Il gruppo di intellettuali e militanti
che pubblica la rivista “Indipendenza” ha fatto un'opera
meritoria, raccogliendo in volume gli scritti che Massimo Bontempelli
pubblicò sulla rivista nel periodo 1999-2010. Si tratta di un volume
di grande ricchezza e spessore intellettuale, che riesce difficile
riassumere in una recensione. Bontempelli infatti affronta in questi
articoli i temi più diversi, dalla non violenza alla fecondazione
assistita, dalla distruzione della scuola pubblica all'origine dello
Stato nazionale italiano, dalla decrescita alla “personalità
narcisistica”. Per chi non conoscesse Bontempelli, questo semplice
elenco (neppure esaustivo!) potrebbe certamente indurre l'opinione
che un libro come questo sia una raccolta di scritti estemporanei,
magari brillanti e stimolanti, ma certamente poco organici. Sarebbe
questa un'opinione del tutto erronea. Le analisi di singoli problemi,
spesso indotti dall'attualità della cronaca, sono infatti in
Bontempelli sempre ricondotte all'intelaiatura fondamentale del suo
pensiero, che è un pensiero “forte”, radicato nella tradizione
filosofica occidentale (con il platonismo ad un estremo, e
l'idealismo classico tedesco all'altro), nella critica marxiana
dell'economia politica, nella capacità di ricostruzione storica
della realtà sotto esame.
Come si è detto, il volume affronta
molti temi diversi, che non è ovviamente possibile discutere in
breve. Mi limito dunque ad un breve accenno a due ordini di problemi,
che ricorrono in vari punti del libro, e che penso possano essere di
particolare interesse per i nostri lettori.
In primo luogo, uno dei fili conduttori
dell'analisi, da parte di Bontempelli, di problemi anche diversi fra
loro (dalla crisi della scuola alla riflessione sull'11 settembre), è
la necessità di una riconquista della dimensione dello Stato-nazione
da parte delle forze che intendono difendere la civiltà sociale del
nostro paese assieme ai diritti e ai livelli di vita dei ceti
subalterni. Si tratta di un tema la cui importanza spinge Bontempelli
a scrivere, fra gli altri, due articoli molto interessanti
sull'origine dello Stato-nazione italiano, a partire dalle invasioni
napoleoniche. Ovviamente, la tesi della necessaria riconquista della
sovranità nazionale implica una forte critica nei confronti della
costruzione dell'UE. Le critiche di Bontempelli all'UE riprendono la
tesi, da molti ribadita, sull'inesistenza di un popolo europeo, e la
approfondiscono, spiegando come i vari presupposti (culturali,
economici, linguistici ecc.) che rappresentano la base di una
costruzione nazionale “hanno bisogno, per diventare elementi di una
vera nazione, di una sintesi politica che ne progetti lo sviluppo nel
futuro” (pag.308). Il punto fondamentale è che “le nazioni (…)
si attualizzano sempre in connessione con qualche nuova grande
idealità emergente nella storia che esse vanno ad
incarnare”(ibidem). Le nazioni dell'Ottocento incarnano infatti
l'ideale del costituzionalismo liberale. Ma per quanto riguarda
l'Europa, prosegue Bontempelli, essa “non può essere uno
Stato-nazione, anche perché in sé non è espressione di alcun nuovo
ideale storico che possa unificare le sue divaricazioni interne. La
vacuità unitaria culturale si conferma pure nella sua versione
odierna, in cui è soltanto una moneta, una Banca centrale ed una
regolamentazione di pura mediazione tra i diversi egoismi economici”
(ibidem).
In secondo luogo, Bontempelli analizza,
in molti degli articoli raccolti nel libro, il modo in cui l'attuale
“capitalismo assoluto” influisce sulla dimensione della
personalità. Si tratta di una analisi che rimanda alla teorizzazione
filosofica, antropologica e psicologica che Bontempelli ha sviluppato
in vari testi e in particolare in “Filosofia e realtà” (edizioni
CRT 2000). Per Bontempelli il capitalismo diviene “assoluto”
quando la sua logica riesce a informare di sé non solo l'ambito
della produzione ma l'insieme della società. Gli effetti di questa
nuova situazione, che Bontempelli data a partire dall'ultimo quarto
del Novecento, sono, per quanto riguarda il tema in questione, la
creazione e la diffusione di nuove forme di personalità: in
particolare la personalità narcisistica, che in epoche precedenti
era sì presente ma minoritaria, diviene oggi il tipo umano “di
riferimento”. Queste innovazioni psicologiche e antropologiche sono
la radice ultima, secondo Bontempelli, dell'impotenza in cui si
dibattono i vari movimenti antisistemici, che continuano a combattere
alcuni aspetti del capitalismo senza capire come la pervasività
della logica capitalistica abbia oggi radicalmente spostato il fronte
della lotta. Tale impotenza rende purtroppo altamente probabile un
esito fortemente drammatico della crisi del capitalismo, che secondo
Bontempelli è destinata ad avvitarsi su se stessa: in sostanza il
capitalismo crollerà per le sue contraddizioni senza che nasca al
suo interno una forza storica capace di guidare il suo superamento in
modo da minimizzarne la distruttività. Su questo punto credo
convenga lasciare la parola allo stesso Bontempelli, con una lunga
citazione che spero possa dare al lettore un'idea dello spessore e
della densità del suo argomentare: “ogni sistema sociale
stabilmente strutturato, per quanto oppressivo, in quanto stabilmente
strutturato esprime sul piano empirico qualche sia pur empiricamente
deformato significato trascendentale. Il capitalismo è invece
l'unico sistema il cui funzionamento è in contraddizione con la
natura trascendentale umana. Se è tale, però, come ha fatto a
nascere e svilupparsi? È nato perché è stato lo strumento
indiretto dell'emersione storica di due significati trascendentali,
il valore dell'individualità e quello dell'appartenenza nazionale,
di cui sono state levatrici storiche le classi borghesi proprio
attraverso la forza tratta dalla nuova economia del plusvalore di cui
erano attrici e profittatrici. Si è sviluppato perché ha utilizzato
per il suo funzionamento risorse non sue: le risorse politiche e
spiritualmente coesive della nazionalità, le risorse psichiche e
comportamentalmente disciplinatrici della famiglia e della scuola
borghesi, le risorse produttive dell'etica religiosa e corporativa
del lavoro, le risorse socialmente regolatrici dei codici d'onore
aristocratici. Ma l'utilizzazione di queste risorse presupponeva
l'autonomia funzionale delle sfere in cui si formavano, e la
parzialità sociale, per quanto determinatrice in ultima istanza
degli indirizzi generali, del modo di produzione capitalistico. Una
volta però che il modo di produzione capitalistico è diventato
totalitario, sottomettendo direttamente alla sua logica di
funzionamento tutte le sfere sociali, questa sua potenza storicamente
assoluta avvelena le stesse risorse antropologiche di cui avrebbe
bisogno. All'altezza del nostro tempo storico si rivela così come la
vera contraddizione distruttiva da cui il capitalismo è segnato non
sia una di quelle tematizzate dalla tradizione marxista (tra capitale
e lavoro, tra borghesia e proletariato, tra forze produttive e
rapporti di produzione), ma quella tra esso e la natura umana. La
potenza che distruggerà il capitalismo sarà dunque la potenza
stessa del capitalismo, dato che in futuro i suoi effetti
universalmente destrutturanti non saranno più contenuti da forme
organizzative precapitalistiche.” (pag.160).
(M.B.)
Questo post è pubblicato anche su "Appello al popolo": http://www.appelloalpopolo.it/?p=12993
(M.B.)
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