Questa chiusura a riccio, da parte di un intellettuale che ha avuto e ha una non trascurabile influenza negli ambienti della Sinistra, aiuta a capire perché quest'ultima è morta e sepolta. Queste persone hanno completamente perduto ogni riferimento "di classe". Non sono in grado di percepire cosa minaccia i lavoratori (nel caso, l'apertura dei mercati), non sono comunque disposti a farvi fronte, e di conseguenza i lavoratori non li votano più. As simple as that. Al posto dell'analisi dei rapporti di forza tra le classi, e della difesa politica degli interessi dei ceti di riferimento, la Sinistra ha abbracciato vuoti concetti, parole d'ordine astratte, dimostrando anche una sorprendente rigidità (per non dire pigrizia) intellettuale.
Ha vinto Revelli insomma, e la Sinistra è morta. Si vede che era destino. Certo, se avesse "vinto" Brancaccio... ma ora godetevi questo scambio. Vi assicuro, è imperdibile. Ho ritagliato le parti più interessanti. Chi vuole leggere l'originale lo trova qui. (C.M.)
Emiliano Brancaccio: (...) credo che per
affrontare correttamente un discorso su quale futuro attenda la
sinistra in Italia occorra sviluppare una breve analisi preliminare.
Il dato da cui penso
sia necessario partire è che le ultime elezioni hanno confermato una
tendenza già ben visibile da molti anni: i lavoratori subordinati –
soprattutto i lavoratori con minori tutele che operano nel settore
privato e con mansioni esecutive – hanno da tempo abbandonato i
partiti socialisti e comunisti, cioè i partiti eredi più o meno
legittimi della tradizione del movimento operaio, e hanno indirizzato
sempre di più il loro voto verso le destre, specialmente verso le
destre populiste. Questa tendenza è in atto in Europa e in Italia da
circa un quarto di secolo, e non sembra minimamente arrestarsi. Anzi,
secondo i dati di cui disponiamo, pare addirittura che stia
rafforzandosi.
Ora, questi stessi
lavoratori appaiono oggi particolarmente sensibili alle
rivendicazioni legate alla difesa degli interessi territoriali e
nazionali. Potremmo dire che nella loro visione il vecchio conflitto
di classe svanisce, e viene soppiantato dal conflitto territoriale.
Questo spostamento delle rivendicazioni dalla classe al territorio si
compie in modo istintivo, ma non è né casuale né irrazionale.
Questi lavoratori infatti percepiscono che l’apertura
internazionale dei mercati e la conseguente maggiore circolazione
mondiale dei capitali, delle merci e in parte anche dei lavoratori –
in una parola la cosiddetta «globalizzazione capitalistica» – ha
alimentato una guerra sempre più feroce tra i lavoratori. È una
guerra mondiale tra poveri che deteriora le condizioni di lavoro,
intensifica lo sfruttamento, comprime i salari e lo stato sociale, e
crea quindi anche i presupposti per la crisi economica.
Ebbene, per
difendersi da questa guerra i lavoratori evidentemente cercano
risposte politiche. E bisogna ammettere che al momento essi trovano
risposte soltanto a destra. Infatti, soprattutto a seguito della
crisi, le destre (non soltanto le destre populiste e xenofobe, anche
le destre tradizionalmente conservatrici) hanno accentuato i loro
propositi di difesa dei capitali nazionali, si sono votate al
protezionismo commerciale e hanno sempre di più insistito sul blocco
dell’immigrazione quale valida risposta al conflitto tra i
lavoratori che viene oggettivamente alimentato dalla globalizzazione.
Ora, è noto che una
classica alternativa di sinistra al blocco dell’immigrazione
consiste nel blocco dei movimenti di capitale. Vincolare questi
movimenti significa infatti impedire ai capitali di scorrazzare
liberamente da un capo all’altro del mondo a caccia dei massimi
rendimenti, cioè delle maggiori possibilità di sfruttamento del
lavoro. Significa quindi impedire ai capitali di mettere in sfrenata
concorrenza i lavoratori a livello globale. Il problema è che oggi
si parla di continuo di blocco dell’immigrazione ma non si spende
nemmeno una parola sul blocco dei movimenti di capitale. E questo
silenzio è uno dei numerosi sintomi della situazione di totale
«imbambolamento» nel quale versano le sinistre.
Ma perché c’è
questo silenzio? Come si spiega questo imbambolamento? Riguardo ai
partiti socialisti europei, la risposta a mio avviso è che essi in
questi anni non hanno semplicemente assecondato la globalizzazione
capitalistica. In Europa i socialisti sono stati i principali fautori
dell’apertura dei mercati. E hanno cercato di giustificare questo
loro pieno sostegno alla globalizzazione sulla base di un totale
travisamento dei fatti. Alcuni esponenti del socialismo europeo sono
stati addirittura capaci di spacciare l’odierno internazionalismo
del capitale (l’odierna apertura dei mercati) come una variante
aggiornata del vecchio internazionalismo operaio (cioè del
solidarismo internazionale che caratterizzava il movimento dei
lavoratori). E invece bisognerebbe ricordare che i due movimenti sono
in irriducibile conflitto, poiché se esiste l’internazionalismo
del capitale allora la competizione globale tra lavoratori si
intensifica e quindi l’internazionalismo operaio inevitabilmente
deperisce e muore. Per quanto riguarda poi le sinistre comuniste,
anticapitaliste e cosiddette «radicali», abbiamo troppo spesso
assistito a comportamenti grotteschi, dettati da ignoranza e
furbizia. Nel periodo di massimo splendore del movimento
altermondialista, vi fu in effetti l’opportunità di lanciare una
reale sfida per l’egemonia ai partiti socialisti, che all’epoca
celebravano entusiasti le grandi virtù del liberismo. Accadde invece
che ci si perse attorno a una serie di proposte folkloristiche e
risibili, come ad esempio quella di contrastare la globalizzazione
creando piccole comunità di autoproduzione e autoconsumo, magari nel
nostro quartierino.
Ecco, secondo me in
quella fase si sono perdute delle occasioni importanti. E in parte
ciò è dipeso anche dal fatto che i gruppi dirigenti della sinistra
«radicale» non hanno mostrato alcun interesse verso la possibilità
di fare piazza pulita del folklore, per contendere realmente
l’egemonia ai partiti socialisti. Invece sono apparsi più
interessati a tenersi le mani libere per conquistare di tanto in
tanto qualche contentino, qualche prebenda da quegli stessi partiti.
Dunque, se i dirigenti della sinistra «radicale» se ne devono
andare, un buon motivo per farlo è che hanno avuto delle occasioni
storiche e le hanno malamente sprecate.
Marco Revelli:
Dico subito che sono
in radicale dissenso con quanto ha appena detto Brancaccio. In
particolare sull’affermazione secondo la quale la chiusura
dell’azione politica – e in particolare delle politiche
economiche – entro i confini dello stato nazionale avrebbe potuto
rappresentare la risposta vincente di una sinistra radicale rispetto
alla resa delle sinistre socialiste e tradizionali alla
globalizzazione e al liberismo.
Io non credo che si
possa inseguire la destra sul terreno della rinazionalizzazione del
confronto e del conflitto. Non è un caso che buona parte delle
destre, anche quelle che sono state iperliberiste fino a ieri,
riscoprano la dimensione nazionale. Certo, è una logica che forse
paga dal punto di vista elettorale, ma è un dato di fatto che i
neonazionalismi o i neoregionalismi abbiano tutti un segno di destra,
siano ispirati da logiche di recinzione dell’identità, di
costruzione più o meno artificiale di un «noi», di un’identità
collettiva che si esprime nel rifiuto dei flussi provenienti
dall’esterno, dell’«altro» in ogni suo aspetto, in primo luogo
dei flussi di persone, di migranti, ma poi anche dei flussi di
capitale.
Non credo che si
possa inseguire su quel terreno la destra perché ogni volta che si
sono affermate logiche di recinzione nazionalistica, protezionistica,
incentrate sull’identità nazionale, si è aperta la strada a
soluzioni catastrofiche dal punto di vista politico: a dinamiche
aggressive, belliciste, autoreferenziali, di cui il
nazionalsocialismo è stata l’espressione estrema e più
abominevole.
A me preoccupa
moltissimo il segno con cui si stanno connotando le dinamiche
politiche nella crisi; mi preoccupa moltissimo l’atteggiamento che
una parte del mondo del lavoro sta assumendo nella ricerca di
politiche di difesa. E che la questione della «difesa sociale» di
quello che è stato il tradizionale insediamento di massa della
sinistra, cioè del «mondo del lavoro», non sia una priorità
assoluta. Una sfida per molti aspetti drammatica, e oggi in gran
parte perduta. Rifiuto però nettamente l’idea che ciò possa
passare attraverso una rinazionalizzazione del conflitto e della
politica. Cioè attraverso un forzato e artificiale ritorno alle
condizioni del secolo scorso, quello che a buona ragione poté
effettivamente essere definito il «secolo del lavoro».
E.B.
È positivo che
Revelli abbia espresso il proprio dissenso in maniera netta. I grandi
problemi di fronte ai quali ci troviamo hanno bisogno di prese di
posizione chiare, e la mia posizione è alternativa rispetto a quelle
da tempo sostenute da Revelli.(...)
Dunque il punto di
fondo è questo: se noi continuiamo a manifestare una certa pruderie,
una certa inquietudine nei confronti della proposta di bloccare i
capitali e di ridurre l’apertura dei mercati, rischiamo di cadere
in un equivoco colossale. Mi spiego: io sostengo che un’epoca di
rinnovata coesione e protagonismo del movimento dei lavoratori a
livello globale, un’epoca di nuovo «internazionalismo operaio»,
potrà fiorire solo in seguito a un processo di rinnovata
segmentazione e divisione dei mercati, partendo dai mercati
finanziari per arrivare eventualmente anche ai mercati delle merci.
Quando si dice di
temere una «deriva nazionalista» secondo me si cade in un equivoco,
perché occorre riconoscere che sul piano storico il movimento dei
lavoratori si sviluppa a livello internazionale proprio in relazione
a dei processi di segmentazione e di irrigidimento dei mercati
finanziari e delle merci, non certo grazie a una loro apertura.
Quando si è verificato un processo di apertura globale dei mercati
finanziari e delle merci, la competizione è diventata sfrenata e il
movimento internazionale dei lavoratori ha ripiegato su se stesso,
fino a implodere.
M.R.
I termini del
dissenso con Brancaccio si sono fatti espliciti. È un dissenso molto
forte, molto netto, molto polarizzato.(...)
continuo a essere
convinto che la segmentazione su base nazionale dei mercati, come
Brancaccio la propone, sia un’operazione devastante, in primo luogo
per quanto riguarda la ricaduta di ciò sulle «culture politiche»
implicate nell’operazione, e sugli atteggiamenti di massa, le
dinamiche simboliche, le mentalità collettive che dovrebbero
necessariamente essere mobilitate in quest’operazione di intervento
massiccio sulle strutture economiche e finanziarie. Risegmentare
mercati che si sono integrati significa costruire barriere, fratture,
confini attraverso l’impiego di valori simbolici aggressivi, perché
la rinazionalizzazione implica identità omogenee, coese,
territorialmente radicate e obiettivamente fascistoidi. Vuol dire un
impiego massiccio della logica «amico-nemico», l’invenzione di
una qualche tradizione e di una qualche antitesi negativa,
un’alterità attraverso cui simbolizzare un esterno che non c’è
più, ma di cui c’è necessità se si vuole «recintare» il noi…
Il tentativo di
ricondurre a logiche nazionali il primo processo di globalizzazione
ha prodotto veleni a destra e a sinistra: ha prodotto il nazismo e la
degenerazione della rivoluzione russa in nazionalbolscevismo. Sono
assolutamente terrorizzato dall’esito che potrebbero avere
tentativi di questo tipo oggi, con la potenza assunta dagli apparati
di comunicazione.
Io credo che alla
globalizzazione un merito possa essere riconosciuto. Non sono fra
quelli che l’hanno criticata e contrastata in tutti i suoi aspetti:
l’apertura dei confini asfittici delle dimensioni nazionali è
stata a mio avviso un vantaggio per l’umanità. Pone ovviamente dei
giganteschi problemi di governance, di gestione politica del
processo, ma non possiamo rifiutare queste opportunità e queste
prospettive in quanto tali.
La sinistra non è
stata capace di nuotare in questo nuovo mare senza andare a ricercare
ricette vecchie, ricette novecentesche. Cerchiamo di evitare che
naufraghi l’intera, fragile, umanità presente e futura.
E.B.
La posizione di
Revelli è sbagliata. Ed è una posizione, io dico, superata, nel
senso che la traccia sviluppata da Revelli ha ispirato negli ultimi
anni tutta una serie di ricerche teoriche e iniziative politiche che
sono state al centro del dibattito e non mi pare che abbiano dato
risultati particolarmente positivi. C’è una generica propensione
globalista da parte della sinistra cosiddetta radicale che è il
frutto di uno spaventoso equivoco, equivoco in cui lo stesso Revelli
mi pare cada pesantemente.
Nel momento in cui
si accetta l’impianto interpretativo proposto da Revelli e
sostenuto da numerosi, vecchi esponenti della sinistra radicale, il
flusso di voti dei lavoratori e delle fasce popolari che si indirizza
verso la destra – soprattutto quella populista e xenofoba – è
destinato a diventare inarrestabile. (...)
insisto sul punto che ho introdotto nel mio primo intervento. Se noi vogliamo trovare una credibile alternativa di sinistra al blocco dell’immigrazione che la destra propone con tanto successo in questa fase, allora dobbiamo proporre un altro tipo di blocco, che sia innanzitutto blocco dei movimenti di capitale. In estrema sintesi, io dico: se vogliamo «liberare» i migranti, dobbiamo «arrestare» i capitali. Se invece insistiamo su una concezione tutto sommato favorevole al globalismo, temendo che un approccio alternativo possa essere foriero di chissà quali pericoli nazionalisti e guerrafondai, secondo me ribaltiamo in modo del tutto erroneo i termini del problema: cioè non ci rendiamo conto che il blocco dei capitali è proprio la necessaria risposta di sinistra a un futuro di violenza nazionalista, fascista e guerrafondaia verso il quale stiamo drammaticamente scivolando.
insisto sul punto che ho introdotto nel mio primo intervento. Se noi vogliamo trovare una credibile alternativa di sinistra al blocco dell’immigrazione che la destra propone con tanto successo in questa fase, allora dobbiamo proporre un altro tipo di blocco, che sia innanzitutto blocco dei movimenti di capitale. In estrema sintesi, io dico: se vogliamo «liberare» i migranti, dobbiamo «arrestare» i capitali. Se invece insistiamo su una concezione tutto sommato favorevole al globalismo, temendo che un approccio alternativo possa essere foriero di chissà quali pericoli nazionalisti e guerrafondai, secondo me ribaltiamo in modo del tutto erroneo i termini del problema: cioè non ci rendiamo conto che il blocco dei capitali è proprio la necessaria risposta di sinistra a un futuro di violenza nazionalista, fascista e guerrafondaia verso il quale stiamo drammaticamente scivolando.
come se i Turchi che hanno comprato la Pernigotti fossero usciti da un CIE......
RispondiEliminaE' evidente dalle sue parole, che Revelli ne fa una questione culturale generale, rifiutandosi di cogliere gli aspetti effettivi della situazione esistente e della natura stessa della globalizzazione.
RispondiEliminaE' molto significativo che egli dica che non bisogna inseguire la destra, senza apparentemente rendersi conto che la destra non potrebbe mai essere coerenteemnte per la chiusura dei mercati e la riduzione drastica del commercio mondiale, o forse non siamo d'accordo con Revelli su cosa sia la destra oggi. A me pare che la destra sia quella che domina, quella che ha creato la crisi economica in cui ci troviamo e che tenta (vanamente a mio parere) di uscirne facendone pagare i costi alle classi meno abbienti, e credo che Revelli avrebbe da obiettare su questo (la Le Pen più pericolosa di Draghi???).
Invece di stabilire chi insegue chi, non sarebbe il caso di chiedersi umilmente cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, possibile che dobbiamo rimanere totalmente prigionieri dei fantasmi del novecento, senza capire come la borghesia ha totalmente capovolto il suo patrimonio valoriale e si trova ora meglio attrezzata per dominare e sfruttare?
Rigoroso e chiaro Brancaccio, come sempre. Revelli è solo un chiacchierone, una cariatide sopravvalutata (indubbiamente rappresentativa della finta "sinistra" liberoscambista, ormai autodistrutta). Mino
RispondiEliminaDavvero ottimo brancaccio qui, l'ho apprezzato davvero! :)
RispondiEliminaLa cosa rilevante è che Revelli non dice una parola, una sola parola, su come pensi di uscire dal turbocapitalismo senza smantellare la dittatura plutocratica mondialista.
RispondiEliminadittatura plotoche? almeno non usiamo un linguaggio che fa la sponda a ravanelli...
RispondiEliminaFirmati, per favore. Non ammettiamo commenti anonimi.
EliminaQuando le aspirazioni generali non tengono conto delle realtà concrete.
RispondiEliminaE questo sarebbe il corifeo del materialismo??
Mi hanno distrutto mezzo secolo di vita...
i movimenti di capitale che vuole Ravelli son quelli che delocalizzano dove il lavoro costa sempre meno, dalla cina passano al vietnam e bangladesh all'africa, non appena i lavoratori iniziano ad alzare la testa e rivendicare un briciolo della fetta di torta.
RispondiEliminaoppure son quelli che comprano marchi italiani famosi senza nessuna garanzia che poi mantengano o incrementino la produzione qua..
Dio mio, se Lenin avesse sentito il discorso di Ravelli gli avrebbe lanciato di siciro un'anatema.
RispondiEliminaBY
IL VILE BRIGANTE
Scusatemi ma si è già parlato di questo? http://www.ispionline.it/articoli/articolo/europa/crisi-delleuro-tassi-bassi-e-riforme-non-bastano TARGET3 al posto di TARGET2...
RispondiEliminaE chi si è mai dimenticato di Brancaccio. Un uomo di valore che da molti anni combatte per la gente (e non per diventare elite).
RispondiEliminalucido, concreto e operativo Brancaccio, chiaccherone, vacuo ed inconcludente Revelli, nessun dubbio
RispondiEliminadavidhume
I tipi come Revelli ci hanno devastato le gonadi per decenni con la loro saccenza nonchè presunta superiorità intelletuale. In realtà Revelli, come i suoi epigoni della sinistra cosiddetta radicale, sono solo dei grossi ignoranti che vogliono parlare di cose che non conoscono. All'invero, ignorante lo sono anch'io, tuttavia, ben conscio dei miei limiti, cerco di informarmi e, soprattutto, mi guardo bene dal condurre i miei simili verso il baratro usando abili sofismi intelletuali.
RispondiEliminaSu Revelli, non vi pare di esagerare? Si può dissentire, è chiaro. Io, ad esempio, nutro dissenso. Ma da qui a definirlo il male della sinistra, maestro di saccenza, ignorante, ce ne passa. E' il metodo sbagliato. Si continuano ad erigere steccati e non si prova a dialogare. Marino Badiale è in controtendenza rispetto a questo atteggiamento. Per fortuna!
RispondiEliminase la sinistra insegue le politiche di destra allora l'unica soluzione alle mancate rivoluzioni è come sempre il Fascismo, come afferma Brancaccio!
RispondiEliminaA proposito di Revelli et similia...
RispondiEliminahttp://temi.repubblica.it/micromega-online/giu-le-mani-dalla-costituzione/#.Ue_E9Yj5W_0.facebook
ma questi che " giù le mani dalla costituzione " senza però mai pensare che esista un rapporto diretto tra distruzione della stessa e costruirsi dell' assetto monetario europeo? Questi sanno che sono venti anni che siamo sotto Maastrcht?
Ci sono o ci fanno?
Forse chi invocava un' appello agli intellettuali di sinistra e anti-euro non aveva torto. Si vedranno in quanti NON firmeranno, ossia in quanti in realtà non possono difendere la costituzione.