venerdì 12 luglio 2013

Il demenziale liberoscambismo della Sinistra: Brancaccio VS Revelli

All'indomani delle elezioni europee del 2009, la rivista Micromega organizzò una tavolta rotonda sulle sorti di una sinistra radicale che non riusciva ad eleggere nemmeno un deputato. Partecipavano il sociologo Alessandro Dal Lago, il politologo Marco Revelli, e l'economista Emiliano Brancaccio. A quest'ultimo si deve lo spostamento della discussione attorno a temi concreti, più che su rimpianti e vane formule ideologiche. La sua proposta di una concreta politica economica per la Sinistra, imperniata sul blocco dei movimento di capitale, viene respinta da Revelli con soprendente fermezza. Chi conosce Revelli sa che certi toni non gli appartengono. Eppure la semplice proposta di Brancaccio viene bollata di nazionalismo, di ritorno al passato, di essere di destra, di occhieggiare a valori e simbologie razziste... insomma, se sei per il blocco dei movimenti di capitale sei xenofobo. 

Questa chiusura a riccio, da parte di un intellettuale che ha avuto e ha una non trascurabile influenza negli ambienti della Sinistra, aiuta a capire perché quest'ultima è morta e sepolta. Queste persone hanno completamente perduto ogni riferimento "di classe". Non sono in grado di percepire cosa minaccia i lavoratori (nel caso, l'apertura dei mercati), non sono comunque disposti a farvi fronte, e di conseguenza i lavoratori non li votano più. As simple as that. Al posto dell'analisi dei rapporti di forza tra le classi, e della difesa politica degli interessi dei ceti di riferimento, la Sinistra ha abbracciato vuoti concetti, parole d'ordine astratte, dimostrando anche una sorprendente rigidità (per non dire pigrizia) intellettuale.

Ha vinto Revelli insomma, e la Sinistra è morta. Si vede che era destino. Certo, se avesse "vinto" Brancaccio... ma ora godetevi questo scambio. Vi assicuro, è imperdibile. Ho ritagliato le parti più interessanti. Chi vuole leggere l'originale lo trova qui. (C.M.)


Emiliano Brancaccio: (...) credo che per affrontare correttamente un discorso su quale futuro attenda la sinistra in Italia occorra sviluppare una breve analisi preliminare.
Il dato da cui penso sia necessario partire è che le ultime elezioni hanno confermato una tendenza già ben visibile da molti anni: i lavoratori subordinati – soprattutto i lavoratori con minori tutele che operano nel settore privato e con mansioni esecutive – hanno da tempo abbandonato i partiti socialisti e comunisti, cioè i partiti eredi più o meno legittimi della tradizione del movimento operaio, e hanno indirizzato sempre di più il loro voto verso le destre, specialmente verso le destre populiste. Questa tendenza è in atto in Europa e in Italia da circa un quarto di secolo, e non sembra minimamente arrestarsi. Anzi, secondo i dati di cui disponiamo, pare addirittura che stia rafforzandosi.
Ora, questi stessi lavoratori appaiono oggi particolarmente sensibili alle rivendicazioni legate alla difesa degli interessi territoriali e nazionali. Potremmo dire che nella loro visione il vecchio conflitto di classe svanisce, e viene soppiantato dal conflitto territoriale. Questo spostamento delle rivendicazioni dalla classe al territorio si compie in modo istintivo, ma non è né casuale né irrazionale. Questi lavoratori infatti percepiscono che l’apertura internazionale dei mercati e la conseguente maggiore circolazione mondiale dei capitali, delle merci e in parte anche dei lavoratori – in una parola la cosiddetta «globalizzazione capitalistica» – ha alimentato una guerra sempre più feroce tra i lavoratori. È una guerra mondiale tra poveri che deteriora le condizioni di lavoro, intensifica lo sfruttamento, comprime i salari e lo stato sociale, e crea quindi anche i presupposti per la crisi economica.
Ebbene, per difendersi da questa guerra i lavoratori evidentemente cercano risposte politiche. E bisogna ammettere che al momento essi trovano risposte soltanto a destra. Infatti, soprattutto a seguito della crisi, le destre (non soltanto le destre populiste e xenofobe, anche le destre tradizionalmente conservatrici) hanno accentuato i loro propositi di difesa dei capitali nazionali, si sono votate al protezionismo commerciale e hanno sempre di più insistito sul blocco dell’immigrazione quale valida risposta al conflitto tra i lavoratori che viene oggettivamente alimentato dalla globalizzazione.
Ora, è noto che una classica alternativa di sinistra al blocco dell’immigrazione consiste nel blocco dei movimenti di capitale. Vincolare questi movimenti significa infatti impedire ai capitali di scorrazzare liberamente da un capo all’altro del mondo a caccia dei massimi rendimenti, cioè delle maggiori possibilità di sfruttamento del lavoro. Significa quindi impedire ai capitali di mettere in sfrenata concorrenza i lavoratori a livello globale. Il problema è che oggi si parla di continuo di blocco dell’immigrazione ma non si spende nemmeno una parola sul blocco dei movimenti di capitale. E questo silenzio è uno dei numerosi sintomi della situazione di totale «imbambolamento» nel quale versano le sinistre.
Ma perché c’è questo silenzio? Come si spiega questo imbambolamento? Riguardo ai partiti socialisti europei, la risposta a mio avviso è che essi in questi anni non hanno semplicemente assecondato la globalizzazione capitalistica. In Europa i socialisti sono stati i principali fautori dell’apertura dei mercati. E hanno cercato di giustificare questo loro pieno sostegno alla globalizzazione sulla base di un totale travisamento dei fatti. Alcuni esponenti del socialismo europeo sono stati addirittura capaci di spacciare l’odierno internazionalismo del capitale (l’odierna apertura dei mercati) come una variante aggiornata del vecchio internazionalismo operaio (cioè del solidarismo internazionale che caratterizzava il movimento dei lavoratori). E invece bisognerebbe ricordare che i due movimenti sono in irriducibile conflitto, poiché se esiste l’internazionalismo del capitale allora la competizione globale tra lavoratori si intensifica e quindi l’internazionalismo operaio inevitabilmente deperisce e muore. Per quanto riguarda poi le sinistre comuniste, anticapitaliste e cosiddette «radicali», abbiamo troppo spesso assistito a comportamenti grotteschi, dettati da ignoranza e furbizia. Nel periodo di massimo splendore del movimento altermondialista, vi fu in effetti l’opportunità di lanciare una reale sfida per l’egemonia ai partiti socialisti, che all’epoca celebravano entusiasti le grandi virtù del liberismo. Accadde invece che ci si perse attorno a una serie di proposte folkloristiche e risibili, come ad esempio quella di contrastare la globalizzazione creando piccole comunità di autoproduzione e autoconsumo, magari nel nostro quartierino.
Ecco, secondo me in quella fase si sono perdute delle occasioni importanti. E in parte ciò è dipeso anche dal fatto che i gruppi dirigenti della sinistra «radicale» non hanno mostrato alcun interesse verso la possibilità di fare piazza pulita del folklore, per contendere realmente l’egemonia ai partiti socialisti. Invece sono apparsi più interessati a tenersi le mani libere per conquistare di tanto in tanto qualche contentino, qualche prebenda da quegli stessi partiti. Dunque, se i dirigenti della sinistra «radicale» se ne devono andare, un buon motivo per farlo è che hanno avuto delle occasioni storiche e le hanno malamente sprecate. 

Marco Revelli:  Dico subito che sono in radicale dissenso con quanto ha appena detto Brancaccio. In particolare sull’affermazione secondo la quale la chiusura dell’azione politica – e in particolare delle politiche economiche – entro i confini dello stato nazionale avrebbe potuto rappresentare la risposta vincente di una sinistra radicale rispetto alla resa delle sinistre socialiste e tradizionali alla globalizzazione e al liberismo.
Io non credo che si possa inseguire la destra sul terreno della rinazionalizzazione del confronto e del conflitto. Non è un caso che buona parte delle destre, anche quelle che sono state iperliberiste fino a ieri, riscoprano la dimensione nazionale. Certo, è una logica che forse paga dal punto di vista elettorale, ma è un dato di fatto che i neonazionalismi o i neoregionalismi abbiano tutti un segno di destra, siano ispirati da logiche di recinzione dell’identità, di costruzione più o meno artificiale di un «noi», di un’identità collettiva che si esprime nel rifiuto dei flussi provenienti dall’esterno, dell’«altro» in ogni suo aspetto, in primo luogo dei flussi di persone, di migranti, ma poi anche dei flussi di capitale.
Non credo che si possa inseguire su quel terreno la destra perché ogni volta che si sono affermate logiche di recinzione nazionalistica, protezionistica, incentrate sull’identità nazionale, si è aperta la strada a soluzioni catastrofiche dal punto di vista politico: a dinamiche aggressive, belliciste, autoreferenziali, di cui il nazionalsocialismo è stata l’espressione estrema e più abominevole.
A me preoccupa moltissimo il segno con cui si stanno connotando le dinamiche politiche nella crisi; mi preoccupa moltissimo l’atteggiamento che una parte del mondo del lavoro sta assumendo nella ricerca di politiche di difesa. E che la questione della «difesa sociale» di quello che è stato il tradizionale insediamento di massa della sinistra, cioè del «mondo del lavoro», non sia una priorità assoluta. Una sfida per molti aspetti drammatica, e oggi in gran parte perduta. Rifiuto però nettamente l’idea che ciò possa passare attraverso una rinazionalizzazione del conflitto e della politica. Cioè attraverso un forzato e artificiale ritorno alle condizioni del secolo scorso, quello che a buona ragione poté effettivamente essere definito il «secolo del lavoro».

E.B.  È positivo che Revelli abbia espresso il proprio dissenso in maniera netta. I grandi problemi di fronte ai quali ci troviamo hanno bisogno di prese di posizione chiare, e la mia posizione è alternativa rispetto a quelle da tempo sostenute da Revelli.(...)  Dunque il punto di fondo è questo: se noi continuiamo a manifestare una certa pruderie, una certa inquietudine nei confronti della proposta di bloccare i capitali e di ridurre l’apertura dei mercati, rischiamo di cadere in un equivoco colossale. Mi spiego: io sostengo che un’epoca di rinnovata coesione e protagonismo del movimento dei lavoratori a livello globale, un’epoca di nuovo «internazionalismo operaio», potrà fiorire solo in seguito a un processo di rinnovata segmentazione e divisione dei mercati, partendo dai mercati finanziari per arrivare eventualmente anche ai mercati delle merci.
Quando si dice di temere una «deriva nazionalista» secondo me si cade in un equivoco, perché occorre riconoscere che sul piano storico il movimento dei lavoratori si sviluppa a livello internazionale proprio in relazione a dei processi di segmentazione e di irrigidimento dei mercati finanziari e delle merci, non certo grazie a una loro apertura. Quando si è verificato un processo di apertura globale dei mercati finanziari e delle merci, la competizione è diventata sfrenata e il movimento internazionale dei lavoratori ha ripiegato su se stesso, fino a implodere. 

M.R.  I termini del dissenso con Brancaccio si sono fatti espliciti. È un dissenso molto forte, molto netto, molto polarizzato.(...)  continuo a essere convinto che la segmentazione su base nazionale dei mercati, come Brancaccio la propone, sia un’operazione devastante, in primo luogo per quanto riguarda la ricaduta di ciò sulle «culture politiche» implicate nell’operazione, e sugli atteggiamenti di massa, le dinamiche simboliche, le mentalità collettive che dovrebbero necessariamente essere mobilitate in quest’operazione di intervento massiccio sulle strutture economiche e finanziarie. Risegmentare mercati che si sono integrati significa costruire barriere, fratture, confini attraverso l’impiego di valori simbolici aggressivi, perché la rinazionalizzazione implica identità omogenee, coese, territorialmente radicate e obiettivamente fascistoidi. Vuol dire un impiego massiccio della logica «amico-nemico», l’invenzione di una qualche tradizione e di una qualche antitesi negativa, un’alterità attraverso cui simbolizzare un esterno che non c’è più, ma di cui c’è necessità se si vuole «recintare» il noi…
Il tentativo di ricondurre a logiche nazionali il primo processo di globalizzazione ha prodotto veleni a destra e a sinistra: ha prodotto il nazismo e la degenerazione della rivoluzione russa in nazionalbolscevismo. Sono assolutamente terrorizzato dall’esito che potrebbero avere tentativi di questo tipo oggi, con la potenza assunta dagli apparati di comunicazione.
Io credo che alla globalizzazione un merito possa essere riconosciuto. Non sono fra quelli che l’hanno criticata e contrastata in tutti i suoi aspetti: l’apertura dei confini asfittici delle dimensioni nazionali è stata a mio avviso un vantaggio per l’umanità. Pone ovviamente dei giganteschi problemi di governance, di gestione politica del processo, ma non possiamo rifiutare queste opportunità e queste prospettive in quanto tali.
La sinistra non è stata capace di nuotare in questo nuovo mare senza andare a ricercare ricette vecchie, ricette novecentesche. Cerchiamo di evitare che naufraghi l’intera, fragile, umanità presente e futura.

E.B.  La posizione di Revelli è sbagliata. Ed è una posizione, io dico, superata, nel senso che la traccia sviluppata da Revelli ha ispirato negli ultimi anni tutta una serie di ricerche teoriche e iniziative politiche che sono state al centro del dibattito e non mi pare che abbiano dato risultati particolarmente positivi. C’è una generica propensione globalista da parte della sinistra cosiddetta radicale che è il frutto di uno spaventoso equivoco, equivoco in cui lo stesso Revelli mi pare cada pesantemente.
Nel momento in cui si accetta l’impianto interpretativo proposto da Revelli e sostenuto da numerosi, vecchi esponenti della sinistra radicale, il flusso di voti dei lavoratori e delle fasce popolari che si indirizza verso la destra – soprattutto quella populista e xenofoba – è destinato a diventare inarrestabile. (...)
insisto sul punto che ho introdotto nel mio primo intervento. Se noi vogliamo trovare una credibile alternativa di sinistra al blocco dell’immigrazione che la destra propone con tanto successo in questa fase, allora dobbiamo proporre un altro tipo di blocco, che sia innanzitutto blocco dei movimenti di capitale. In estrema sintesi, io dico: se vogliamo «liberare» i migranti, dobbiamo «arrestare» i capitali. Se invece insistiamo su una concezione tutto sommato favorevole al globalismo, temendo che un approccio alternativo possa essere foriero di chissà quali pericoli nazionalisti e guerrafondai, secondo me ribaltiamo in modo del tutto erroneo i termini del problema: cioè non ci rendiamo conto che il blocco dei capitali è proprio la necessaria risposta di sinistra a un futuro di violenza nazionalista, fascista e guerrafondaia verso il quale stiamo drammaticamente scivolando.

 

17 commenti:

  1. come se i Turchi che hanno comprato la Pernigotti fossero usciti da un CIE......

    RispondiElimina
  2. E' evidente dalle sue parole, che Revelli ne fa una questione culturale generale, rifiutandosi di cogliere gli aspetti effettivi della situazione esistente e della natura stessa della globalizzazione.
    E' molto significativo che egli dica che non bisogna inseguire la destra, senza apparentemente rendersi conto che la destra non potrebbe mai essere coerenteemnte per la chiusura dei mercati e la riduzione drastica del commercio mondiale, o forse non siamo d'accordo con Revelli su cosa sia la destra oggi. A me pare che la destra sia quella che domina, quella che ha creato la crisi economica in cui ci troviamo e che tenta (vanamente a mio parere) di uscirne facendone pagare i costi alle classi meno abbienti, e credo che Revelli avrebbe da obiettare su questo (la Le Pen più pericolosa di Draghi???).
    Invece di stabilire chi insegue chi, non sarebbe il caso di chiedersi umilmente cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, possibile che dobbiamo rimanere totalmente prigionieri dei fantasmi del novecento, senza capire come la borghesia ha totalmente capovolto il suo patrimonio valoriale e si trova ora meglio attrezzata per dominare e sfruttare?

    RispondiElimina
  3. Rigoroso e chiaro Brancaccio, come sempre. Revelli è solo un chiacchierone, una cariatide sopravvalutata (indubbiamente rappresentativa della finta "sinistra" liberoscambista, ormai autodistrutta). Mino

    RispondiElimina
  4. Davvero ottimo brancaccio qui, l'ho apprezzato davvero! :)

    RispondiElimina
  5. La cosa rilevante è che Revelli non dice una parola, una sola parola, su come pensi di uscire dal turbocapitalismo senza smantellare la dittatura plutocratica mondialista.

    RispondiElimina
  6. dittatura plotoche? almeno non usiamo un linguaggio che fa la sponda a ravanelli...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Firmati, per favore. Non ammettiamo commenti anonimi.

      Elimina
  7. Quando le aspirazioni generali non tengono conto delle realtà concrete.
    E questo sarebbe il corifeo del materialismo??
    Mi hanno distrutto mezzo secolo di vita...

    RispondiElimina
  8. i movimenti di capitale che vuole Ravelli son quelli che delocalizzano dove il lavoro costa sempre meno, dalla cina passano al vietnam e bangladesh all'africa, non appena i lavoratori iniziano ad alzare la testa e rivendicare un briciolo della fetta di torta.
    oppure son quelli che comprano marchi italiani famosi senza nessuna garanzia che poi mantengano o incrementino la produzione qua..

    RispondiElimina
  9. Dio mio, se Lenin avesse sentito il discorso di Ravelli gli avrebbe lanciato di siciro un'anatema.
    BY
    IL VILE BRIGANTE

    RispondiElimina
  10. Scusatemi ma si è già parlato di questo? http://www.ispionline.it/articoli/articolo/europa/crisi-delleuro-tassi-bassi-e-riforme-non-bastano TARGET3 al posto di TARGET2...

    RispondiElimina
  11. E chi si è mai dimenticato di Brancaccio. Un uomo di valore che da molti anni combatte per la gente (e non per diventare elite).

    RispondiElimina
  12. lucido, concreto e operativo Brancaccio, chiaccherone, vacuo ed inconcludente Revelli, nessun dubbio
    davidhume

    RispondiElimina
  13. I tipi come Revelli ci hanno devastato le gonadi per decenni con la loro saccenza nonchè presunta superiorità intelletuale. In realtà Revelli, come i suoi epigoni della sinistra cosiddetta radicale, sono solo dei grossi ignoranti che vogliono parlare di cose che non conoscono. All'invero, ignorante lo sono anch'io, tuttavia, ben conscio dei miei limiti, cerco di informarmi e, soprattutto, mi guardo bene dal condurre i miei simili verso il baratro usando abili sofismi intelletuali.

    RispondiElimina
  14. Su Revelli, non vi pare di esagerare? Si può dissentire, è chiaro. Io, ad esempio, nutro dissenso. Ma da qui a definirlo il male della sinistra, maestro di saccenza, ignorante, ce ne passa. E' il metodo sbagliato. Si continuano ad erigere steccati e non si prova a dialogare. Marino Badiale è in controtendenza rispetto a questo atteggiamento. Per fortuna!

    RispondiElimina
  15. se la sinistra insegue le politiche di destra allora l'unica soluzione alle mancate rivoluzioni è come sempre il Fascismo, come afferma Brancaccio!

    RispondiElimina
  16. A proposito di Revelli et similia...

    http://temi.repubblica.it/micromega-online/giu-le-mani-dalla-costituzione/#.Ue_E9Yj5W_0.facebook

    ma questi che " giù le mani dalla costituzione " senza però mai pensare che esista un rapporto diretto tra distruzione della stessa e costruirsi dell' assetto monetario europeo? Questi sanno che sono venti anni che siamo sotto Maastrcht?

    Ci sono o ci fanno?

    Forse chi invocava un' appello agli intellettuali di sinistra e anti-euro non aveva torto. Si vedranno in quanti NON firmeranno, ossia in quanti in realtà non possono difendere la costituzione.

    RispondiElimina