Per continuare il discorso sulla cultura contemporanea, ripropongo qui, a puntate, un saggio apparso originariamente sulla rivista “Koiné”, nel '98, e poi ripubblicato in “Ricercando la comune verità” (edizioni CRT, Pistoia 1999). Essendo passati 14 anni da quando l'ho scritto, è ovvio che oggi cambierei parecchie cose, cercando di esprimere meglio quanto avevo in mente. Ma questi cambiamenti riguarderebbero la forma e non la sostanza. Non ho cioè cambiato posizione rispetto alla tesi fondamentale di questo saggio: cioè la tesi che alcuni aspetti basilari della cultura della sinistra contemporanea (qui erano esaminati il relativismo culturale “politically correct” e la nozione di “avanguardia artistica”) siano perfettamente funzionali all'attuale capitalismo post-borghese e post-proletario, e siano quindi veri e propri ostacoli culturali per l'elaborazione di un pensiero e di una cultura anticapitalistiche. Su questa tesi vorrei si concentrasse l'eventuale discussione, mentre per quanto riguarda le tante imperfezioni formali ed espressive non dirò nulla a mia difesa, visto che le ho fin troppo presenti.
(M.B.)
Alla parte 2
IL MONDO DELL'INDIFFERENZA
1. Premessa
In questo saggio esamineremo alcuni aspetti della attuale “cultura di sinistra” che riteniamo
significativi, diffusi nel senso comune e dei quali stimiamo urgente la critica e il superamento,
se si vuole ricostruire un pensiero anticapitalista adeguato ai tempi. Prenderemo in considerazione da una parte il relativismo culturale e dall’altra alcuni aspetti delle concezioni delle avanguardie artistiche che ci pare siano penetrati nel senso comune, almeno di significative minoranze. Per quanto riguarda il primo punto, parleremo di relativismo culturale o di “pensiero delle
differenze”. È indispensabile precisare che non esamineremo specificamente autori e testi. Non
studieremo il pensiero di J. Derrida o di L.Irigaray. Ovviamente si tratta di uno studio indispensabile all’approfondimento delle posizioni che cercheremo di sostenere. Non è però questo il luogo per una tale discussione, né l'autore di queste righe ha la competenza necessaria. Quello
che faremo sarà piuttosto la critica di un senso comune diffuso. In questo modo si rischia una
certa indeterminazione e imprecisione: mentre esistono libri firmati dal signor Derrida a cui
ricorrere per capire le sue posizioni, non esiste nessuno libro firmato dal signor Senso Comune,
e quindi nessuno può affermare con sicurezza quali siano le tesi del senso comune. Posso solo
augurarmi che il lettore si trovi d'accordo con le scelte che sono state compiute, a questo proposito, nelle pagine che seguono.
Per quanto riguarda l'organizzazione di questo saggio, le sezioni di critica esplicita al senso comune della sinistra sono le sezioni 4 e 6, dedicate rispettivamente all'esame del relativismo
culturale politically correct e all'esame del “surrealismo di massa”. Queste sezioni sono precedute da due lunghe citazioni di F. Fortini (sezioni 3 e 5), che esprimono perfettamente alcune
delle convinzioni che ci hanno guidato. In particolare la seconda citazione (sez.5) è fondamentale per capire l'argomentazione da me svolta nella Sezione seguente. Infine nella sezione 2 si
cerca di dare una base “dialettica" all’idea del “rispetto delle differenze”. Poiché il relativismo
culturale ritiene di essere l'autentico difensore delle differenze culturali, non può che giudicare
come nemico di tali differenze, nemico del multiculturalismo, chiunque critichi il relativismo
stesso. Ci è parso perciò necessario mostrare come il rispetto delle differenze possa essere fondato su basi teoriche lontane dal relativismo culturale.
2. La tua libertà e la mia. La tua libertà è la mia.
La compresenza, nell’attuale mondo “globalizzato”, di culture, etnie, linguaggi, profondamente diversi, è da tempo considerata un problema non solo politico-sociale, ma anche teorico e
filosofico. La risposta che a questo problema dà il senso comune “di sinistra” (ma non solo) è in
fondo semplice: le diverse culture sono dei dati di fatto, e occorre riconoscere a tutte gli stessi
diritti; tutte devono essere rispettate, nessuna deve prevaricare sull’altra. Chiameremo “pensiero delle differenze” questo insieme di semplici principi diffusi nel senso comune. La tesi fondamentale del “pensiero delle differenze" è dunque che tali differenze sono dati di fatto, dati empirici, e si tratta di “rispettarle”, articolando il gioco delle loro interazioni in maniera che nessuna abbia a sopraffarne un’altra. Si tratta naturalmente di idee molto vicine ai temi classici del pensiero liberale, secondo il quale gli individui sono il dato di partenza e si tratta di costruire una società nella quale le loro libere interazioni siano rispettose della libertà di tutti. In entrambe le forme di pensiero, la libertà di “ciascuno” (individuo o cultura, etnia, razza, sesso) deve accettare di essere limitata dalla libertà dell'altro. La mia libertà finisce dove comincia quella dell'altro.
All'intemo di alcune correnti di pensiero non liberale è stata però presente, magari in forma
sotterranea, non esplicitata, una concezione ben diversa, secondo la quale la libertà dell'altro è
condizione della mia libertà, ovvero io posso essere libero solo se tutti lo sono assieme a me. Si
tratta di una concezione della libertà incomprensibile all'interno del “pensiero delle differenze",
nelle sue varie forme. Per tale pensiero il “rispetto dell'altro" si pone, in sostanza, come un
imperativo morale, e la tesi che la mia libertà ha bisogno della tua può essere concepita solo come una estremizzazione di tale imperativo: chi rispetta gli altri è “buono”, chi addirittura
giunge a sentire la mancanza di libertà dell'altro come una mancanza della propria libertà è
“molto buono”, quasi un santo (liberale).
Ma la tesi che abbiamo enunciato sopra, essere la tua libertà condizione della mia, non è una
tesi liberale, neppure una tesi liberale “estremistica”. Essa rimanda a una concezione di individuo diversa da quella della tradizione liberale. Mentre nel pensiero liberale (compresa quella sua forma moderna che è il “pensiero delle differenze”) gli individui sono dati, e a questo dato di fatto si sovrappone dall'esterno l'imperativo morale del rispetto dell’altro, la tesi non liberale che abbiamo enunciato sopra si basa su una concezione nell’individuo (e delle “grandi unità storiche”, culture, etnie ecc.) nella quale quest'ultimo non è dato a priori ma si definisce nelle sue interazioni con l’altro, che quindi sono costitutive della sua stessa identità. Chi meglio è riuscito a pensare il problema in questi termini è forse Hegel. Consideriamo infatti il seguente passo, apparentemente lontano dai temi che stiamo trattando, e vediamo cosa possiamo ricavarne.
“[...] il negativo [...] non si risolve nello zero, nel nulla astratto, ma si risolve essenzialmente
solo nella negazione dei suo contenuto particolare, vale a dire che una tal negazione non è una
negazione qualunque, ma la negazione di quella cosa determinata che si risolve, ed è perciò
negazione determinata. Bisogna, in altre parole, saper conoscere che nel risultato è essenzialmente contenuto ciò da cui esso risulta [...1. Quel che resulta, la negazione, in quanto è negazione
determinata, ha un contenuto. Cotesta negazione è un nuovo concetto, ma un concetto che è superiore e più ricco che non il precedente“ (G. W. F. Hegel, Scienza della Logica, Laterza 1994,
p. 36, trad. A. Moni).
Per cercare di capire cosa ci vuol dire Hegel, facciamo un esempio “classico” di incontro con
l'altro: l'incontro fra la civiltà occidentale e le civiltà extraeuropee, nella fase storica dell'espansione dell'Occidente, fra Cinquecento e Ottocento. Nell'incontro col “selvaggio” la civiltà occidentale ha naturalmente la possibilità di negarne la natura umana, assimilandolo alla natura. A
questo si contrappone la possibilità del riconoscimento del “selvaggio” come nostro simile. Tale
riconoscimento può però essere modulato in forme diverse. Esso può infatti divenire una assimilazione dell’altro alla propria cultura e alla propria storia, e quindi una negazione della sua
identità: si ha questo caso quando si ritrova nel “selvaggio” l'organizzazione mentale del bambino, o quando egli viene assimilato, evoluzionisticamcnte, ad una fase sorpassata della storia
occidentale. Sembra però che Hegel, nel brano citato, individui un'altra possibilità. Se ogni negazione è negazione determinata, allora posso pensare il “selvaggio” non come alterità assoluta né come parte della mia storia, ma come negazione specifica e determinata di alcune parti
della mia cultura. La sua cultura è allora una delle possibilità latenti nella mia (e viceversa). Io
avrei potuto essere il “selvaggio”, e lui il mio “scopritore”, se diverse contingenze storiche
avessero favorito certi aspetti potenziali in me (nel passato della mia civiltà) e represso altri.
L'altro rappresenta così una mia possibilità latente e inesplorata. E inoltre, l'incontro di queste due “negazioni determinate” è la possibilità di “un concetto” (di umanità) “superiore e più ricco”. È solo dall’incontro con l’altro che io posso capire quali sono le possibilità inesplorate in
me; ma capire ciò che in me è latente, ciò che io avrei potuto essere, è fondamentale per capire
chi sono, e quindi per stabilire saldamente, attraverso questa comprensione, la mia identità. È
dunque solo attraverso l'incontro con 1'altro che definisco la mia identità. L'identità si costruisce attraversando la differenza. Da questo punto di vista, il razzismo, essendo un rifiuto del
confronto con l'altro, appare anche come un rifiuto delle parti inesplorate di sé, e quindi si
rovescia in cecità totale su di sé. E in impossibilità di accedere a quel concetto “superiore e più
ricco” di cui si diceva prima. Rifiutando l'umanità dell'altro, il razzista rifiuta la possibilità di
arrivare allo sviluppo pieno della propria umanità [1].
Ma l'altro può svolgere questa funzione solo se è realmente libero e autonomo da me. L'incontro con l'altro mi costringe a rflettere sulla mia identità, a confrontare davvero la sua identità e la mia. Ma perché questo possa accadere, l'altro deve essere libero. Non deve essere un oggetto che io posso manipolare, posso costringere a piegarsi alla mia volontà cosciente o ai miei desideri inconsci. Se questo fosse possibile potrei venire a capo della sua imbarazzante diversità costringendolo entro gli schemi, mentali, culturali, sociali, da me costruiti. Non ci sarebbe dunque autentico confronto. Per costringermi a riflettere su chi io sia, e quindi costringermi a fondare realmente la mia identità, l’altro deve essere libero. Solo la libertà della donna mi costringe a capire cos'è il mio essere uomo. Solo se il suo amore è un libero dono di sé, l'amore diventa, anche attraverso gli errori, un'esperienza di crescita di coscienza.
Ecco dunque il senso della tesi non liberale che abbiamo enunciato all'inizio. La tua libertà
e condizione della mia perché è solo attraverso l'esperienza della tua libertà, cioè attraverso il
confronto con un'identità “altra”, da me non manipolabile, che io definisco la mia stessa identità. La tua libertà è costitutiva della mia identità, e viceversa; e dunque non “io rispetto la tua
libertà” è il motto che facciamo nostro, ma: io ho bisogno della tua libertà. C’è una conseguenza che non deve essere taciuta: proprio perché io ho bisogno della tua libertà, ovviamente la
rispetto e la difendo. Ma non posso rispettare e difendere qualsiasi tua scelta. In particolare, non posso rispettarti se tu scegli di rinunciare alla tua libertà, se scegli di umiliarla o avvilirla. Io ho
bisogno di te come essere umano adulto, libero, autonomo, e non posso accettare la tua rinuncia
a libertà e autonomia. Questa mia posizione non deve però diventare un nuovo modo per limitare la tua libertà. Siamo dunque di fronte ad alcuni dei problemi fondamentali cui si arriva indagando questi temi (si può “costringere qualcuno ad essere libero”?). Non pretendiamo di averli
risolti in queste brevi righe. Indichiamo soltanto un modo di affrontarli diverso da quello del
“pensiero delle differenze”, che ci sembra più di questo adeguato alla realtà degli esseri umani.
[1]
Da questo punto di vista, si potrebbe un po'
scherzosamente concludere che è proprio la piena umanità del
razzista a essere posta in dubbio. Ma. continuando lo scherzo,
ribadiamo che il nostro antirazzismo è così solido e radicato da
portarci ad affermare, solennemente e irremovibilmente, che’
“perfino i razzisti sono esseri umani come gli altri!"
Sono assolutamente d'accordo. Il problema da far comprendere ritengo però che sia, ancora prima del superamento della dicotomia desta-sinistra, proprio la coscienza che viviamo in un'epoca post-borghese e post-proletaria (almeno in Occidente). Perché senza questa consapevolezza il "superare le dicotomie destra-sinistra" si trasforma in qualunquismo grillino del "sono tutti uguali". Ed è proprio questa mancata consapevolezza che impedisce anche a intelligenti pensatori come Luciano Canfora affermare che il problema non è superare la dicotomia destra-sinistra, ma quello per cui la sinistra non esisterebbe più. E invece la sinistra esiste, eccome se esiste. Soprattutto nei luoghi comuni e nel conformismo di quel circo intellettuale politicamente corretto così bene descritto da Costanzo Preve.
RispondiElimina