giovedì 5 febbraio 2015

Un libro di Massimo Bontempelli



M.Bontempelli, Un pensiero presente, Indipendenza-Editore Francesco Labonia, 2014



Il gruppo di intellettuali e militanti che pubblica la rivista “Indipendenza” ha fatto un'opera meritoria, raccogliendo in volume gli scritti che Massimo Bontempelli pubblicò sulla rivista nel periodo 1999-2010. Si tratta di un volume di grande ricchezza e spessore intellettuale, che riesce difficile riassumere in una recensione. Bontempelli infatti affronta in questi articoli i temi più diversi, dalla non violenza alla fecondazione assistita, dalla distruzione della scuola pubblica all'origine dello Stato nazionale italiano, dalla decrescita alla “personalità narcisistica”. Per chi non conoscesse Bontempelli, questo semplice elenco (neppure esaustivo!) potrebbe certamente indurre l'opinione che un libro come questo sia una raccolta di scritti estemporanei, magari brillanti e stimolanti, ma certamente poco organici. Sarebbe questa un'opinione del tutto erronea. Le analisi di singoli problemi, spesso indotti dall'attualità della cronaca, sono infatti in Bontempelli sempre ricondotte all'intelaiatura fondamentale del suo pensiero, che è un pensiero “forte”, radicato nella tradizione filosofica occidentale (con il platonismo ad un estremo, e l'idealismo classico tedesco all'altro), nella critica marxiana dell'economia politica, nella capacità di ricostruzione storica della realtà sotto esame.

Come si è detto, il volume affronta molti temi diversi, che non è ovviamente possibile discutere in breve. Mi limito dunque ad un breve accenno a due ordini di problemi, che ricorrono in vari punti del libro, e che penso possano essere di particolare interesse per i nostri lettori.

In primo luogo, uno dei fili conduttori dell'analisi, da parte di Bontempelli, di problemi anche diversi fra loro (dalla crisi della scuola alla riflessione sull'11 settembre), è la necessità di una riconquista della dimensione dello Stato-nazione da parte delle forze che intendono difendere la civiltà sociale del nostro paese assieme ai diritti e ai livelli di vita dei ceti subalterni. Si tratta di un tema la cui importanza spinge Bontempelli a scrivere, fra gli altri, due articoli molto interessanti sull'origine dello Stato-nazione italiano, a partire dalle invasioni napoleoniche. Ovviamente, la tesi della necessaria riconquista della sovranità nazionale implica una forte critica nei confronti della costruzione dell'UE. Le critiche di Bontempelli all'UE riprendono la tesi, da molti ribadita, sull'inesistenza di un popolo europeo, e la approfondiscono, spiegando come i vari presupposti (culturali, economici, linguistici ecc.) che rappresentano la base di una costruzione nazionale “hanno bisogno, per diventare elementi di una vera nazione, di una sintesi politica che ne progetti lo sviluppo nel futuro” (pag.308). Il punto fondamentale è che “le nazioni (…) si attualizzano sempre in connessione con qualche nuova grande idealità emergente nella storia che esse vanno ad incarnare”(ibidem). Le nazioni dell'Ottocento incarnano infatti l'ideale del costituzionalismo liberale. Ma per quanto riguarda l'Europa, prosegue Bontempelli, essa “non può essere uno Stato-nazione, anche perché in sé non è espressione di alcun nuovo ideale storico che possa unificare le sue divaricazioni interne. La vacuità unitaria culturale si conferma pure nella sua versione odierna, in cui è soltanto una moneta, una Banca centrale ed una regolamentazione di pura mediazione tra i diversi egoismi economici” (ibidem).

In secondo luogo, Bontempelli analizza, in molti degli articoli raccolti nel libro, il modo in cui l'attuale “capitalismo assoluto” influisce sulla dimensione della personalità. Si tratta di una analisi che rimanda alla teorizzazione filosofica, antropologica e psicologica che Bontempelli ha sviluppato in vari testi e in particolare in “Filosofia e realtà” (edizioni CRT 2000). Per Bontempelli il capitalismo diviene “assoluto” quando la sua logica riesce a informare di sé non solo l'ambito della produzione ma l'insieme della società. Gli effetti di questa nuova situazione, che Bontempelli data a partire dall'ultimo quarto del Novecento, sono, per quanto riguarda il tema in questione, la creazione e la diffusione di nuove forme di personalità: in particolare la personalità narcisistica, che in epoche precedenti era sì presente ma minoritaria, diviene oggi il tipo umano “di riferimento”. Queste innovazioni psicologiche e antropologiche sono la radice ultima, secondo Bontempelli, dell'impotenza in cui si dibattono i vari movimenti antisistemici, che continuano a combattere alcuni aspetti del capitalismo senza capire come la pervasività della logica capitalistica abbia oggi radicalmente spostato il fronte della lotta. Tale impotenza rende purtroppo altamente probabile un esito fortemente drammatico della crisi del capitalismo, che secondo Bontempelli è destinata ad avvitarsi su se stessa: in sostanza il capitalismo crollerà per le sue contraddizioni senza che nasca al suo interno una forza storica capace di guidare il suo superamento in modo da minimizzarne la distruttività. Su questo punto credo convenga lasciare la parola allo stesso Bontempelli, con una lunga citazione che spero possa dare al lettore un'idea dello spessore e della densità del suo argomentare: “ogni sistema sociale stabilmente strutturato, per quanto oppressivo, in quanto stabilmente strutturato esprime sul piano empirico qualche sia pur empiricamente deformato significato trascendentale. Il capitalismo è invece l'unico sistema il cui funzionamento è in contraddizione con la natura trascendentale umana. Se è tale, però, come ha fatto a nascere e svilupparsi? È nato perché è stato lo strumento indiretto dell'emersione storica di due significati trascendentali, il valore dell'individualità e quello dell'appartenenza nazionale, di cui sono state levatrici storiche le classi borghesi proprio attraverso la forza tratta dalla nuova economia del plusvalore di cui erano attrici e profittatrici. Si è sviluppato perché ha utilizzato per il suo funzionamento risorse non sue: le risorse politiche e spiritualmente coesive della nazionalità, le risorse psichiche e comportamentalmente disciplinatrici della famiglia e della scuola borghesi, le risorse produttive dell'etica religiosa e corporativa del lavoro, le risorse socialmente regolatrici dei codici d'onore aristocratici. Ma l'utilizzazione di queste risorse presupponeva l'autonomia funzionale delle sfere in cui si formavano, e la parzialità sociale, per quanto determinatrice in ultima istanza degli indirizzi generali, del modo di produzione capitalistico. Una volta però che il modo di produzione capitalistico è diventato totalitario, sottomettendo direttamente alla sua logica di funzionamento tutte le sfere sociali, questa sua potenza storicamente assoluta avvelena le stesse risorse antropologiche di cui avrebbe bisogno. All'altezza del nostro tempo storico si rivela così come la vera contraddizione distruttiva da cui il capitalismo è segnato non sia una di quelle tematizzate dalla tradizione marxista (tra capitale e lavoro, tra borghesia e proletariato, tra forze produttive e rapporti di produzione), ma quella tra esso e la natura umana. La potenza che distruggerà il capitalismo sarà dunque la potenza stessa del capitalismo, dato che in futuro i suoi effetti universalmente destrutturanti non saranno più contenuti da forme organizzative precapitalistiche.” (pag.160).
(M.B.)


Questo post è pubblicato anche su "Appello al popolo": http://www.appelloalpopolo.it/?p=12993


Nessun commento:

Posta un commento