di Fabrizio Tringali
Il "granello di sabbia", periodico online di Attac Italia, ha
recentemente lanciato un dibattito sulla democrazia partecipativa.
La discussione parte dall'articolo intitolato "democrazia partecipata" che trovate in questo numero.
La discussione parte dall'articolo intitolato "democrazia partecipata" che trovate in questo numero.
Si tratta, a mio avviso, di un tema di importanza centrale,
perché senza una radicale evoluzione in senso democratico del
funzionamento delle istituzioni e dei soggetti politici,
non esiste possibilità di invertire la rotta verso il baratro. Anche il
recupero della sovranità nazionale, della possibilità di implementare
politiche economiche e monetarie autonome (uscendo dalle gabbie
dell'euro e della UE) vanno viste come "condicio sine qua non" per poter
ripensare l'intero assetto politico-sociale in senso democratico (è
abbastanza chiaro a tutti, spero, che senza sovranità non ha senso
parlare di evoluzione democratica, perché le decisioni importanti
vengono prese altrove).
Qualche giorno fa ho inviato all'autore dell'articolo che ha
lanciato il dibattito, un mio contributo, che potete leggere qui sotto
(noterete leggendo il "granello" che il pezzo "democrazia partecipata"
non è firmato, ma fidatevi, l'autore è il "Pino" a cui mi rivolgo).
vorrei svolgere qui alcune riflessioni, partendo dalle questioni che ponevi sul "granello",
e con particolare riferimento ai punti 1) e 2) (il terzo è quello per
"solutori più che abili" e quindi fuori dalla mia portata!).
Li riporto qui per comodità di chi legge:
"1) come
si realizza concretamente la condivisione del potere tra istituzioni
elettive e popolo? alla fine, in caso di disaccordo, quale delle due
componenti deve prevalere?
2) la democrazia partecipativa è un perfezionamento
del sistema politico esistente, oppure ne è il becchino? In altri
termini, la partecipazione deve trasformare profondamente anche le
istituzioni elettive, oppure deve limitarsi ad affiancarle?"
Dunque, a mio parere, per arrivare alle risposte,
dobbiamo chiederci, prima di tutto, se davvero ha senso pensare ad una
maggiore partecipazione dei cittadini. In fondo, se il problema fosse
solo che ci ritroviamo un ceto politico corrotto (o incapace, o
inadatto, etc....), basterebbe trovare i modi per selezionarne uno
migliore. A quel punto potremmo tranquillamente lasciare a quello il
pieno potere decisionale. Il fatto che tutto ciò possa essere moralmente
disdicevole (è l'atteggiamento degli adolescenti giustamente citato da
Pino nel suo pezzo), è del tutto ininfluente nella riflessione che sto
facendo.
Il problema però è che se si decide che il governo è in mano a un
ceto politico professionale, dotato di status sociale ed economico
elevato, non esiste la minima possibilità che questo non governi al fine
di mantenere la propria posizione. Nel senso che la preoccupazione
principale sarà SEMPRE quella.
Poi, magari, soprattutto in periodi di "vacche grasse", il governo
potrà anche far qualcosa di buono, di socialmente utile etc... (per
esempio, nel periodo "keynesiano" il miglioramento delle condizioni di
vita generali è un fatto innegabile). Ma in generale le decisioni
saranno sempre prese a tutela della minoranza che detiene il potere
politico/economico, contro la maggioranza dei cittadini.
E infatti Pino scrive: "L’idea che il popolo non possa e non debba
rinunciare ai propri diritti sovrani nasce dall'esperienza degli ultimi
decenni, dalla constatazione che questo sistema politico, per quanto
basato sul suffragio universale maschile e femminile, e su un’ampia
libertà di espressione e di associazione, non protegge il popolo dagli
effetti del capitalismo: crescenti disuguaglianze, formazione di uno
strato sociale parassitario sempre più ampio, ingordo, costoso e
dannoso, asservimento dei lavoratori progressivamente privati di ogni
diritto, distruzione dell’ambiente"
Il che significa che siamo chiamati ad uscire dall'adolescenza per sopravvivere. Perché altrimenti ci distruggono!
Non
ha alcun senso sperare di migliorare il ceto politico, di cambiare le
cose sostituendo il ceto attuale, con un altro migliore. Non ci
riusciremo mai! (mi rendo conto che queste affermazioni andrebbero
supportate da lunghe argomentazioni, ma non posso svolgerle qui, mi
limito a sottolineare che, secondo me, buona parte delle osservazioni
che Michels pubblicò un centinaio di anni fa, criticando la
socialdemocrazia tedesca, sono tuttora valide e applicabili per capire
la degenerazione oligarchica dei partiti, si veda http://www.istitutodegasperi- emilia-romagna.it/pdf/MICHELS. pdf )
Peraltro, il ceto politico, a mio avviso, non è
affatto "degenerato". Nel senso che esso è quello che gli "inventori"
della rappresentanza politica hanno voluto che fosse: un ceto separato
dal resto della cittadinanza, specializzato nel far politica, ricco, e
dotato di status elevato e privilegi (semmai a degenerare sono i partiti
antisistema, che pian piano si trasformano in parte dello stesso ceto
politico che avrebbero voluto cancellare).
Esiste un saggio interessantissimo, che tutti i partecipazionisti
dovrebbero conoscere, il titolo è ,"Principi del governo
rappresentativo", l'autore è B.Manin (pubblicato da "Il Mulino"). E' un
testo noto in scienza politica perché in esso l'autore descrive quella
che egli chiama "democrazia del pubblico", che è, a suo parere,
l'attuale stadio evolutivo della democrazia rappresentativa. Ma tutto
questo interessa relativamente al dibattito sulla partecipazione. Quel
che importa è che il testo affronta in modo approfondito due questioni
molto importanti: le caratteristiche fondamentali della democrazia
diretta e le caratteristiche dei sistemi politici nati dalle rivoluzioni
inglese, francese, americana.
Per quanto riguarda queste ultime, Manin sottolinea che,
sostanzialmente, nessuna delle rivoluzioni è mai stata orientata verso
la democrazia diretta. I rivoluzionari volevano costruire un sistema
rappresentativo, che NON permettesse a tutti di entrare nel processo
decisionale. Volevano il ceto politico. Separato, privilegiato, capace
di decidere sulla base dei LORO interessi, non di quelli della
maggioranza dei cittadini. E lo hanno costruito efficacemente.
Si tratta di un punto di vista davvero interessante. Così come
quello sulla democrazia diretta, che Manin descrive come perfettamente
compatibile con la rappresentanza. Sembra un paradosso, invece non lo è
affatto. Ed anzi, in questi concetti, a mio parere, possiamo trovare la
chiave di volta che permette di superare le discussioni sulla
impossibilità di realizzare concretamente la democrazia diretta.
Il punto fondamentale è che ciò che differenzia la democrazia
diretta da quella rappresentativa, non è l'esistenza o meno di
rappresentanti politici. Essi infatti sono presenti in entrambi i
sistemi (erano presenti anche nella democrazia dell'antica Grecia). E
non sta nemmeno nel fatto che in democrazia diretta il potere
decisionale dovrebbe risiedere nell'assemblea (cioè essere di tutti),
mentre in quella rappresentativa esso è nelle mani dei delegati (cioè
pochi). Anche nell'antica Grecia, la maggioranza delle decisioni non era
presa dall'assemblea, ma da delegati.
La differenza REALE sta nel rapporto fra rappresentante e rappresentato. La vera differenza è tutta qua.
Il
rappresentante politico moderno non ha vincolo di mandato, ha status
elevato, alta remunerazione, privilegi. E' incentivato a far di tutto
per fare carriera politica o quantomeno per non perdere la carica che ha
raggiunto. In democrazia diretta, il rappresentante ha vincolo di
mandato, ed è quindi revocabile da chi lo ha eletto, non ha uno status
elevato, non ha un'alta remunerazione né privilegi. Non può fare
carriera perché nessuno può assumere più di una o due cariche nel corso
della vita. In pratica è un portavoce dei suoi elettori, che sa che
SICURAMENTE, ben presto uscirà dal novero dei decisori politici.
Se si capisce bene la differenza fra i due modelli, si possono
intuire i motivi per cui nel primo caso la scelta dei rappresentanti
avviene tramite elezione, mentre nel secondo, la modalità più razionale
per la scelta dei rappresentanti è il sorteggio (anche questo tema
andrebbe approfondito, ma qui basta sottolineare che il metodo del
sorteggio, che di primo acchito può far sorridere, a ben vedere
rappresenta un metodo assolutamente razionale per scegliere i
rappresentanti in una democrazia diretta)
Ora, se consideriamo corretto quanto esposto sopra,
allora abbiamo le risposte ai quesiti posti nei punti 1) e 2) si Pino.
Infatti, se l'attuale sistema politico non può che esprimere un ceto di
politicanti che persegue obiettivi ben lontani dall'interesse generale,
allora non ha nessun senso pensare a strumenti partecipativi da
affiancare alle istituzioni esistenti. Il conflitto fra gli uni e le
altre sarà inevitabile, ed è illusorio pensare di risolvere il problema
decidendo a priori quale istanza decisionale debba prevalere in caso di
contrasto. Né le istituzioni rappresentative, né gli organismi
partecipativi accetterebbero supinamente le decisioni contrarie
dell'altro soggetto. E tutto sommato sarebbe giusto così. Se ne deduce
che la domanda posta al punto 1) non ha risposta, perché la risposta
alla domanda posta al punto 2) è che la democrazia partecipativa (che è
null'altro che democrazia diretta) è il becchino di quella
rappresentativa, e che per realizzarla occorre rivoluzionare gli
istituti di rappresentanza politica, ripensandone il funzionamento sulla
base dei principi della democrazia diretta.
Considero che questa sia l'unica strada che possa portare alla
formazione di istituzioni politiche non corrotte, ma capaci di prendere
decisioni favorevoli alla maggioranza dei cittadini.
Fabrizio
p.s.
- spero siano chiari i motivi per cui uso "democrazia partecipativa" e "democrazia diretta" come sinonimi
-
quanto alla gestione partecipativa di beni comuni, penso che anche qui
il problema sia quello di costruire un sistema orientato alla democrazia
diretta, dove l'intero corpo di cittadini coinvolti possa entrare
direttamente nei meccanismi decisionali che riguardano le questioni più
importanti, e poi esso possa far riferimento ad un gruppo ristretto di
rappresentanti con vincolo di mandato, che possano ricoprire la carica
una o due volte nell'intera vita, senza privilegi né alte remunerazioni,
cui delegare tutte le altre decisioni, potendo revocare chi viola il
mandato.
E i partiti? qui vengono citati solo in riferimento alla legge ferrea delle oligarchie; io continuo a pensare che la democrazia – sia come idea di società che come metodo di governo – sia impensabile senza i partiti.
RispondiEliminaGiusto qualche giorno fa, è stato pubblicato su Micromega un interessante articolo sulla forma oligarchica delle democrazie capitalistiche contemporanee, e su come il potere degli oligarchi risieda essenzialmente nella diseguale distribuzione della ricchezza. L'articolo in questione merita di essere letto per intero e si trova qui:
RispondiEliminahttp://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/05/28/che-cos%E2%80%99e-l%E2%80%99oligarchia/
Mi sembra che la discussione sulla democrazia partecipativa vs. rappresentativa e quella sul potere oligarchico all'interno di strutture formalmente democratiche possano essere riunite.
Io personalmente non credo che sia realisticamente possibile una forma non oligarchica di gestione del potere e che tutti i tentativi di democrazia partecipativa non escano da questo schema.
La capacità di condizionamento e di orientamento da parte di chi detiene il potere economico è troppo elevata - si pensi al controllo dei mezzi di informazione - e si esercita non solo al momento del voto (quindi minando alla base i principi della democrazia rappresentativa), ma in ogni aspetto della vita sociale e culturale di ogni persona, in modo tale che anche un sistema di democrazia diretta difficilmente potrà risultare in esiti non graditi alle oligarchie.
Inoltre, c'è da considerare come un grandissimo numero di cittadini non può, non vuole, non ha i mezzi per partecipare ai processi decisionali.
Se volessimo guardare al M5S come esperimento reale di democrazia diretta - e non lo è affatto - vedremmo per esempio che gli iscritti al portale, cioè quelli che potrebbero partecipare ai processi decisionali interni, sono solo un'esigua minoranza rispetto al totale dei votanti M5S. Tutti gli altri elettori semplicemente delegano, cioè non escono dallo schema della democrazia rappresentativa.
Il punto dirimente allora non è nella contrapposizione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, perché questo attiene alla forma attraverso la quale le oligarchie eserciteranno la propria supremazia: direttamente attraverso il ceto politico nel primo caso, indirettamente attraverso l'imposizione di modelli culturali nel secondo.
Il punto cruciale è quanto ristretta è l'oligarchia che detiene il potere. Più la ricchezza è
concentrata nelle mani di pochi, maggiore sarà il loro potere e più è probabile che i loro interessi siano in collisione con quelli della maggioranza dei cittadini. Più la ricchezza è diffusa, più ampio è il ceto medio, maggiore è la probabilità che il ceto politico sia espressione di vaste fasce sociali e che ne raccolga le istanze.
Vorrei esprimere alcune perplessità sulle cose scritte.
RispondiEliminaIn primo luogo, la domanda è: cos’è la sovranità? Si parla della sovranità nazionale, la possibilità che uno stato nazionale possa realizzare politiche attraverso l’appropriazione della moneta e della sua gestione. È vera sovranità popolare questa? Si è verificata in passato nella storia italiana? A questo proposito, consiglio la lettura del bel libro di Augusto Graziani, “Lo sviluppo dell’economia italiana”, che parte dal 1946, dal governo Parri. Leggendo, non pare proprio che la sovranità sia stata “popolare” anche nei mitici anni ’50 e ’60. Lo strumento monetario è stato usato più volte e con diverse modalità per comprimere le richieste salariali. Ad esempio, agli inizi degli anni ’60, aumentando clamorosamente il tasso di sconto (Carli) per scoraggiare gli investimenti e per aumentare la disoccupazione. Piano eseguito in modo spietatamente scientifico.
La sovranità e la democrazia si misurano in primo luogo sulla capacità di stabilire cosa produrre, come produrre e come farlo. Senza sovranità “popolare” della moneta questo non è possibile. E senza mettere in discussione i rapporti sociali capitalistici nei quali gli investimenti non sono decisi dai lavoratori, nei quali per sopravvivere non si può far altro che vendere la propria capacità di lavoro sperando che l’impresa la compri, non si può parlare di democrazia partecipativa.
Un ultimo punto riguarda il tempo di lavoro. Se non ci sarà più tempo libero, non sarà possibile occuparsi delle questioni pubbliche. Per partecipare occorre avere la possibilità di studiare, di occuparsi a fondo e con competenza delle questioni. In un mondo che va verso l’aumento dell’orario di lavoro e non verso la diminuzione, credo che sia tremendamente critico proporre modelli di questo genere. Né le consultazioni online del M5S mi sembrano un esempio. Quali sono gli strumenti per votare con idee chiare e con consapevolezza?
Questo articolo sostanzialmente pone tre domande: a) la democrazia diretta è attuabile? b) la democrazia diretta può rimediare al deficit di democrazia reale della democrazia rappresentativa? c) la democrazia diretta è antitetica alla democrazia rappresentativa o esse possono coesistere?
RispondiEliminaStoricamente, la migliore realizzazione di una forma di democrazia diretta è stata la democrazia ateniese (sebbene non tutti gli abitanti di Atene avessero diritto di partecipazione) dove alcune cariche pubbliche erano assegnate per sorteggio e dove fortissimo era il peso dell'assemblea dei cittadini rispetto ai decisori del particolare momento. Ma la struttura sociale, economica, giuridica odierna è enormemente più complessa di quella di Atene del V secolo a.c. Se al tempo ogni cittadino poteva potenzialmente ricoprire cariche pubbliche, o quanto meno valutare concretamente l'operato di chi le ricopriva, adesso non è più così, e una gran parte del popolo si autoesclude totalmente dalla partecipazione politica perché non ha i mezzi per affrontarne la complessità. Non è solo il sistema che ti espelle e ti respinge, tantissimi non vogliono proprio partecipare!
L'esempio del M5S è illuminante. M5S si propone come uno strumento di democrazia diretta, ma nei fatti il numero di attivisti e anche degli iscritti al portale è un'esigua minoranza rispetto al numero dei votanti. La stragrande maggioranza dei votanti M5S semplicemente delega, quindi non esce dallo schema di democrazia rappresentativa che il Movimento almeno a parole si propone di rompere. Si esclude per scelta dal processo decisionale.
Tra l'altro, se si va a vedere nel caos dei forum la qualità dei contributi degli iscritti alla
stesura delle proposte di legge, si trova per lo più una massa informe di interventi confusi, contraddittori, spesso campati per aria, tanto è vero che alla fine dei conti sia i punti chiave del programma sia le proposte di legge vengono formulati da uno staff molto ristretto a prescindere dagli interventi degli utenti del portale.
Invece, le forme partecipative di maggior successo sono costituite da quei movimenti che si coagulano attorno a pochi temi ben specifici (es: i movimenti per l'acqua): in questi movimenti non ci sono pericoli di leaderismo e c'è una ben più ampia partecipazione democratica. Ma questi movimenti non esprimono una proposta politica completa: se ci provano, falliscono, e penso per esempio alla fine ingloriosa del partito dei Verdi nato come espressione politica dai vari movimenti ambientalisti.
Quindi secondo me, per rispondere alla prima domanda, la democrazia diretta non è più attuabile nelle attuali strutture sociali.
Ne consegue la risposta alla seconda domanda: la democrazia diretta è "più democratica" della democrazia rappresentativa? In parte. Dipende da quanto ampia è la platea dei partecipanti e da quanto riesce a formulare un progetto politico unitario. Più è ridotto il numero di cittadini attivi, più questa democrazia diretta avrà in realtà una forma elitaria; viceversa, più ampia è la partecipazione, maggiore è la probabilità che il processo decisionale si blocchi e che quindi forme di leaderismo autoritario si impadroniscano delle assemblee di cittadini. (segue)
(continua)
RispondiEliminaRiguardo alla terza domanda, io non penso che allo stato attuale la forma della democrazia rappresentativa sia sostituibile con forme di democrazia diretta. Sarebbe auspicabile che meccanismi partecipativi di controllo vengano inseriti all'interno delle istituzioni della democrazia rappresentativa, ma con funzioni di controllo, non direttamente decisionali. Ma anche qui, si pongono problemi pratici non indifferenti. Facciamo l'esempio del vincolo di mandato: quale assemblea può decidere di revocare il mandato al parlamentare divenuto sgradito? Quella dei soli attivisti locali? E se parliamo di 50 persone in un territorio in cui il nostro ha invece avuto migliaia di voti? E se allarghiamo la platea, chi ci difende dalle infiltrazioni degli altri partiti? Sono questioni non semplici e che inevitabilmente si traducono in soluzioni imperfette e quindi "semi-democratiche".
Insomma, per quanto marcio, corrotto e degenere, io non vedo un'alternativa all'attuale sistema di democrazia rappresentativa basata su partiti politici. Il movimentismo è importante come mezzo di contrasto agli attacchi delle oligarchie su singoli temi specifici, ma è attraverso la costruzione di nuovi soggetti politici in questo quadro istituzionale che si può aumentare il livello di compartecipazione democratica.