istanze e nelle esigenze concrete delle
persone reali. Non certo nelle brodaglie ideologiche frutto della
miscela di pezzi di passato scelti ad arte (quando non proprio
travisati o falsificati).
Dunque, la critica alle
“narrazioni” di questo tipo è sensata e condivisibile. Tuttavia,
nella grande maggioranza dei casi esse cadono fuori bersaglio,
finendo per concentrarsi su un fenomeno relativamente minore (per
ora) e mancando di denunciare qualcosa di ben più inquietante.
Se è vero che la
retorica identitaria è tanto più pericolosa quanto più e
mistificante e artificiosa, è vero anche che tale retorica è tanto
più mistificante quanto più si rivolge a “oggetti” sociali
lontani dalla nostra vita quotidiana. Ad esempio, sostenere che
esista una identità nazionale basca sarà anche un'operazione
mistificante, ma è un'operazione che poggia su elementi assai
concreti: in effetti esiste una comunità che parla basco, che vive
in un territorio ben definito, e che si riconosce in un comune
retaggio culturale. La vita quotidiana del cittadino basco non è
così lontana dagli elementi fondanti l'ipotetica retorica del
“popolo basco”.
Ma che dire dell'identità
europea? Essa non si fonda su una lingua comune, né su un comune
retaggio culturale: l'Europa è un multiverso di culture e civiltà
differenti. Il dato geografico è molto astratto, perché non fa
riferimento a un territorio ben definito, a meno di non considerare
tale un continente dai confini arbitrari. Alla fine ci si trova
davanti a una verità piuttosto imbarazzante: gli unici elementi
comuni a tutti i popoli europei sono la religione cristiana (o quel
che ne rimane) e la pelle bianca. Non proprio l'ideale per costruire
una “narrazione” progressista dell'identità europea! E così chi
si trova a “fabbricare” quell'identità, senza infrangere il
politically correct, si ritrova invischiato in un processo di
mitopoiesi particolarmente impegnativo e “artificiale”, dovendo
letteralmente inventare una comunanza di idee, valori e tradizioni
del tutto immaginaria.
Ciò peraltro ci illumina
su un'altra carattetistica del “discorso” europeista: come la
maggior parte delle retoriche nazionaliste, e al di là delle
apparenze, esso è tutto rivolto al passato, a ciò che eravamo.
È un tentativo di conservare l'antica gloria europea, chiudendosi a
riccio contro il resto del mondo. Come abbiamo già scritto altre
volte, è una passione triste.
Forse sarebbe il caso che
chi si dedica allo smascheramento (benemerito) delle retoriche
nazionaliste e patriottarde riservi una quota del suo tempo anche al
contrasto della mistificazione europeista, che è tanto più falsa
quanto più poggia su fondamenta estranee alla sensibilità e alla
vita concreta delle masse europee. Non c'è da contrastare solo il
vecchio nazionalismo, ma anche il nuovo nazionalismo europeo.
Speriamo che qualcuno se ne accorga. (C.M.)
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