lunedì 8 settembre 2014

Un sinistra nazionale?

L'ultima edizione di Le Monde Diplomatique si apre con un lungo editoriale di Frederic Lordon, autore che i nostri lettori già conoscono. Il pezzo si intitola significativamente La gauche ne peut pas mourir, e in esso vengono sviluppate varie argomentazioni, a partire dalla tesi dell'ineluttabilità della dicotomia destra-sinistra. Quest'ultima viene definita come il rifiuto della sovranità assoluta del capitale, e al contempo l'affermazione di una sovranità anticapitalista. In concreto tale affermazione deve prendere la forma di lotte reali portate avanti dalle classi subalterne; ma quale deve essere il terreno, lo scenario, di tali lotte? A questa domanda l'autore dà una risposta abbastanza  sorprendente per gli ambienti della sinistra radicale europea:


Resta la questione della scala territoriale entro la quale porre questa dialettica con il capitale (cioè contro di esso, N.d.T.). Nazionale, europea, o altro ancora? È abbastanza chiaro che lo scontro tra le due sovranità e l'avvio di un confronto tra queste due potenze presuppone, dal lato di chi contesta il dominio del capitale, ossia dal lato della sinistra, una grande densità politica, densità di relazioni concrete, di dibattiti, di riunioni, di azioni organizzate, la quale, basandosi sulla mutua comprensione linguistica, trova il proprio luogo d'elezione solo all'interno dello spazio nazionale.

Lo scorso giugno il Coordinamento dei lavoratori intermittenti e precari dell'Ile de France (CPI-IDF) ha invaso i cantieri della Filarmonica di Parigi per incontrare i lavoratori, evidentemente clandestini e provenienti, per la maggior parte, da una moltitudine di diversi paesi. Alla fragilità della loro situazione di estrema precarietà si aggiunge l'impossibilità totale di discutere tra di loro, e dunque di coordinarsi e lottare. E così il padronato, che sa sfruttare magistralmente le divisioni linguistiche, si trova di fronte una massa inconsistente e dispersa. Ecco un caso di genuino internazionalismo proletario; di fatto, un  caso di totale impotenza. 

A costo di urtare le sensibilità degli intellettuali alter-mondialisti, bi e trilingui, abituati a viaggiare e convinti che le loro capacità siano universalmente condivise, è ora di affermare che l'azione internazionale, di per sé possibile e utile, non avrà mai la medesima densità, e pertanto la medesima efficacia, dell'azione radicata nel contesto nazionale.
Ciò ovviamente non esclude gli effetti benefici del contagio e dell'emulazione trans-frontaliera. Non si formerà dunque un unica sinistra post-nazionale, ma più sinistre, radicate localmente ma non per questo meno desiderose di parlarsi e di appoggiarsi reciprocamente. 

Ci vuole tutta l'arroganza degli accademici, incoscienti della particolarità della loro condizione sociale, per ignorare le condizioni concrete dell'azione concreta, e per ricoprire di disprezzo tutto ciò che viene elaborato all'interno dello spazio nazionale, anche se è proprio in quest'ultimo che la quasi totalità delle lotte reali (e non immaginarie) ha avuto e ha luogo. In una parola, per continuare con l'eterna chimera dell'"Internazionale", questo spazio indeterminato e amorfo, quando la politica anticapitalista non può che essere inter/-/nazionale.

Lordon dunque deduce l'esigenza di concentrare le lotte nello scenario nazionale dall'esigenza di omogeneità linguistica, e ricava quest'ultima dalla circostanza che i dominati, per poter incidere nel corso degli eventi, devono ricorrere all'organizzazione, alla discussione, e ad altri momenti di azione collettiva che presuppongono la costante comunicazione tra soggetti. Lo scenario internazionale (e multinazionale) limiterebbe le possibilità di condurre tale comunicazione, e perciò ostacolerebbe l'avvio di lotte reali in grado di affermare una sovranità anticapitalista. La sinistra, anzi le sinistre, per essere tali devono essre in primo luogo nazionali.
Personalmente non sono molto persuaso da queste tesi. Ho l'impressione che Lordon non colga veramente nel segno. Ma si tratta comunque di un ragionamento interessante, e come tale va fatto conoscere e divulgato. (C.M.)


2 commenti:

  1. Totalmente d'accordo con Lordon. Il problema della lotta al capitalismo è globale perché il capitalismo stesso è globale. Tuttavia il fronte che si oppone a questo sistema non ha le risorse per combattere sullo stesso piano: inseguire in quest'ottica l'internazionalismo significa voler combattere sul terreno e con le armi dell'avversario. Una sconfitta sicura, come effettivamente è stato finora.
    Dobbiamo invece scegliere il terreno a noi più congeniale, quello nazionale, su cui è più semplice organizzarsi e avere risultati, anche se di dimensioni limitate. Ogni risultato parziale darà energia, sia localmente sia al di là dei confini nazionali.

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  2. Se è concesso un parallelo militare, la guerra di un popolo oppresso contro l'esercito occupante non può essere che guerriglia... e cosa erano gli scioperi a scacchiera, o quelli bianchi? Dovremo ripensare alla lotta in questi termini.

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