Mauro Bonaiuti, La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita, Bollati Boringhieri 2013.
Mauro Bonaiuti ha scritto un testo di grande interesse, che dovrebbe essere letto da tutti coloro che hanno preso coscienza di come l'attuale organizzazione economica e sociale sia sempre più incapace di affrontare i problemi da essa stessa creati, e si stanno interrogando sulle possibili vie d'uscita al vicolo cieco in cui sembra essersi cacciata la nostra società. Il libro offre una grande ricchezza di riferimenti. In questo rispecchia la formazione dell'autore, che ha conseguito un dottorato in Storia delle Dottrine Economiche studiando l'opera di Nicholas Georgescu-Roegen, e ha tenuto corsi di tipo economico in varie Università italiane, ma ha anche studiato autori come Weber, Simmel, Marx, Polanyi, Malinowski, Mauss, che il pensiero economico mainstream non degna di grande attenzione.
Il libro è strutturato in una introduzione e quattro densi capitoli, ed è arricchito dalla prefazione di Serge Latouche. Il primo capitolo esplicita l'approccio generale seguito nel libro, che è quello del “pensiero della complessità”. Il secondo delinea gli aspetti fondamentali della moderna società industriale vista come “età della crescita”, e gli ostacoli contro i quali sembra infrangersi oggi il tentativo di proseguire nella stessa direzione. Il terzo capitolo, probabilmente il più importante sul piano teorico, introduce l'ipotesi che la nostra società sia entrata in una fase di rendimenti decrescenti (ne parleremo meglio nel seguito). Infine l'ultimo capitolo propone diversi scenari di possibili sbocchi politico-istituzionali della crisi attuale.
Come abbiamo detto, il nocciolo teorico del libro ci sembra essere il terzo capitolo, nel quale l'autore espone la tesi che l'attuale organizzazione economico-sociale sia entrata in una fase di “rendimenti decrescenti” (DMR: Declining Marginal Returns). Il concetto è ripreso dagli studi dell'archeologo J.Tainter, che ipotizza uno schema molto generale sulla ascesa e caduta delle società. Secondo Tainter, le società crescono e diventano più complesse per rispondere ai nuovi problemi che devono fronteggiare e per non soccombere ai mutamenti storici. Ma questo processo di complessificazione incontra dei limiti. Scrive Bonaiuti che “l'idea di fondo sostenuta da Tainter è che al crescere della complessità delle strutture che compongono una società, oltre una certa soglia, i benefici di ulteriori incrementi di complessità si riducono (…). Insieme al ridursi dei benefici, i rendimenti decrescenti comportano generalmente l'incremento di varie tipologie di costi, anche questi da intendersi in senso ampio, non economicistico” (pag.99).
Si tratta di un principio generale piuttosto ragionevole, ma che ovviamente deve essere arricchito di analisi concrete per mostrare la propria utilità conoscitiva. È appunto a questo tipo di analisi che è dedicata la maggior parte del capitolo. Bonaiuti discute infatti fenomeni come il “picco” del petrolio e in generale delle risorse minerarie, l'aumento dei costi di educazione, ricerca scientifica e assistenza sanitaria, la separazione (ormai ben nota fra gli addetti ai lavori) dell'andamento degli indici di benessere rispetto a quello del PIL, separazione che inizia negli anni Settanta del Novecento.
Per dare un'idea delle analisi svolte nel libro esaminiamo più in dettaglio una di queste esemplificazioni, quella dedicata alla crisi del modello “keynesiano-fordista” negli anni Settanta del Novecento. Lo schema che propone l'autore è il seguente: la crisi economica degli anni Settanta è dovuta ad un aumento dei costi di produzione (shock petroliferi, aumento del salario diretto e indiretto) che rendono poco profittevoli gli investimenti. Il capitale risponde con la flessibilizzazione del lavoro e la delocalizzazione produttiva, riuscendo così ad abbassare i costi del lavoro e quindi a riottenere accettabili margini di profitto. Ma la delocalizzazione nei paesi del Sud della produzione fordista comporta una tendenza alla “terziarizzazione” dell'attività nei paesi avanzati. Si tratta naturalmente di quei fenomeni che sono stati oggetto di studio da parte di un intero filone del pensiero critico contemporaneo, che per inquadrarli teoricamente ha elaborato categorie come quelle del “capitalismo cognitivo”. Senza addentrarsi in queste discussioni, Bonaiuti mette in luce un aspetto fondamentale di queste nuove realtà sociali: “caratteristica fondamentale della nuova economia terziaria, infatti, è l'essere centrata su un insieme di servizi non standardizzabili, qualitativi, spesso svolti sulla base di relazioni one-to-one e, quindi, non in grado di generare quelle economie di scala tipiche della produzione standardizzata di stampo fordista, che avevano caratterizzato il capitalismo dell'età dell'oro (...). Questo rallentamento della produttività di lungo periodo, che non si ascrive a un singolo fattore della produzione, ma emerge come portato della complessificazione del sistema, spiega l'incapacità delle società capitalistiche avanzate di mantenere i livelli di crescita precedenti e il loro ingresso in una fase di rendimenti decrescenti” (pag.124, corsivi dell'autore).
Lo schema interpretativo di Bonaiuti permette di mettere assieme approcci diversi, con risultati interessanti. Da una parte la crisi degli anni Settanta è interpretata con categorie di natura fortemente sociologica e politica, facendo cioè riferimento a precisi conflitti sociali, politici e geopolitici. Questo è ovvio nel caso della crescita dei redditi del lavoro, ma anche le crisi petrolifere degli anni Settanta sono chiaramente legate ai problemi della politica mediorientale e al ruolo degli USA. Bonaiuti ci spiega inoltre che la risposta del capitale alla crisi si sintetizza in flessibilizzazione e delocalizzazione, che sono due modi diversi di ottenere la stessa cosa, cioè la diminuzione dei salari. In sostanza, nell'interpretazione che di questa vicenda Bonaiuti propone, il problema dei rendimenti decrescenti, e la risposta ad esso dei ceti dominanti, è legato alla lotta di classe fra capitale e lavoro (anche se Bonaiuti non usa questa espressione). D'altra parte nel passaggio ad una economia in cui il terziario cresce di importanza i rendimenti decrescenti hanno invece natura diversa, legata a caratteristiche oggettive del lavoro nei servizi.
Naturalmente le interpretazioni di Bonaiuti possono essere discusse e criticate: un marxista ortodosso, per esempio, parlando della crisi degli anni Settanta, metterebbe al centro la caduta tendenziale del saggio di profitto. Quello che mi sembra importante sottolineare è, da una parte, il fatto che la “tesi DMR” ha una elasticità che le permette di essere fruttuosamente applicata a situazioni diverse, e, dall'altra, il fatto che essa ha bisogno, per non rischiare di diventare un'affermazione generica, di indagini circostanziate che utilizzino diversi strumenti analitici (magari anche quelli del marxismo ortodosso, perché no?).
È abbastanza chiaro che le analisi svolte da Bonaiuti non hanno valore puramente teorico, ma sono ricche di conseguenze politiche. La più importante di tali conseguenze, a mio avviso, sta nel fatto che, se è corretta la tesi che le nostre società sono entrate in un fase DMR, questo sembra impedire alcune delle risposte che i ceti dominanti potrebbero dare alla crisi attuale. Non sembrano cioè più possibili, per i motivi evidenziati da Bonaiuti, le risposte di tipo riformista e socialdemocratico. Questo pone naturalmente un problema serio alle forze e ai movimenti che intendo difendere la civiltà umana dalla devastazione che l'attuale sistema sociale ed economico minaccia: il problema di individuare una direzione generale per il superamento dell'attuale organizzazione sociale. La proposta della decrescita vuole appunto essere una risposta a questo problema, e sarebbe davvero importante che essa fosse presa in seria considerazione da tutti coloro che comprendono l'insostenibilità dell'attuale capitalismo.
(M.B.)
Cito dal post:
RispondiElimina"La più importante di tali conseguenze, a mio avviso, sta nel fatto che, se è corretta la tesi che le nostre società sono entrate in un fase DMR, questo sembra impedire alcune delle risposte che i ceti dominanti potrebbero dare alla crisi attuale. Non sembrano cioè più possibili, per i motivi evidenziati da Bonaiuti, le risposte di tipo riformista e socialdemocratico."
Mi sembra poco investigato il fronte aperto da Marx, sviluppato in seguito da Robinson e Chamberlin e portato a compimento da Berle e Means (questi ultimi praticamente "rimossi" dalla storia dell'economia: a buona ragione direi, almeno secondo il punto di vista classico che scardinano dalle fondamenta) e che mostra, però, una certa attualità
ps i commenti dicono (quasi) tutti che ascoltare e capire sono attività ben distinte (purtroppo)
Interessante. Ma non mi ritrovo.
RispondiElimina“Caratteristica fondamentale della nuova economia terziaria, infatti, è l'essere centrata su un insieme di servizi non standardizzabili, qualitativi, spesso svolti sulla base di relazioni one-to-one e, quindi, non in grado di generare quelle economie di scala tipiche della produzione standardizzata di stampo fordista, che avevano caratterizzato il capitalismo dell'età dell'oro (...).
Dire che lo sviluppo di questo tipo di economia è molto differente da quella Fordista-Keynesiana della “golden age” è una constatazione di fatto, indiscutibile.
Dire però che il forte rallentamento dei tassi di crescita sia dovuto alla mancata crescita di produttività, a sua volta determinata dalle attività non standardizzabili, mi pare che contrasti con la realtà. Che l’attività di creazione di un software, ad esempio, abbia quelle caratteristiche, va bene. Se si guardano però gli effetti, i risultati sono molto, molto diversi. Pensiamo alla progettazione assistita dal calcolatore (CAD). Quanti progettisti servivano una volta e quanti ne servono ora? Per non parlare dell’informatizzazione. Quanti esuberi ci sono nelle banche e quanti cassieri in meno ci saranno quando l’e-bank si diffonderà? Quante segretarie c’erano una volta e quante ce ne sono adesso?. Quanti impiegati del catasto ci saranno? Ecc.
Il punto mi sembra un altro. La crescita dell’industria fordista comportava l’aumento di produttività, la sostenibilità di salari più alti e la diminuzione di mano d’opera per unità di prodotto. Ma, in una fase di grande sviluppo, di bisogni crescenti da soddisfare (automobili, frigoriferi, televisori, ecc.), la crescita del mercato alimentava una domanda crescente. L’aumento di produttività era quindi sostenibile, l’operaio usciva da una parte e rientrava dall’altra. Mi sembra questa la differenza di fondo, la domanda, i bisogni.
Sarebbe poi interessante guardare le cose globalmente, come se il mondo fosse un unico paese. Che in occidente si sia sviluppato il terziario e in oriente il manifatturiero potrebbe essere solamente una diversa divisione internazionale del lavoro. Cioè, quello che accadeva in un singolo paese una volta, adesso possiamo considerarlo su scala mondiale.
l'argomento è già noto, in alcuni circoli di sinistra tedeschi (niente a che fare con spd et similia). infatti nel maggio dell'anno scorso è uscito in germania il libro"Die große Entwertung", di Ernst Lohoff e Norbert Trenkle (gruppo krisis), che tratta appunto in maniera esaustiva la crisi attuale, che poggia sul fatto che il capitalismo non riesce più ad incamerare plusvalore con la produzione di merci, per cui scatena il mercato finanziario...
RispondiEliminasarebbe un libro da tradurre in italiano, perchè importantissimo nell'attuale momento.
franco valdes piccolo proletario di provincia