sabato 4 gennaio 2014

Screpanti su imperialismo e crisi

Ernesto Screpanti, L'imperialismo globale e la grande crisi

(liberamente scaricabile all'indirizzo
http://www.deps.unisi.it/it/ricerca/pubblicazioni-deps/collana-del-dipartimento/14-limperialismo-globale-e-la-grande-crisi  )


Ripubblico qui una mia recensione al libro di Screpanti apparsa nell'ultimo numero di "Alternative per il socialismo" (n.29, dicembre 13-gennaio 14, pagg.207-209). Aggiungo alla fine della recensione ulteriori brevi considerazioni che per motivi di spazio non ho potuto inserire nella recensione stessa.
(M.B.)


Ernesto Screpanti ha scritto un testo ambizioso ed estremamente ricco, che suggerisce molti sentieri di indagine. Al suo interno si possono trovare, fra le altre cose, una discussione delle teorie moderne dell'imperialismo, una ricostruzione/interpretazione della recente crisi economica (nei suoi aspetti sia fenomenici sia sostanziali), una accurata critica di alcuni dei luoghi comuni del “pensiero unico” neoliberista.
Nell'impossibilità di approfondire tutti questi aspetti, cerchiamo di evidenziare la tesi centrale del libro. Essa è apertamente dichiarata dall'autore: si tratta del fatto che “con la globalizzazione contemporanea sta prendendo forma un tipo d’imperialismo che è fondamentalmente diverso da quello affermatosi nell’Ottocento e nel Novecento” (pag. 7). Screpanti individua vari aspetti di questa novità dell'attuale “imperialismo globale”. La principale innovazione, fra quelle individuate da Screpanti, mi sembra essere il venir meno del legame fra capitalismo e Stato-nazione. Il grande capitale si pone al disopra dello Stato nazionale, e ha con esso una relazione strumentale ma anche conflittuale. Cerchiamo di capire entrambi i lati di questo rapporto. Il rapporto è strumentale in quanto il capitale cerca pur sempre di piegare lo Stato ai propri interessi.  Gli Stati hanno ancora delle funzioni importanti da svolgere, nello schema teorico proposto da Screpanti. Si tratta della funzione di banchiere globale (colui che produce “moneta internazionale in quantità crescente, in modo da sostenere un continuo aumento del volume delle transazioni reali e finanziarie”, pag.82), di motore dell'accumulazione globale (“una grande economia nazionale capace di trascinare, con le proprie importazioni, le esportazioni e la produzione di tutti i paesi“, ibidem) e di sceriffo globale (“per far sì che i processi bellici servano a sottomettere i paesi periferici recalcitranti alla penetrazione del capitale senza acuire le rivalità tra i paesi avanzati, è necessario che le forze armate di un paese dominante abbiano sviluppato una potenza tale da scoraggiare ogni velleità vetero-imperiale degli altri paesi”, ibidem). Gli USA hanno assolto queste tre funzioni per tutta una fase storica, e appare facile capire, come Screpanti sottolinea, che le sempre maggiori difficoltà incontrate dal paese egemone nell'assolverle sono una della radici profonde delle tensioni geopolitiche attuali.
Nell'analisi di Screpanti il grande capitale utilizza i grandi Stati-nazione essenzialmente per assolvere queste funzioni. Non si ha dunque, nella sua impostazione, la dissoluzione degli Stati ad opera di un Impero mondiale. Si ha però, come abbiamo detto, un rapporto conflittuale.  Infatti, nel nuovo capitalismo globale “i soggetti dominanti sono le grandi imprese multinazionali e le leggi di regolazione dell’equilibrio sociale sono quelle del mercato” (pag.231). Ma questa realtà si rivela incompatibile con il ruolo di “capitalista collettivo nazionale” svolto in passato dallo Stato-nazione, ruolo che implica qualche tipo di compromesso di classe fra ceti dominanti e ceti subalterni. L'esempio ovvio è rappresentato dalla fase “keynesiano-fordista” del secondo dopoguerra. La crisi del “compromesso fordista”, che si protrae lungo gli anni Settanta del Novecento, porta alla configurazione attuale del capitalismo “globalizzato”, nel quale la libera circolazione dei capitali e la concorrenza di tutti contro tutti nel mondo del lavoro hanno come inevitabile conseguenza l'abbattimento di tutte le conquiste ottenute dai ceti subalterni nella fase “keynesiano-fordista”. Ma con la riduzione della quota-salari nei paesi avanzati si abbatte la domanda aggregata e quindi, secondo le classiche analisi keynesiane, si deprime l'economia.

In sostanza, il nuovo imperialismo globale tende a creare depressione economica nei paesi del Centro, e ciò genera una contraddizione con le linee portanti del capitalismo nazionale, che cercava il consenso tramite la crescita e il benessere, e dello Stato-nazione, che ha bisogno di ridurre la conflittualità sociale entro certi limiti. Gli Stati moderni sono spinti, nella politica interna, a specializzarsi nella funzione di “gendarme sociale”, cioè quella di disciplinamento delle forze sociale e repressione del conflitto.  Come scrive l'autore, “questo sistema genera una contraddizione politica del tutto inedita nelle economie del Centro imperiale: mentre, da una parte, gli stati dei paesi avanzati favoriscono il processo di globalizzazione per soddisfare le esigenze del capitale multinazionale, dall’altra cercano di contrastarne gli effetti depressivi sulle loro economie.” (pag.173)
Il caso dei paesi della Periferia è un po' diverso. In essi infatti il nuovo imperialismo può portare ancora una effettiva crescita economica, ma a spese di forti tensioni sociali, perché la crescita avviene tramite la dissoluzione dei rapporti economici e sociali di tipo tradizionale, ai quali non subentra la rete di garanzie del Welfare State ma un capitalismo ferocemente disegualitario. In ogni caso, secondo Screpanti, sono proprio alcuni Stati della periferia, quelli più potenti come Cina e India, a conservare una certa autonomia politica nell'attuale sistema.
Tutto questo, argomenta l'autore, non è l'esito perseguito da un piano mondiale dei ceti dominanti,  ma è piuttosto la risultante dell'azione di molte realtà, ciascuna delle quali si muove secondo la logica fondamentale dell'accumulazione del capitale. Nell'interpretazione di Screpanti, infatti, il soggetto al vertice della gerarchia mondiale oggi non sono tanto gli Stati, con i loro ceti dirigenti che si danno finalità politiche, ma le grandi multinazionali, i cui scopi sono essenzialmente legati all'accumulazione. Su questo punto conviene lasciare la parola all'autore:
“Il vero soggetto dominante della globalizzazione è il capitale multinazionale, cioè essenzialmente l'insieme delle multinazionali (gerarchicamente ordinate per potenza) e la risultante della loro interazione. Soggetto, nel senso che regola il processo secondo finalità proprie e cerca di subordinare a se stesso tutti gli altri attori per fargli servire i propri interessi. Non è però un soggetto olistico, non persegue finalità collettive attraverso un’Idea, un Progetto o un fantomatico Piano del capitale. Sono decine di migliaia di soggetti individuali che perseguono scopi e interessi particolari.
Ma come le teste dell’Idra, che si muovono ognuna per conto suo, tutte le individualità concorrono al trionfo del corpo comune.  (…) Ecco un altro modo di cogliere l’essenza dell’imperialismo globale: la liberalizzazione dei movimenti dei capitali e delle merci al livello mondiale ha fatto sì che il perseguimento degli interessi particolari delle singole imprese produce un effetto sistemico in virtù del quale il capitale multinazionale viene a trovarsi in una posizione di predominio rispetto agli stati, gli organismi internazionali, le istituzioni politiche e, in particolare, le organizzazioni del movimento operaio.”(pag.111-113).
Una delle conseguenze di questa impostazione, che l'autore esplicita ed enfatizza, è che la nuova configurazione dell'imperialismo globale sembra esente da rilevanti contraddizioni inter-imperiali. Non è cioè ragionevole aspettarsi grandi scontri fra paesi imperialistici, paragonabili alle due guerre  mondiali del Novecento. Scrive l'autore: “La mia tesi è che i grandi capitalisti di oggi hanno un interesse fondamentale a superare le rivalità inter-imperiali piuttosto che a inasprirle (…). Sulla base di tale tesi, propongo una prima definizione di “imperialismo globale”: un sistema di controllo dell’economia mondiale in cui non esistono sostanziali contraddizioni inter-imperiali. Per “sostanziali” intendo: determinate dalla forza che dà sostanza economica alla spinta imperialista, cioè l’accumulazione capitalistica.” (pag.59).
L'insieme di queste tesi configura un'ipotesi teorica che, pur prendendo le mosse dalle impostazioni che sono state nel Novecento tipiche della riflessione marxista, se ne distacca coscientemente su alcuni aspetti cruciali. La chiarezza e il rigore intellettuale di questo testo non possono che favorire un proficuo dibattito su questi temi, così importanti per la comprensione dell'attuale fase storica.


(Fin qui la recensione pubblicata sulla rivista. Di seguito ulteriori brevi considerazioni).

 Ci si potrebbe chiedere se il tipo di analisi proposta da Screpanti abbia, magari in forma mediata, qualche conseguenza specifica riguardo al “che fare?” qui ed ora. L'autore non nasconde le sue convinzioni a questo proposito. Il libro si chiude con la rinnovata affermazione della centralità della contrapposizione fra lavoro e capitale. Infatti l'imperialismo globale in primo luogo annulla lo spazio del riformismo classico, facendo mancare le risorse disponibili per politiche di quel tipo; in secondo luogo, grazie alla sempre maggiore estensione del rapporto sociale capitalistico nei paesi del Sud, aumenta continuamente i ranghi del proletariato; in terzo luogo, proprio per l'impossibilità di politiche riformiste nei paesi del Nord, pagate con lo sfruttamento dei paesi del Sud, fa venire meno “l’opposizione d’interessi immediati tra il proletariato del Nord del mondo e quello del Sud”(pag.237). Tutto questo, conclude Screpanti “può portare all’emergere della coscienza di un interesse fondamentale comune a tutto il proletariato mondiale, l’interesse al rovesciamento del capitalismo.” (Ibidem). Sono queste le parole finali del libro, e rappresentano in maniera molto chiara la posizione dell'autore. La discussione puntuale di queste tesi richiederebbe davvero troppo spazio, e spero di poterla fare in un altro momento. Intendo concentrarmi qui su un solo punto. Si tratta del fatto che, ammettendo la correttezza della linea di tendenza individuata da Screpanti, essa rappresenta appunto una tendenza molto generale, dalla quale ancora non si possono individuare strategie di lotta politica. Il proletariato che cresce a livello mondiale ha bisogno di individuare strategie politiche che permettano l'attacco nei confronti di capitalismo e imperialismo. A me sembra che l'analisi di Screpanti permetta di delineare i tratti molto generali di una tale strategia, perché focalizza una contraddizione interna alla dinamica dell'accumulazione: la contraddizione fra esigenze dell'imperialismo globale e natura degli Stati-nazione. Proprio perché gli Stati-nazione, con le loro Costituzioni frutto di compromessi avanzati, non sono più, in buona parte, funzionali alle esigenze dell'accumulazione capitalistica, proprio per questo essi possono oggi rappresentare  una trincea di resistenza e di contrattacco nei confronti dell'attuale capitalismo “globalizzato”. Se le forze anticapitalistiche lasciassero questo bastione di resistenza in mano alle forze reazionarie, commetterebbero a mio avviso un gravissimo errore. Certo, ne hanno già commessi talmente tanti...

6 commenti:

  1. "Much of what happens in the global economy is determined by the rich countries,
    without even trying. They account for 80% of world output, conduct 70%
    of international trade andmake 70–90% (depending on the year) of all foreign
    direct investments.[27] This means that their national policies can strongly influence
    the world economy.
    But more important than their sheer weight is the rich countries’ willingness
    to throw that very weight about in shaping the rules of the global economy.
    For example, developed countries induce poorer ‘ countries to adopt particular
    policies by making them a condition for their foreign aid or by offering
    them preferential trade agreements in return for ‘good behaviour’ (adoption of
    neo-liberal policies). Even more important in shaping options for developing
    countries, however, are the actions of multilateral organizations such as the ‘Unholy Trinity’—namely the IMF, theWorld Bank and the WTO (WTO). Though
    they are not merely puppets of the rich countries, the Unholy Trinity are largely
    controlled by the rich countries, so they devise and implement Bad Samaritan
    policies that those countries want...
    TheWorld Bank and the IMF initially started with rather limited mandates. Subsequently, they argued that they have
    to intervene in new areas outside their original mandates, as they, too, affect
    economic performance, a failure in which has driven countries to borrow money
    from them. However, on this reasoning, there is no area of our life in which the
    BWIs cannot intervene. Everything that goes on in a country has implications
    for its economic performance. By this logic, the IMF and theWorld Bank should
    be able to impose conditionalities on everything from fertility decisions, ethnic
    integration and gender equality, to cultural values...
    ...How on earth can the IMF and theWorld Bank persist for so long in pursuing
    the wrong policies that produce such poor outcomes? This is because their
    governance structure severely biases them towards the interests of the rich
    countries. Their decisions are made basically according to the share capital
    that a country has (in other words, they have a one-dollar-one-vote system).
    This means that the rich countries, which collectively control 60% of the voting
    shares, have an absolute control over their policies, while the US has a de facto
    veto in relation to decisions in the 18 most important areas..."

    (http://analepsis.files.wordpress.com/2011/08/ha-joon-chang-bad-samaritans.pdf)

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  2. "... mentre, da una parte, gli stati dei paesi avanzati favoriscono il processo di globalizzazione per soddisfare le esigenze del capitale multinazionale, dall’altra cercano di contrastarne gli effetti depressivi sulle loro economie"
    Si, penso che il fulcro su cui far leva sia questo...

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  3. il bastione dello Stato -Nazione Italiano è in mano da decenni alle oligarchie finanziarie che non intendono mollarlo, anche perchè dispongono di enormi leve finanziarie e mediatiche, ma diciamoci per una volta la verità , il Capitalismo per il momento ha vinto ed all'orizzonte non c'è alcuna strategia o forza in grado di batterlo e la convinzione che basti riaffermare la Costituzione per ritornare allo stato iniziale e prendere di nuovo in mano le redini è una pura illusione destinata a fallire, ma questo non significa rinunciare a discuterne

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  4. non sono sicuro che il Capitalismo ha vinto. il Capitalismo ha in realtà enormi difficoltà nell'allocare il plusvalore garantendosi un accettabile ed affidabile saggio di profitto e ciò potrebbe sortire degli effetti davvero difficili da prevedere.

    la soluzione "finanziaria" a tale problema è una soluzione parziale e non è sostenibile. infatti, parte di quanto guadagnano gli scommettitori vittoriosi origina dalle perdite degli scommettitori perdenti, parte origina dal salasso sempre più impietoso dei lavoratori buoi. tutto ciò rende ulteriormente più difficile la vendita di prodotti e servizi e avvicina pericolosamente possibili fiammate di rivolta.

    la soluzione "produttiva", ovvero l'investimento delle liquidità flottanti per la creazione di nuovi prodotti e servizi, non avrebbe tali difetti. tuttavia, essa non è la prediletta delle elites. ciò a causa delle difficoltà computazionali sempre più ardue che la ricerca scientifico-tecnologica e di ingegneria di mercato pone. ciò a causa degli esiti drammaticamente destabilizzanti che tale ricerca può sortire sugli equilibri costituiti. ciò a causa della "vigliaccheria senza coraggio" dei grigi e vuoti membri della elite finanziaria oggi al comando.

    non riesco a prevedere cosa possa succedere. ma potrebbero vedersene delle belle...

    davidhume

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  5. Le imprese perseguono il profitto. E' un fatto costitutivo. Le decine di migliaia di individui che sono alla guida del grande capitale agiscono per massimizzare questo obiettivo. Se non lo facessero verrebbero semplicemente sostituiti da altri con maggiore competenza o convinzione.

    Le responsabilità dell'impoverimento di larghe fette della popolazione nei paesi di più antica industrializzazione ricade quindi sugli Stati. Ovvero sulla classe politica e sugli intellettuali, espressione non migliore di una massa di cittadini sempre più ammaestrati a consumare in beata solitudine.

    Passi pure che nella sbornia liberista seguita al crollo del comunismo sovietico gli Stati abbiano avallato una globalizzazione senza regole, ove le multinazionali sguazzano facendo arbitraggio al ribasso sul lavoro.

    A mio modo di vedere, la vera colpa è stata l'appiattimento sull'idea che la priorità dovesse essere quella di creare potere d'acquisto pubblico/privato, rinunciando ad una qualsiasi visione chiamiamola pure "morale" sull'origine di questa maggiore disponibilità di spesa, e sul suo impiego.

    Di qui la dipendenza da dosi sempre più elevate di indebitamento, finalizzate in gran parte a finanziare il consumo individuale di beni materiali, vero oppio di un paese in declino, in cui aumentano le ingiustizie distributive, il tessuto sociale si sfilaccia e si rarefanno le opportunità degli individui.

    E adesso? Quale altra forma d'oppio ci verrà propinata ?

    Un cordiale saluto.
    http://marionetteallariscossa.blogspot.it/

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  6. Mi riproponevo di commentare solo alla fine della lettura del libro. In questo momento sono arrivato a metà, quindi trasgredisco la regola che mi sono assegnato. Solo due commenti. La prima: è vero che l'imperialismo globale tende a deprimere le economie dei paesi del centro, non potrebbe essere diversamente. La contromisura adottata negli ultimi quindici anni è stata quella del debito privato. Che è esploso. Guardando le curve di produttività degli USA (Bagnai ma anche Reich), l'impressionante divergenza dell'incremento di produttività e reddito da lavoro è stata compensata dal debito privato. Qui non posso allegare il breve saggio di Passarella in memoria di Graziani, ma c'è uno schema chiarissimo, che fa comprendere che questo fenomeno produce i cosiddetti "derivati". (http://www.marcopassarella.it/wp-content/uploads/Omaggio-a-Graziani.pdf). L'osservazione è che questo meccanismo si è incrinato con la crisi del 2007-8. Cioé, se i paesi emergenti producono merci con manodopera a basso costo, qualcuno le deve comprare. Se il meccanismo si inceppa, allora tutto cade in contraddizione. L'altra osservazione riguarda la strategia. Fare resistenza, difendere le costituzioni, sicuramente va fatto. Tutto quello che crea difficoltà rappresenta una risorsa. Non credo però che sia sufficiente. Necessario ma non sufficiente. Prendere tempo, rallentare i processi dell'imperialismo, creare difficoltà. Sono tutte cose da fare. Per avere il tempo di pensare più in grande.

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