Più Europa? No, grazie!
Quale sinistra per quale Europa
Spartaco A. Puttini
La
crisi ha mostrato il vero volto del processo d’integrazione
europeo. A dispetto di tanta pubblicità, oggi la Ue non gode di
grande reputazione presso i popoli europei. Quando si parla di Europa
occorre evitare i facili equivoci. L’Unione europea non è infatti
l’Europa, ma una sua parte e l’Eurozona è, a sua volta, una
parte della Ue. Ciononostante nel linguaggio corrente i termini sono
interscambiabili.
Il
processo di integrazione europeo si è ammantato di nobili ideali e
anche di qualche utopia, rincorrendo il sogno federale degli Stati
Uniti d’Europa ma realizzando l’incubo sovranazionale della Ue,
cioè dell’Europa degli Stati Uniti. Europa degli Stati Uniti sia nel senso che ad integrarsi sono stati i paesi di quella parte d’Europa soggetta all’egemonia Usa (significativo che l’allargamento dell’Ue ad est avvenga parallelamente all’espansione ad est della Nato), sia nel senso che la costruzione dell’unione avviene sotto la tutela americana, all’insegna dell’accettazione piena della reazione neoliberista già in voga nel mondo anglosassone e, in definitiva, come ulteriore tappa del processo di mondializzazione1.
Nicola Acocella ha recentemente sottolineato come l’accelerazione che vive il processo di integrazione europeo tra gli anni ’80 e gli anni ’90 avvenga in un clima segnato dall’affermazione del modello neoliberista sulla base dell’obiettivo di completare la costruzione di un mercato unico dei beni, dei capitali, delle persone2. Il processo si configura nei fatti sintonizzato alla reazione globale neoliberista, con la sua proposta di finanziarizzazione e libera circolazione dei capitali senza controllo, con la sua richiesta di stato minimo e privatizzazione, con il suo porre l’accento sull’autonomia del mercato e la lotta all’inflazione anziché sullo sviluppo orientato dalla mano pubblica e sulla lotta alla disoccupazione.
La spinta ad una maggiore integrazione dell’Europa occidentale, con il salto dalla Comunità all’Unione, avviene proprio in questa temperie, dal vertice di Lussemburgo che sancisce la firma dell’Atto unico europeo nel 1986, a Maastricht. L’intelaiatura e lo spirito della Ue sono caratterizzati e segnati dallo stigma reazionario. La credenza nella capacità di autoregolazione dei mercati e l’ostilità verso l’intervento pubblico spiegano in certa misura la scelta di introdurre una moneta unica soggetta ad un’istituzione bancaria centralizzata e conservatrice ossessionata dalla lotta all’inflazione e spiegano anche “l’incompiutezza istituzionale” in cui versa la Ue. Senza il complemento di altre istituzioni che sovraintendano ad una politica fiscale comune si riteneva scontato che sarebbe stato l’input della politica monetarista a disciplinare l’attività economica dei vari paesi e a far convergere le economie dell’Eurozona. Acocella rileva come “Ciò introduce una tendenza deflazionistica che successivamente accentuerà e prolungherà gli effetti della crisi economica iniziata nel 2007”3. Del resto, a sottolineare ulteriormente che una politica di compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori era insita nell’impostazione che l’integrazione si era data era la stessa Commissione europea, che già nel 1990 indicava la strada maestra: “si è progressivamente affermato il convincimento che le divergenze economiche reali che si manifestano in squilibri esterni vanno affrontate di norma con misure di aggiustamento interno, piuttosto che con riallineamenti, cioè con un aggiustamento esterno”4. Vale a dire che già alla vigilia di Maastricht la Commissione aveva indicato come gli squilibri di competitività interni all’area della moneta unica non dovessero essere affrontati tramite la leva della svalutazione monetaria (che avrebbe invalidato il principio del cambio fisso su cui l’area stessa veniva costituita) ma tramite la svalutazione interna dei salari. Del resto, l’area valutaria a cambi fissi prima e la moneta unica dopo sono state volute a tutto pro del capitale e della sua possibilità di circolare liberamente senza pagare il pegno delle possibili svalutazioni. In proposito scriveva Padoa Schioppa in tempi non sospetti: “l’euro assume un significato speciale perché porta la creazione di un mercato alla sua conseguenza ultima, che è l’introduzione di una moneta unica”5.
Oggi è sotto gli occhi di tutti il fallimento del modello neoliberista così come lo sono le divergenze crescenti all’interno dell’Eurozona. Assistiamo ad una dinamica segnata da crescenti squilibri a causa dell’aumento del divario tra i paesi centrali dell’Eurozona e quelli periferici e semiperiferici da un lato, e tra le classi sociali, con una netta tendenza alla proletarizzazione da parte di fasce crescenti del ceto medio, dall’altro. Di fronte all’eurocrisi in corso ciascuno può toccare con mano come le ricette di austerità della Commissione europea e della BCE portino a un crescente immiserimento delle classi popolari e ad una brutale regressione dei diritti del lavoro in tutta la Ue, prospettando la formazione di masse di working poor, lavoratori poveri che non riescono a campare del proprio lavoro cui si sommano, nella disgrazia sociale imperante, quote rilevanti di disoccupati.
Ma questo non basta: occorre avere presente il quadro che nelle righe precedenti è stato didascalicamente abbozzato per comprendere che il problema posto dalle attuali politiche promosse dalla Ue risiede nello stesso DNA del processo di integrazione, che è, per così dire, nel manico.