Continuiamo la pubblicazione di materiale su Negri
e il pensiero che a lui si ispira. Quanto segue è una mia
riflessione, che ha già circolato in rete, ispirata dalla lettura
del libro di memorie della figlia di Negri.
(M.B.)
Qui alla prima parte
Queste riflessioni prendono spunto dal libro di Anna
Negri “Con un piede impigliato nella storia” (Feltrinelli 2009).
Anna Negri è la figlia di Toni Negri e nel libro racconta le sue
vicissitudini di bambina e poi ragazza negli anni ‘60 e ‘70, alle
prese con le realtà storiche di quegli anni e con il coinvolgimento
diretto in esse dei suoi genitori.
Si tratta di un bel libro di
memorie, che si può consigliare a chiunque voglia avere un'idea di
alcuni aspetti della realtà italiana di quel periodo. Non intendo
discutere qui tutti gli spunti interessanti che il libro offre, ma mi
concentrerò su un passo. In un’estate di fine anni ‘70, Anna,
allora ragazzina che frequenta la scuola media, ascolta una
conversazione politica di suo padre con un interlocutore da poco
conosciuto. Scrive l’autrice:
“Una sera ho assistito a una
discussione interminabile in cui mio padre illustrava la sua teoria
politica a un ragazzo bellissimo che non ne sapeva niente, un
italiano che aveva sempre vissuto a Londra. Mi sono messa ad
ascoltare perché era la prima volta che lo sentivo spiegare tutto
dall’inizio, finalmente ci avrei capito qualcosa anch’io. Il papà
parlava dell’automazione, come per esempio i robot alla Fiat, di
computer che avrebbero liberato gli operai dal lavoro, così tutti
avrebbero potuto lavorare di meno. Solo, continuava, perché questo
accadesse era necessaria la violenza, perché il sistema non
l’avrebbe mai fatto di sua spontanea volontà, e qui né io né il
suo giovane interlocutore riuscivamo a fare il salto teorico” (pag.
70).
In queste poche righe è effettivamente delineata l’essenza
del pensiero di Negri negli anni ’70, pensiero che influì
largamente sul mondo dell’estrema sinistra di quel periodo. Pur
trattandosi di realtà, politiche e intellettuali, oggi piuttosto
lontane, credo sia utile una riflessione che mostri come dietro a
quelle vicende vi siano questioni di fondo di una qualche importanza.
Iniziamo riesponendo, in modo più disteso, quanto è stato detto da
Anna Negri nelle poche righe citate. Dietro alla teoria del Negri
degli anni ‘70 vi è un assunto teorico fondamentale, che è comune
praticamente all’intero marxismo: lo sviluppo della società
capitalistica genera al proprio interno gli elementi fondamentali
della società comunista, destinata a superare la prima. Questi
elementi fondamentali sono, per usare il modo di esprimersi della
tradizione marxista, di ordine oggettivo e soggettivo. Sul piano
oggettivo, lo sviluppo della produttività tipico della società
capitalistica pone, per la prima volta nella storia, le premesse per
il superamento della scarsità. Grazie allo sviluppo capitalistico si
danno le condizioni materiali di una società in cui vi possa essere
per tutti la soddisfazione dei bisogni fondamentali e la progressiva
liberazione dalla necessità del lavoro. Sul piano soggettivo, lo
sviluppo capitalistico genera un nuovo soggetto sociale (il
lavoratore collettivo) in grado di gestire la complessità della
macchina sociale e di farlo non sulla base dell’egoismo e della
competitività dell’homo oeconomicus capitalistico-borghese, ma
sulla base dei principi di giustizia e solidarietà destinati a
informare di sé la società futura.
Come dicevamo, queste
assunzioni teoriche stanno alla base dell’intera tradizione
marxista. La contrapposizione fra riformisti e rivoluzionari,
socialdemocratici e comunisti, all’interno di tale tradizione, può
essere letta come derivante da due diverse declinazioni di quegli
assunti di fondo: per i riformisti il capitalismo era appunto la
società dove poteva svolgersi il progressivo sviluppo dei principi
della società socialista, e quindi la prospettiva era quella di
assecondare tale sviluppo all’interno del capitalismo stesso. Per i
comunisti la società capitalistica era ormai incapace di sviluppo
progressivo, e doveva essere abbattuta per creare al suo posto una
forma intermedia di società che permettesse il passaggio alla
società comunista. Ciò che accomunava queste due diverse
declinazioni degli assunti di fondo è l’idea che la società
giusta e solidale che nasce all’interno del capitalismo è in ogni
caso qualcosa che si realizzerà compiutamente nel futuro. E’
questo il punto cruciale che è messo in questione da Negri negli
anni ‘70. Egli sostiene infatti in quegli anni che lo sviluppo
capitalistico ha ormai prodotto tutte le condizioni, soggettive e
oggettive, del comunismo. Con una formula, la tesi fondamentale del
Negri degli anni ‘70 è che il comunismo c’è già, ma nessuno se
n’è accorto. Questa tesi fondamentale testimonia da una parte la
sostanziale ortodossia del pensiero di Negri rispetto all’assunto
fondamentale, sopra indicato, della tradizione marxista, dall’altra
la sua originalità: il suo modo di declinare tale assunto non è
infatti riconducibile né alla variante socialdemocratica né a
quella comunista.
Se tutto questo è chiaro, possiamo sviluppare
ulteriormente le nostre riflessioni, e iniziamo chiarendo il
passaggio logico che i due giovani interlocutori di Negri fanno
fatica a capire, come ci riporta Anna Negri nel passo sopra citato.
Il fatto cioè che le tesi del Negri degli anni ’70 implicano la
violenza. Infatti, chi teorizza, come fa Negri negli anni ’70, che
esistono tutte le condizioni per la società comunista, cioè per una
società che abbia superato miseria, sfruttamento e sopraffazione e
sia fondata su giustizia, solidarietà e libertà, si ritrova con il
problema piuttosto serio di spiegare come mai l’organizzazione
sociale in cui vive l’umanità non sia appunto quella comunista ma
sia ancora quella capitalistica, con tutto il suo carico di
ingiustizia, sfruttamento, violenza. Di fronte a un simile problema
un marxista non ha molte possibilità di spiegazione. Non può
appellarsi né ad una natura umana malvagia né ad influssi diabolici
né a sfavorevoli congiunzioni astrali. Se esistono tutte le
condizioni oggettive e soggettive per il comunismo ma domina ancora
il capitalismo, un marxista deve dedurne l’esistenza di forze e
interessi che si oppongono al passaggio alla società comunista. E
poiché tali forze non hanno più nessuna giustificazione sul piano
dello sviluppo sociale, se esse si mantengono al potere è solo per
il loro controllo dell’apparato politico e militare, controllo al
quale tali forze rinunceranno solo se costrette con la forza.
Ricordiamo che nel ’73 vi è il colpo di Stato cileno contro il
governo democratico di Salvador Allende. La vicenda poteva essere
letta come la dimostrazione del fatto che i ceti dominanti non
avrebbero mai permesso un superamento del capitalismo attraverso gli
strumenti della democrazia. Una prospettiva teorica di lotta sul
piano anche militare contro la società esistente era dunque una
conseguenza logica delle tesi del Negri degli anni ’70.
Tutte
queste riflessioni riguardano, come dicevamo all’inizio, una realtà
ormai lontana dai problemi del nostro presente. Quanto fin qui detto
ci porta però a ulteriori considerazioni. Non c’è bisogno, io
credo, di spendere molte parole sul fatto che quella tesi
fondamentale della tradizione marxista, l’essere cioè la società
comunista un portato storico dello sviluppo del capitalismo, non ha
nessun reale fondamento. Le argomentazioni, teoriche ed empiriche,
che Marx e il marxismo hanno portato a sostegno di questa tesi non
reggono ad una serio esame razionale. Siamo quindi di fronte
all’errore teorico di un’intera tradizione. Ma dietro a questo
errore teorico si cela un errore morale. Socialisti e comunisti
lottavano per grandi ideali, per la giustizia, la fratellanza, la
fine della violenza e dello sfruttamento. Ma avevano bisogno di una
ideologia che li rassicurasse sul fatto che la società migliore per
la quale essi lottavano era inscritta nelle dinamiche dell’evoluzione
del capitalismo, era insomma garantita dalla storia. Questo bisogno
di rassicurazione ideologica nasconde, come dicevamo, un limite
morale. Chi è realmente convinto del valore degli ideali di
giustizia non ha bisogno di saperli garantiti dalla storia: lotta per
essi nelle forme e nei modi permessi dalle circostanze concrete. Il
bisogno della rassicurazione ideologica, il bisogno di sapere che “la
storia lavora per noi”, nasconde una mancanza di autentica
convinzione sul valore di quegli ideali. Chi crede che la giustizia
ha valore, che è qualcosa per cui vale la pena impegnarsi, solo se è
garantita dalla forza della storia, è in realtà, nel profondo, una
persona che crede non nella giustizia ma nella forza. E questo spiega
perché, quando la forza della rivoluzione si rivelò illusoria,
tanta parte della sinistra, estrema o meno, si riconvertì facilmente
al sostegno ai poteri dominanti. Sta qui, nel sostanziale nichilismo
della tradizione marxista, una delle radici del carattere tragico di
tanta parte della storia del comunismo del XX secolo.
Il comunismo
del XX secolo, nelle sue infinite varianti, dichiarava di ispirarsi
ai valori fondamentali di giustizia, solidarietà, pari dignità per
tutti gli esseri umani. Ma in realtà, nella sostanza storica della
sua azione, l’unico suo principio si riferimento è divenuto il
perseguimento di forza e potere, mentre i valori di riferimento di
riducevano a una forma di falsa coscienza. Ma se si agisce nella
storia avendo la forza e il potere come principi fondamentali, la
propria azione si riduce ad una vuota lotta di potere. E la storia
ridotta a vuota lotta di potere è solo una storia di vittime e
carnefici, che al massimo possono qualche volta scambiarsi i ruoli.
La storia che ci racconta Anna Negri, quella storia nella quale
lei è rimasta “impigliata”, riuscendo per fortuna a non subirne
danni irreparabili, è la storia di uno strato di militanti che ha
creduto di lottare per una società più giusta mentre, essendo privo
di un saldo radicamento negli ideali che dichiarava di avere, non ha
fatto altro che gettarsi in una vuota lotta di potere nella quale è
stato in parte vittima in parte carnefice. Il tragico di questa
vicenda è che i ragionevoli motivi per combattere questo nostro
mondo disumano sono divenuti, in questi decenni, sempre più chiari e
cogenti. Ma solo abbandonando l’errore morale della tradizione
marxista possiamo sperare che la lotta per un mondo più umano non
ricada nel nichilismo che obbliga ad essere o vittime o carnefici.
Molto lucida la riflessione e amara la conclusione. Comunque, considerando le teorie teleologiche di quegli anni, secondo le quali la società comunista era il naturale sbocco della società capitalista, si può dire che sono naufragate sugli scogli della storia, la quale ha dimostrato che nessun avvento del comunismo è possibile motu proprio. Ma di questo se ne sono accorti accorti alcuni teorici marxisti, che dalla visione teleologica (determinista) sono passati ad elaborare una concezione del marxismo come aleatorietà. La società comunista, insomma, è una possibilità dello sviluppo storico della società, non una necessità. In altri termini, il comunismo resta un'Idea, una tensione politica e sociale, non già un dover-essere.
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