Nell'inserto economico del “Fatto Quotidiano” di mercoledì 21 gennaio c'è una intervista a Franco Bernabè, ex presidente telecom, che potete trovare qui. C'è un passaggio interessante dovuto al fatto che l'intervistatore (Giorgio Meletti) ha uno sprazzo di lucidità, insolito nella categoria dei giornalisti, e riesce a chiarire il senso delle parole dell'intervistato. Il passaggio è il seguente:
“F.Bernabè. L'unica cosa che si può e si deve fare è liberare le energie per la creazione di nuove iniziative. La tecnologia ha fatto sì che oggi le soglie di accesso alla creazione di un'impresa si sono molto abbassate. Le opportunità ci sono, anche in Italia, bisogna mettere i giovani in condizione di coglierle.
G.Meletti. Ma l'idea che tutti i giovani debbano farsi la start up non è un po' come dire loro: arrangiatevi? E se uno per caso non è creativo, non ha l'idea geniale, o semplicemente non vuol vivere con il coltello della competizione tra i denti, deve morire di fame?
FB. L'economista americano Tyler Cowen ha scritto recentemente un libro intitolato Average is over, che letteralmente significa “la media è finita”. Significa che non c'è più spazio per galleggiare, il mondo è diventato terribilmente competitivo per il semplice fatto che in pochi anni la cosiddetta globalizzazione ha messo 500 milioni di europei in gara con tre miliardi di cinesi e indiani. E adesso sta esplodendo l'economia africana. È così, oggi chi non è creativo e competitivo starà molto peggio di chi non lo era trent'anni fa.
GM. Una classe dirigente che dice al popolo che viene diretto “scusate, è andata male, ognuno per sé e Dio per tutti” non è un grande spettacolo.
FB. Sta accadendo così in tutti i Paesi dell'Occidente.”
Come dicevo, l'intervistatore ha colto esattamente il contenuto reale della retorica di Bernabè traducendola nel semplice invito, da parte delle classi dirigenti, ad arrangiarsi. Bernabè tergiversa, cita un economista americano, che fa sempre cool, ma alla fine, con un po' di giri di parole, conferma che la sostanza della situazione è questa.
A me sembra che si tratti di uno scambio che ci dice davvero molto, sulle nostre classi dirigenti. Ci mostra una notevole mescolanza di lucidità e follia. La lucidità sta, naturalmente, nel descrivere in maniera corretta la situazione, che è proprio quella che emerge dalle parole di Bernabè. Possiamo aggiungere che ormai davvero nessuno nasconde più nulla, tutto è chiaro. La follia sta nel pensare che una situazione del genere possa essere stabile. Si può pensare che stia in piedi uno Stato, una comunità, un gruppo umano di un qualsiasi tipo, sulla base del principio “ognuno pensa per sé”? Sulla negazione di ogni solidarietà, di ogni condivisione? È noto che “sono forse io il custode di mio fratello?” è la risposta di Caino al Signore che lo interroga sulla sorte di Abele (Genesi, 4, 9), e il racconto biblico sembra suggerirci che, sulla base dei principi di Caino e Bernabè, un gruppo umano (in questo caso, la prima famiglia) si scontra rapidamente con problemi piuttosto gravi.
I gruppi dirigenti dei paesi occidentali stanno distruggendo, direi senza rendersene troppo conto, le basi stesse della convivenza civile. Si tratta di un processo che finirà per travolgere, alla fine, anche il loro potere. Purtroppo, prima di questo, travolgerà le nostre società, le nostre famiglie, le nostre vite.
(M.B.)
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giovedì 29 gennaio 2015
martedì 24 giugno 2014
Dialogo a tre sul nostro futuro
Vi proponiamo un dialogo (via mail)
fra i curatori del blog. Senza pretese di grande profondità teorica, crediamo che sia interessante
per i lettori, poiché vengono toccati temi sui quali in molti ci arrovelliamo. Vengono messi a confronto punti di vista e prospettive
diverse, che offriamo alla vostra valutazione.
FT: Voi sapete qualcosa di questa iniziativa? http://www.fiom-cgil.it/web/aree/europa/news/573-lanciata-la-campagna-contro-il-ttip-da-60-associazioni-in-europa
CM: Alcuni movimenti locali seguono la vicenda da un po', mi sembra con scarsi risultati.
FT: Non è strano, più il nemico si allontana, meno è facile costruire opposizione. In fondo è sensato non crederci. Pensa: una trattativa fra UE e USA, che cosa pensi di poterci fare? Davvero dovremmo riuscire a dire che l'unica cosa sensata sarebbe uscire da quest'incubo e tornare in una condizione in cui possiamo pensare di incidere nella realtà.
CM: Io non penserei di poter incidere nemmeno se comandassi un nucleo di Tupamaros armati fino ai denti, figurati. Del resto ve l'ho scritto: l'orizzonte concettuale della mia attività politica concreta è racchiuso nei confini del comune di Genova.
Cosa intendi, in pratica, con la frase “uscire da quest'incubo e tornare in una condizione in cui possiamo pensare di incidere nella realtà.”?
FT: Sei molto ottimista. Dubito che al momento si possa andare oltre la dimensione del condominio...
Uscire dall'incubo significa ricondurre il maggior numero di decisioni politiche in ambiti ove sia possibile la partecipazione democratica. La sovranità dovrebbe tornare alla stato nazionale (in parte c'è già, come spesso hai sostenuto tu, ma in buona parte è stata ceduta).
Poi però la sovranità, che appartiene al popolo, dovrebbe essere esercitata dai cittadini laddove è loro possibile, anche aumentando le competenze e le risorse degli enti locali.
Il punto centrale però è il discorso sulla globalizzazione. Se la si considera un dato di fatto indiscutibile, e non modificabile, allora possiamo anche piantarla lì, tanto non possiamo fare proprio nulla. Né a livello planetario, né a Genova.
CM: Il problema per me è il seguente: noi possiamo anche dichiarare modificabile e discutibile la globalizzazione, non è un problema. Di irreversibile c'è solo la morte. Concettualmente sfondi una porta aperta. Politicamente le cose si complicano. La domanda che mi pongo è: "Come si attua la de-globalizzazione?"
Facciamo un'ipotesi di "fantascienza", e assumiamo di poter disporre, noi, di un notevole potere politico in ambito nazionale. Una volta al potere attuiamo misure de-globalizzatrici. Cominciamo dal blocco dei movimenti di capitale: senza di esso non si fa nulla. Ottimo, abbiamo creato un isola nel sistema finanziario internazionale; essa finirebbe stritolata nel giro di pochi mesi, o meglio ci stritolerebbero prima i cittadini, una volta che si siano accorti che non possono usare le loro carte di credito una volta usciti dai patrii confini (e mille altre limitazioni). Tutta roba già successa agli inizi degli anni '80, quando Mitterand provò a socialistizzare la Francia: bloccò i movimenti di capitale, nazionalizzò le banche, fece anche tante altre cose carine. Durò un anno. Figuratevi adesso.
La de-globalizzazione mi sembra analoga al disarmo: chi disarma per primo? Non credo proprio che sia alcunché di realizzabile per iniziativa unilaterale di uno stato solo (a meno che non si tratti degli Stati Uniti). O si fa in contemporanea tra i principali stati industrializzati, o non ha senso farlo.
L'eventuale de-globalizzazione dovrebbe essere frutto dell'azione coordinata di vasti movimenti internazionali. Allora potrebbe funzionare. Non è più fantascientifico di una nostra presa del potere in ambito nazionale, se ci riflettete.
Va detto infine che se per caso esistessero vasti movimenti internazionali in grado di agire in maniera coordinata tra loro, allora a quel punto si perderebbe la necessità di de-globalizzare: le forze popolari avrebbero la possibilità di gestire in maniera democratica le dinamiche economiche sovra-nazionali, per esempio inibendo la concorrenza tra stati e lavoratori.
La morale della favola è: se tanto è tutto utopico, scegli l'utopia che ti esalta di più (o quella che ti deprime di meno)
FT: Uhm... credo che quel che dici sia molto più fantascientifico di una presa di potere a livello nazionale. Però resta il problema che poni: che te ne fai del potere a livello nazionale, se gli altri sono tutti dentro la globalizzazione? Tuttavia non credo che la questione sia esattamente nei termini che indichi tu, perché probabilmente, in realtà, ci sono paesi che stanno cercando vie alternative. Forse. In Sudamerica per esempio. In ogni caso quel che è certo è che si scatenerebbero guerre terribili, sia in questo scenario, che nel caso della presa di potere da parte di movimenti internazionali (a meno che essi non riescano ad assumere contemporaneamente il comando di tutte, o quasi, le forze armate importanti del Mondo, il che è un tantino improbabile).
CM: Sudamerica? Non credo proprio, guarda il Brasile di oggi...
Sinceramente, non vedo alternative a livello mondiale. I paesi si differenziano per il modo di stare dentro la globalizzazione, ma nessuno la mette in discussione; il primo che lo facesse si autodistruggerebbe. Nessun capitalismo nazionale rinuncerà mai al mercato mondiale (anche perché credo che le classi dirigenti siano abbastanza memori di quel che è successo l'ultima volta...)
Quel che invece può accadere è che il mercato mondiale si segmenti in alcune macro-aree. Il TTIP è un passo verso tale direzione. È possibile che, in risposta all'iniziativa USA di creare tale "NATO economica" anche altri gruppi di stati apparecchino qualcosa (ma non è affatto detto: Giappone, Russia, India e Cina si mandano a quel paese ogni volta che possono).
La creazione di queste macro-aree potrebbe essere interpretato come un gesto di deglobalizzazione. Tuttavia, non sfugge che all'interno di queste aree il principio "liberista" tipico della globalizzazione verrebbe amplificato. Quindi in realtà si tratta di una globalizzazione più intensa, anche se più ristretta dal punto di vista dei soggetti coinvolti.
È probabile che USA e UE, legate da NATO e TTIP, daranno anche vita a qualcosa di simile ad un coordinamento permanente tra governi: qualcosa di più del G-7 e qualcosa di meno dell'attuale Consiglio Europeo, per dire. Magari, chissà, un giorno ci faranno eleggere una pazzesca assemblea parlamentare atlantica...
Al di fuori di questa area i singoli paesi continueranno la loro corsa verso il turbo-capitalismo, Sudamerica in testa.
Può darsi che in questo scenario le comunità locali diano vita a qualche forma di resistenza. Perché questa resistenza abbia forza, credo debbano esserci due condizioni:
1) forte solidarietà trans-nazionale tra le varie comunità e tra i vari movimenti;
2) totale indipendenza dagli organi dello stato nazionale, in particolare dai suoi addentellati partitici/sindacali/elettorali/istituzionali.
PS Poniamo che la presa del potere a
livello nazionale abbia una possibilità su un milione. Ti concedo
che la prospettiva "internazionalista" ne abbia una su tre
milioni. Praticamente, che cambia? Sono entrambe fantascientifiche.
Solo che la prima, a mio avviso, è un vicolo cieco, la seconda no.
FT: Infatti, il punto è che purtroppo sembra che non esista possibilità alcuna di cambiare veramente le cose. In base a qualche elucubrazione, qualcosa può apparire come vicolo cieco oppure no. Ma il punto è che non esiste possibilità alcuna. Il fatto è che, se siamo sinceri, dobbiamo ammettere che la classe dominante ha saputo unirsi. Nonostante divisioni, lotte intestine etc... ha saputo trovare un terreno comune, intorno al quale costruire un sistema condiviso (il che naturalmente non esclude che esistano fratture, battaglie, guerre).
E quindi, forse correttamente, pensi che l'unica strada sia quella di unire le forze dei dominati, contro i dominanti. Ma dubito che sia un tragitto che si possa realmente percorrere.
Guarda, facciamo un esempio banale: non riescono nemmeno a mettersi insieme le 16/17 squadre di serie A che non contano nulla, contro le 3/4 che contano. E' un caso interessantissimo, purtroppo. Se facessero "cartello", le 16/17 ricaverebbero tutte un grande vantaggio. Ma appena una di loro prova a costruire un po' di consenso su dei cambiamenti, le 3/4 reagiscono, e col loro potere, con concessioni e favori, distruggono l'unità creata.
Cambieremo il Mondo quando il Sassuolo vincerà lo scudetto.
CM: Oh! È proprio la mancanza di questa sincerità che critico in molti autori "anti-sistema"! Mancanza di sincerità accompagnata da wishful-thinking “crollista”. Io credo che fra i pre-requisiti dell'essere "rivoluzionari" sia convincersi del fatto che le classi dominanti la sanno lunga, ma davvero lunga, e che l'ultima cosa che faranno sarà permettere a dei pirla come noi di prevalere.
L'esempio che prendi è perfetto. È una conseguenza dell'effetto band-wagoning: la prima cosa che passa per la testa del debole non è diventare forte unendosi ad altri deboli, ma proteggere la propria debolezza affiliandosi a qualche soggetto forte. Ci sono anche casi più estremi della serie A: 180 stati nel mondo non riescono a coalizzarsi contro uno solo, gli USA...
Detto ciò, io studio la storia e l'attualità del medio oriente. Da questo studio ho tratto la convinzione che i miracoli esistono. Quel che sta accedendo ora in Iraq, per fare un esempio, è semplicemente miracoloso. Faremo miracoli? Probabilmente no. Però conserveremo la soddisfazione di non esserci resi complici di questo schifo di realtà.
FT: Su questo hai ragione: non possiamo essere complici. Il brutto è che poi tendono ad asfaltarti... temo che in Iraq sia questione di tempo...
MB: aggiungo anche il mio illuminato parere, visto che non sono intervenuto finora:
1.Probabile che la fase "neoliberista-globalizzata" del capitalismo sia entrata in una crisi senza uscita, e si stia lentamente, e sulla nostra pelle, elaborando una nuova forma del dominio capitalistico.
2.Probabile che questa nuova forma presenterà "grandi spazi" in competizione (economica, politica e militare).
3.Proprio questa configurazione potrebbe però riaprire spazi all'agire di uno Stato-nazione nel quale le forze antisistemiche siano arrivate al potere. In estrema sintesi, un tale Stato potrebbe giocare sulle rivalità fra i grandi centri di potere in competizione fra loro. L'analogia storica che ho in mente è quella del movimento dei paesi non allineati al tempo della guerra fredda, o del Vietnam che riuscì ad essere equidistante fra Russia e Cina, e a farsi aiutare da entrambi nella lotta contro gli USA, quando Russia e Cina si prendevano a cannonate sull'Ussuri (se ricordo bene).
Utopia per utopia....
CM: quella che tu indichi non è affatto un'utopia, ma la realtà odierna dei rapporti internazionali. Fuori dai grandi blocchi ci sono già oggi stati che praticano la politica dei due forni: un po' con gli USA, un po' con Russia-Cina. È la realtà di Iran, Arabia Saudita, a tratti persino Israele, Pakistan, il Viet Nam di oggi, molti stati africani, il Brasile...
Il punto è che lo "spazio di manovra" garantito dall'equidistanza, oltre a esporre a rischi chi lo pratica, non equivale alla possibilità di praticare politiche anti-capitalistiche. Infatti, nessuno degli stati citati fa un passo in quella direzione: nessuno si azzarda a mettere in discussione il mercato mondiale. Che destreggiarsi tra grandi potenze capitalistiche dia luogo alla possibilità di implementare politiche anti-capitalistiche è tutto da dimostrare.
MB: D'accordo, quindi la proposta di una politica dei due o tre forni non è utopica, anche nella realtà attuale. Il lato utopico sta nell'idea che in uno Stato arrivino al potere forze antisistemiche...
FT: Infatti, il punto è che purtroppo sembra che non esista possibilità alcuna di cambiare veramente le cose. In base a qualche elucubrazione, qualcosa può apparire come vicolo cieco oppure no. Ma il punto è che non esiste possibilità alcuna. Il fatto è che, se siamo sinceri, dobbiamo ammettere che la classe dominante ha saputo unirsi. Nonostante divisioni, lotte intestine etc... ha saputo trovare un terreno comune, intorno al quale costruire un sistema condiviso (il che naturalmente non esclude che esistano fratture, battaglie, guerre).
E quindi, forse correttamente, pensi che l'unica strada sia quella di unire le forze dei dominati, contro i dominanti. Ma dubito che sia un tragitto che si possa realmente percorrere.
Guarda, facciamo un esempio banale: non riescono nemmeno a mettersi insieme le 16/17 squadre di serie A che non contano nulla, contro le 3/4 che contano. E' un caso interessantissimo, purtroppo. Se facessero "cartello", le 16/17 ricaverebbero tutte un grande vantaggio. Ma appena una di loro prova a costruire un po' di consenso su dei cambiamenti, le 3/4 reagiscono, e col loro potere, con concessioni e favori, distruggono l'unità creata.
Cambieremo il Mondo quando il Sassuolo vincerà lo scudetto.
CM: Oh! È proprio la mancanza di questa sincerità che critico in molti autori "anti-sistema"! Mancanza di sincerità accompagnata da wishful-thinking “crollista”. Io credo che fra i pre-requisiti dell'essere "rivoluzionari" sia convincersi del fatto che le classi dominanti la sanno lunga, ma davvero lunga, e che l'ultima cosa che faranno sarà permettere a dei pirla come noi di prevalere.
L'esempio che prendi è perfetto. È una conseguenza dell'effetto band-wagoning: la prima cosa che passa per la testa del debole non è diventare forte unendosi ad altri deboli, ma proteggere la propria debolezza affiliandosi a qualche soggetto forte. Ci sono anche casi più estremi della serie A: 180 stati nel mondo non riescono a coalizzarsi contro uno solo, gli USA...
Detto ciò, io studio la storia e l'attualità del medio oriente. Da questo studio ho tratto la convinzione che i miracoli esistono. Quel che sta accedendo ora in Iraq, per fare un esempio, è semplicemente miracoloso. Faremo miracoli? Probabilmente no. Però conserveremo la soddisfazione di non esserci resi complici di questo schifo di realtà.
FT: Su questo hai ragione: non possiamo essere complici. Il brutto è che poi tendono ad asfaltarti... temo che in Iraq sia questione di tempo...
MB: aggiungo anche il mio illuminato parere, visto che non sono intervenuto finora:
1.Probabile che la fase "neoliberista-globalizzata" del capitalismo sia entrata in una crisi senza uscita, e si stia lentamente, e sulla nostra pelle, elaborando una nuova forma del dominio capitalistico.
2.Probabile che questa nuova forma presenterà "grandi spazi" in competizione (economica, politica e militare).
3.Proprio questa configurazione potrebbe però riaprire spazi all'agire di uno Stato-nazione nel quale le forze antisistemiche siano arrivate al potere. In estrema sintesi, un tale Stato potrebbe giocare sulle rivalità fra i grandi centri di potere in competizione fra loro. L'analogia storica che ho in mente è quella del movimento dei paesi non allineati al tempo della guerra fredda, o del Vietnam che riuscì ad essere equidistante fra Russia e Cina, e a farsi aiutare da entrambi nella lotta contro gli USA, quando Russia e Cina si prendevano a cannonate sull'Ussuri (se ricordo bene).
Utopia per utopia....
CM: quella che tu indichi non è affatto un'utopia, ma la realtà odierna dei rapporti internazionali. Fuori dai grandi blocchi ci sono già oggi stati che praticano la politica dei due forni: un po' con gli USA, un po' con Russia-Cina. È la realtà di Iran, Arabia Saudita, a tratti persino Israele, Pakistan, il Viet Nam di oggi, molti stati africani, il Brasile...
Il punto è che lo "spazio di manovra" garantito dall'equidistanza, oltre a esporre a rischi chi lo pratica, non equivale alla possibilità di praticare politiche anti-capitalistiche. Infatti, nessuno degli stati citati fa un passo in quella direzione: nessuno si azzarda a mettere in discussione il mercato mondiale. Che destreggiarsi tra grandi potenze capitalistiche dia luogo alla possibilità di implementare politiche anti-capitalistiche è tutto da dimostrare.
MB: D'accordo, quindi la proposta di una politica dei due o tre forni non è utopica, anche nella realtà attuale. Il lato utopico sta nell'idea che in uno Stato arrivino al potere forze antisistemiche...
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sabato 4 gennaio 2014
Screpanti su imperialismo e crisi
Ernesto Screpanti, L'imperialismo globale e la grande crisi
(liberamente scaricabile all'indirizzo
http://www.deps.unisi.it/it/ricerca/pubblicazioni-deps/collana-del-dipartimento/14-limperialismo-globale-e-la-grande-crisi )
Ripubblico qui una mia recensione al libro di Screpanti apparsa nell'ultimo numero di "Alternative per il socialismo" (n.29, dicembre 13-gennaio 14, pagg.207-209). Aggiungo alla fine della recensione ulteriori brevi considerazioni che per motivi di spazio non ho potuto inserire nella recensione stessa.
(M.B.)
Ernesto Screpanti ha scritto un testo ambizioso ed estremamente ricco, che suggerisce molti sentieri di indagine. Al suo interno si possono trovare, fra le altre cose, una discussione delle teorie moderne dell'imperialismo, una ricostruzione/interpretazione della recente crisi economica (nei suoi aspetti sia fenomenici sia sostanziali), una accurata critica di alcuni dei luoghi comuni del “pensiero unico” neoliberista.
Nell'impossibilità di approfondire tutti questi aspetti, cerchiamo di evidenziare la tesi centrale del libro. Essa è apertamente dichiarata dall'autore: si tratta del fatto che “con la globalizzazione contemporanea sta prendendo forma un tipo d’imperialismo che è fondamentalmente diverso da quello affermatosi nell’Ottocento e nel Novecento” (pag. 7). Screpanti individua vari aspetti di questa novità dell'attuale “imperialismo globale”. La principale innovazione, fra quelle individuate da Screpanti, mi sembra essere il venir meno del legame fra capitalismo e Stato-nazione. Il grande capitale si pone al disopra dello Stato nazionale, e ha con esso una relazione strumentale ma anche conflittuale. Cerchiamo di capire entrambi i lati di questo rapporto. Il rapporto è strumentale in quanto il capitale cerca pur sempre di piegare lo Stato ai propri interessi. Gli Stati hanno ancora delle funzioni importanti da svolgere, nello schema teorico proposto da Screpanti. Si tratta della funzione di banchiere globale (colui che produce “moneta internazionale in quantità crescente, in modo da sostenere un continuo aumento del volume delle transazioni reali e finanziarie”, pag.82), di motore dell'accumulazione globale (“una grande economia nazionale capace di trascinare, con le proprie importazioni, le esportazioni e la produzione di tutti i paesi“, ibidem) e di sceriffo globale (“per far sì che i processi bellici servano a sottomettere i paesi periferici recalcitranti alla penetrazione del capitale senza acuire le rivalità tra i paesi avanzati, è necessario che le forze armate di un paese dominante abbiano sviluppato una potenza tale da scoraggiare ogni velleità vetero-imperiale degli altri paesi”, ibidem). Gli USA hanno assolto queste tre funzioni per tutta una fase storica, e appare facile capire, come Screpanti sottolinea, che le sempre maggiori difficoltà incontrate dal paese egemone nell'assolverle sono una della radici profonde delle tensioni geopolitiche attuali.
Nell'analisi di Screpanti il grande capitale utilizza i grandi Stati-nazione essenzialmente per assolvere queste funzioni. Non si ha dunque, nella sua impostazione, la dissoluzione degli Stati ad opera di un Impero mondiale. Si ha però, come abbiamo detto, un rapporto conflittuale. Infatti, nel nuovo capitalismo globale “i soggetti dominanti sono le grandi imprese multinazionali e le leggi di regolazione dell’equilibrio sociale sono quelle del mercato” (pag.231). Ma questa realtà si rivela incompatibile con il ruolo di “capitalista collettivo nazionale” svolto in passato dallo Stato-nazione, ruolo che implica qualche tipo di compromesso di classe fra ceti dominanti e ceti subalterni. L'esempio ovvio è rappresentato dalla fase “keynesiano-fordista” del secondo dopoguerra. La crisi del “compromesso fordista”, che si protrae lungo gli anni Settanta del Novecento, porta alla configurazione attuale del capitalismo “globalizzato”, nel quale la libera circolazione dei capitali e la concorrenza di tutti contro tutti nel mondo del lavoro hanno come inevitabile conseguenza l'abbattimento di tutte le conquiste ottenute dai ceti subalterni nella fase “keynesiano-fordista”. Ma con la riduzione della quota-salari nei paesi avanzati si abbatte la domanda aggregata e quindi, secondo le classiche analisi keynesiane, si deprime l'economia.
(liberamente scaricabile all'indirizzo
http://www.deps.unisi.it/it/ricerca/pubblicazioni-deps/collana-del-dipartimento/14-limperialismo-globale-e-la-grande-crisi )
Ripubblico qui una mia recensione al libro di Screpanti apparsa nell'ultimo numero di "Alternative per il socialismo" (n.29, dicembre 13-gennaio 14, pagg.207-209). Aggiungo alla fine della recensione ulteriori brevi considerazioni che per motivi di spazio non ho potuto inserire nella recensione stessa.
(M.B.)
Ernesto Screpanti ha scritto un testo ambizioso ed estremamente ricco, che suggerisce molti sentieri di indagine. Al suo interno si possono trovare, fra le altre cose, una discussione delle teorie moderne dell'imperialismo, una ricostruzione/interpretazione della recente crisi economica (nei suoi aspetti sia fenomenici sia sostanziali), una accurata critica di alcuni dei luoghi comuni del “pensiero unico” neoliberista.
Nell'impossibilità di approfondire tutti questi aspetti, cerchiamo di evidenziare la tesi centrale del libro. Essa è apertamente dichiarata dall'autore: si tratta del fatto che “con la globalizzazione contemporanea sta prendendo forma un tipo d’imperialismo che è fondamentalmente diverso da quello affermatosi nell’Ottocento e nel Novecento” (pag. 7). Screpanti individua vari aspetti di questa novità dell'attuale “imperialismo globale”. La principale innovazione, fra quelle individuate da Screpanti, mi sembra essere il venir meno del legame fra capitalismo e Stato-nazione. Il grande capitale si pone al disopra dello Stato nazionale, e ha con esso una relazione strumentale ma anche conflittuale. Cerchiamo di capire entrambi i lati di questo rapporto. Il rapporto è strumentale in quanto il capitale cerca pur sempre di piegare lo Stato ai propri interessi. Gli Stati hanno ancora delle funzioni importanti da svolgere, nello schema teorico proposto da Screpanti. Si tratta della funzione di banchiere globale (colui che produce “moneta internazionale in quantità crescente, in modo da sostenere un continuo aumento del volume delle transazioni reali e finanziarie”, pag.82), di motore dell'accumulazione globale (“una grande economia nazionale capace di trascinare, con le proprie importazioni, le esportazioni e la produzione di tutti i paesi“, ibidem) e di sceriffo globale (“per far sì che i processi bellici servano a sottomettere i paesi periferici recalcitranti alla penetrazione del capitale senza acuire le rivalità tra i paesi avanzati, è necessario che le forze armate di un paese dominante abbiano sviluppato una potenza tale da scoraggiare ogni velleità vetero-imperiale degli altri paesi”, ibidem). Gli USA hanno assolto queste tre funzioni per tutta una fase storica, e appare facile capire, come Screpanti sottolinea, che le sempre maggiori difficoltà incontrate dal paese egemone nell'assolverle sono una della radici profonde delle tensioni geopolitiche attuali.
Nell'analisi di Screpanti il grande capitale utilizza i grandi Stati-nazione essenzialmente per assolvere queste funzioni. Non si ha dunque, nella sua impostazione, la dissoluzione degli Stati ad opera di un Impero mondiale. Si ha però, come abbiamo detto, un rapporto conflittuale. Infatti, nel nuovo capitalismo globale “i soggetti dominanti sono le grandi imprese multinazionali e le leggi di regolazione dell’equilibrio sociale sono quelle del mercato” (pag.231). Ma questa realtà si rivela incompatibile con il ruolo di “capitalista collettivo nazionale” svolto in passato dallo Stato-nazione, ruolo che implica qualche tipo di compromesso di classe fra ceti dominanti e ceti subalterni. L'esempio ovvio è rappresentato dalla fase “keynesiano-fordista” del secondo dopoguerra. La crisi del “compromesso fordista”, che si protrae lungo gli anni Settanta del Novecento, porta alla configurazione attuale del capitalismo “globalizzato”, nel quale la libera circolazione dei capitali e la concorrenza di tutti contro tutti nel mondo del lavoro hanno come inevitabile conseguenza l'abbattimento di tutte le conquiste ottenute dai ceti subalterni nella fase “keynesiano-fordista”. Ma con la riduzione della quota-salari nei paesi avanzati si abbatte la domanda aggregata e quindi, secondo le classiche analisi keynesiane, si deprime l'economia.
giovedì 25 luglio 2013
Dallo Stato sociale allo Stato penale
Nell'ambito del diritto internazionale si definisce la sovranità come
l'elemento giuridico costitutivo di quell'entità che chiamiamo Stato.
"Sovrano" significa, etimologicamente, "che sta sopra". Per essere precisi, ciò che sta più sopra di tutto. La sovranità è un potere supremo, nel preciso senso che, per definizione, non può riconoscere nulla ad di sopra di sé, pena lo smarrimento della propria natura.
"Sovrano" significa, etimologicamente, "che sta sopra". Per essere precisi, ciò che sta più sopra di tutto. La sovranità è un potere supremo, nel preciso senso che, per definizione, non può riconoscere nulla ad di sopra di sé, pena lo smarrimento della propria natura.
Si usa distinguere tra sovranità interna ed esterna. La prima definisce
la relazione tra il potere supremo di cui sopra e i soggetti radicati in
un territorio: questi devono essere, appunto, soggetti (sub-iecti) a quello, altrimenti non
sussiste sovranità. La seconda invece definisce la relazione tra il
potere supremo e gli altri poteri supremi, le altre sovranità. Tra di
esse deve essere vigente un rapporto di reciproca indipendenza e
autonomia, altrimenti non si può davvero distinguere tra le diverse sovranità.
La manifestazione più evidente della sovranità esterna è la sovranità militare (con la sua propaggine diplomatica). La sovranità interna è più complessa. Si compone della sovranità politica, della sovranità giurisdizionale, della sovranità amministrativa... ma le due modalità di espressione più evidenti della sovranità interna sono quella economica e quella punitiva.
Con la sovranità economica lo Stato interviene nelle questioni economiche, ridistribuendo ricchezze e redditi tra le classi, dando impulso alla produzione, rimuovendo storture e inefficienza, dirigendo e indirizzando lo sviluppo del sistema.
Con la sovranità punitiva (o penale) lo Stato si arroga il diritto di infliggere sanzioni ai consociati, privando loro della libertà personale, dei loro beni, in casi estremi della vita stessa.
Non c'è dubbio che la sovranità punitiva sia quella che ha maggiori probabilità di ferire e traumatizzare i consociati. Essa è una manifestazione di forza, e anche quando non trascende in violenza manifesta il volto duro e temibile dello Stato. È senz'altro una forza da mitigare, una prerogativa statale da limitare il più possibile.
Questo in teoria. In pratica, la sovranità punitiva dello Stato non fa che estendersi da almeno trent'anni, in apparente controtendenza con la crisi della sovranità economica. Per rendersi conto della dimensione del fenomeno basta procurarsi Iperincarcerazione, arricchita dalla prefazione di Patrizio Gonnella. Nelle carceri del mondo occidentale assistiamo ad un movimento speculare a quello del Welfare State: più questo si ritira, più quelle si riempono. Siamo ormai passati dallo Stato Sociale allo Stato Penale. E Loiq Wacquant spiega bene il senso del fenomeno: l'espansione carceraria serve da un lato a contenere l'esuberanza degli esiliati dal Welfare State, e dall'altro a rendere appettibile, con l'alternativa della galera, la prospettiva del lavoro precario e sfruttato ai ceti operai e emarginati delle grandi realtà urbane.
Ovviamente il contesto USA, principale focus dell'opera, ha delle sue specificità introvabili nella situazione europea, non foss'altro per le diverse dimensioni del fenomeno. Ma la tendenza è evidente. Lo sgretolamento della sovranità economica lascia il posto ad un incremento tentacolare della sovranità punitiva. Lo Stato nazionale si lascia svuotare delle sue prerogative in campo economico, ma mantiene saldamente la presa sullo strumento repressivo e carcerario, ponendolo al servizio degli interessi delle élites finanziarie che prosperano su quello svuotamento.
Coloro i quali temono, in buona fede, le manifestazioni più ruvide della sovranità, dovrebbero riflettere su questo fenomeno. La sovranità non viene annientata dalla globalizzazione: cambia solamente di segno. Da strumento della emancipazione dei subalterni diventa mezzo per imprigionarli tra i meccanismi della restaurazione neo-liberale. Riflettano quelli che temono il ritorno sulla scena degli Stati nazionali (come se ne fossero mai usciti): l'alternativa non è tra Stato e non-Stato, ma tra Stato Sociale e Stato Penale. La de-nazionalizzazione porta semplicemente all'esaltazione dell'uno a spese dell'altro.
venerdì 12 luglio 2013
Il demenziale liberoscambismo della Sinistra: Brancaccio VS Revelli
All'indomani delle elezioni europee del 2009, la rivista Micromega organizzò una tavolta rotonda sulle sorti di una sinistra radicale che non riusciva ad eleggere nemmeno un deputato. Partecipavano il sociologo Alessandro Dal Lago, il politologo Marco Revelli, e l'economista Emiliano Brancaccio. A quest'ultimo si deve lo spostamento della discussione attorno a temi concreti, più che su rimpianti e vane formule ideologiche. La sua proposta di una concreta politica economica per la Sinistra, imperniata sul blocco dei movimento di capitale, viene respinta da Revelli con soprendente fermezza. Chi conosce Revelli sa che certi toni non gli appartengono. Eppure la semplice proposta di Brancaccio viene bollata di nazionalismo, di ritorno al passato, di essere di destra, di occhieggiare a valori e simbologie razziste... insomma, se sei per il blocco dei movimenti di capitale sei xenofobo.
Questa chiusura a riccio, da parte di un intellettuale che ha avuto e ha una non trascurabile influenza negli ambienti della Sinistra, aiuta a capire perché quest'ultima è morta e sepolta. Queste persone hanno completamente perduto ogni riferimento "di classe". Non sono in grado di percepire cosa minaccia i lavoratori (nel caso, l'apertura dei mercati), non sono comunque disposti a farvi fronte, e di conseguenza i lavoratori non li votano più. As simple as that. Al posto dell'analisi dei rapporti di forza tra le classi, e della difesa politica degli interessi dei ceti di riferimento, la Sinistra ha abbracciato vuoti concetti, parole d'ordine astratte, dimostrando anche una sorprendente rigidità (per non dire pigrizia) intellettuale.
Ha vinto Revelli insomma, e la Sinistra è morta. Si vede che era destino. Certo, se avesse "vinto" Brancaccio... ma ora godetevi questo scambio. Vi assicuro, è imperdibile. Ho ritagliato le parti più interessanti. Chi vuole leggere l'originale lo trova qui. (C.M.)
Questa chiusura a riccio, da parte di un intellettuale che ha avuto e ha una non trascurabile influenza negli ambienti della Sinistra, aiuta a capire perché quest'ultima è morta e sepolta. Queste persone hanno completamente perduto ogni riferimento "di classe". Non sono in grado di percepire cosa minaccia i lavoratori (nel caso, l'apertura dei mercati), non sono comunque disposti a farvi fronte, e di conseguenza i lavoratori non li votano più. As simple as that. Al posto dell'analisi dei rapporti di forza tra le classi, e della difesa politica degli interessi dei ceti di riferimento, la Sinistra ha abbracciato vuoti concetti, parole d'ordine astratte, dimostrando anche una sorprendente rigidità (per non dire pigrizia) intellettuale.
Ha vinto Revelli insomma, e la Sinistra è morta. Si vede che era destino. Certo, se avesse "vinto" Brancaccio... ma ora godetevi questo scambio. Vi assicuro, è imperdibile. Ho ritagliato le parti più interessanti. Chi vuole leggere l'originale lo trova qui. (C.M.)
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