Iniziamo la pubblicazione di alcuni interventi, vecchi e nuovi, sull'area culturale e politica che in modo molto generico possiamo definire “negriana”, nel senso che essa fa sostanziale riferimento al pensiero di Antonio (“Toni”) Negri. E' un'area che va dai centri sociali al “Manifesto” (almeno in molte sue pagine), sicuramente minoritaria nel paese ma capace di influire sul dibattito culturale e politico. Le tesi che sosteniamo in questo blog sono tutte, più o meno, in contrasto con le posizioni di quest'area, e riteniamo che un “confronto diretto” possa quindi essere interessante. Cominceremo col pubblicare materiale di qualche tempo fa. Oggi vi proponiamo alcuni brani estratti da una recensione scritta da me e pubblicata sulla rivista “Koiné” (CRT editore, Pistoia) nel numero di luglio-dicembre 1998. Fa riferimento a due testi usciti in quel periodo: F. Berardi, La nefasta utopia di Potere Operaio, Castelvecchi 1998; A. Negri, I libri del rogo, Castelvecchi 1997.
Il primo è una storia del gruppo “Potere Operaio” e delle evoluzioni di quel pensiero. Il secondo raccoglie una serie di testi del Negri degli anni Settanta.
(M.B.)
La recente pubblicazione di questi due libri è un'occasione per iniziare a riflettere su una tendenza culturale che è stata significativa, nella sinistra italiana ed europea degli anni Sessanta e Settanta, e che ancora oggi, dopo aver subito vari adattamenti allo "spirito del tempo", riesce a esprimere le tensioni culturali e politiche di minoranze non trascurabili. Ci riferiamo a quel filone di pensiero ed esperienza politica che negli anni Sessanta e Settanta fu chiamato "operaismo" e che rappresenta oggi, in forme mutate, uno dei riferimenti culturali del variegato mondo della cultura "radicale" e "alternativa". Antonio Negri e Franco Berardi sono due esponenti significativi di queste tendenze. In particolare Negri ne è forse il pensatore più originale e coerente.
Il libro di Berardi ci offre una storia del gruppo operaistico più famoso, appunto Potere Operaio, ma ci dà anche indicazioni sul modo i cui la cultura operaistica si è trasformata ed è confluita nell'universo dei centri sociali. Il libro di Negri raccoglie invece testi degli anni Settanta, fra cui i famosi "libelli", originariamente pubblicati negli Opuscoli Marxisti della Feltrinelli, che vennero saccheggiati da magistrati e giornalisti desiderosi di ribadire il ruolo di "cattivo maestro" attribuito a Negri.
Entrambi questi libri meriterebbero una discussione approfondita, che speriamo di poter fare in altra sede. Nello spazio di una recensione credo sia necessario trascurare molti aspetti pur interessanti per concentrarci sul punto principale, che a mio parere consiste nel cercare di capire quale sia la tesi fondamentale, la chiave di volta che regge l'intero edificio del pensiero operaista (o "composizionista", come propone di battezzarlo Berardi) negli ultimi venticinque anni. L'utilità di questi due libri mi pare stia proprio nel fatto che permettono di porsi questa domanda e di tentarne una risposta.
A nostro parere l'operaismo degli anni Settanta riprende, in modo aderente al progetto intellettuale originario di Marx, l'idea che ci sia una necessità intrinseca che spinge il modo di produzione capitalistico a produrre al proprio interno gli elementi fondamentali della società comunista.
Il passaggio al comunismo ha le sue basi nel formazione di una nuova figura sociale, il lavoratore collettivo unificato, che si crea all'interno del capitalismo. In questa figura si opera la fusione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, fra classe operaia e "potenze mentali della produzione" (per le quali Marx usa l'espressione inglese, famosa fra gli aficionados, di general intellect).
Questa figura sociale è la trave di volta del progetto comunista, perché la fusione col general intellect le permette il pieno controllo della produzione sociale, e di fronte ad essa la proprietà capitalistica e i rapporti sociali capitalistici (in particolare, il rapporto del lavoro salariato) appaiono mere escrescenze delle quali è facile liberarsi.
Questo tipo di impostazione del problema del “passaggio al comunismo” è, lo ripeto, del tutto "ortodossa" e aderente al progetto originario di Marx. Cosa vi aggiunge l'operaismo degli anni Settanta che lo distingua dalle altre correnti del marxismo di quegli anni ("ufficiale" o "eretico")?
Vi aggiunge la tesi, semplicissima e dirompente, che il processo di formazione del lavoratore collettivo unificato è in sostanza già avvenuto. Si è già creato il soggetto sociale responsabile del comunismo, si è ormai operata la fusione col general intellect, i rapporti sociali capitalistici sono ormai una mera sopravvivenza che si regge solo su una forza priva di qualsiasi legittimità.
In sostanza, il comunismo c'è già, basta solo togliere il velo dei residuali rapporti capitalistici. Negri ripete questa tesi, con notevole coerenza, lungo tutti gli anni Settanta. Nei suoi scritti di quegli anni essa appare come la tesi del "deperimento della legge del valore". Con questa espressione si intende dire che, avendo ormai la produzione un carattere sociale, non è più possibile misurare il contributo del singolo alla produzione, e in particolare misurarlo nei termini del tempo speso dal singolo nella produzione stessa. È chiaro che questa tesi si regge solo sul presupposto che la produzione sociale sia l'opera di un soggetto collettivo, unificato al suo interno e fornito, in modo "diffuso", delle necessarie competenze.
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Queste sono dunque le tesi di fondo del pensiero operaista in quel periodo. Cosa succeda dopo ce lo spiega il libro di Berardi. Tralasciando la ricostruzione storica e molte questioni interessanti per concentrarci sul nocciolo, la tesi di fondo del libro di Berardi è la seguente: lo sviluppo tecnologico indotto dal capitale è ormai arrivato ad un punto tale da rendere possibile il superamento del rapporto di lavoro salariato, come pure di molti dei lati più negativi del capitalismo stesso (anche se forse non del capitalismo in quanto tale, visto che a pag. 145 del suo libro Berardi dichiara "probabilmente eterno" il capitalismo). La rete informatica che collega il pianeta, e che si sviluppa sempre di più in ampiezza delle realtà coinvolte e profondità del suo impatto su ogni aspetto della vita, non è un luogo di comando e gerarchia ma è un luogo di interazione creativa, rappresenta il futuro di un mondo produttivo non più gerarchizzato e sottomesso al dominio del profitto ma divenuto momento di libera espressione vitale della collettività.
Credo appaia evidente il legame profondo fra le tesi del Negri anni Settanta e quelle di Berardi anni Novanta (che si riferiscono comunque anche agli anni Settanta). Se si vuol comprendere la corrente culturale che stiamo esaminando, questo legame è, a mio avviso, molto più importante e significativo delle superficiali differenze di riferimenti culturali (negli anni Settanta i Grundrisse di Marx, oggi il pensiero post-strutturalista francese e il cyberpunk). Esaminando le tesi fondamentali sopra esposte, si capisce che i nostri due autori dicono in sostanza stessa cosa: è lo sviluppo delle forze produttive indotto dal capitalismo, inteso sia nel senso di sviluppo della tecnologia sia in quello di sviluppo di nuovi soggetti, a generare le condizioni di superamento del capitalismo stesso. La principale di queste condizioni è la creazione di soggetto sociale "collettivo" nel quale si concentrano le "potenze mentali della produzione", la capacità tecnica, scientifica, comunicativa di direzione, controllo e sviluppo della macchina produttiva e dell'intero corpo sociale. Questo soggetto collettivo non ha più bisogno delle attuali forme dei rapporti sociali (in particolare della forma del lavoro salariato), le avverte come un peso di cui può e vuole scrollarsi. Di fronte all'impressionante uniformità di questa forma di pensiero lungo più di vent’anni, mi pare non sia molto rilevante notare il fatto che questo soggetto collettivo sia, all'inizio, il proletariato di fabbrica, poi l'operaio sociale, e ora quella realtà collettiva che chiamiamo Internet (o di cui, forse, Internet è prefigurazione e annuncio). Questi cambiamenti ci sembrano poco più che cosmetica, piccole correzioni necessarie per adattare la tesi di fondo ai mutamenti della realtà.
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Per criticare questo pensiero occorre prendere il toro per le corna e mettere in questione l'assunto principale: è vero che il capitalismo produce un soggetto sociale unificato capace di gestire produzione e sviluppo sociale? E' vero che il comunismo c’è già ma non ce ne siamo accorti? Basta guardare fuori dalla finestra per sviluppare almeno qualche ragionevole dubbio: sono quasi trent'anni, dicevamo, che operaismo e derivati ci ripetono instancabilmente che ormai è fatta, ormai il soggetto sociale anticapitalista occupa la scena, ormai il superamento del capitalismo (o almeno, dei suoi lati più barbarici) è all'ordine del giorno. In questi trent'anni ne abbiamo viste molte, ma niente che ai nostri occhi renda minimamente sensata la tesi fondamentale dell'operaismo e dei suoi sottoprodotti. Abbiamo visto il capitalismo contenere e far arretrare l'ondata di lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta, e riprendersi a poco a poco tutto quello che era stato costretto a concedere. Abbiamo visto il capitalismo resistere alle lotte antimperialiste, diffuse in tutto il mondo, di quegli stessi anni Sessanta e Settanta, reagire, contrattaccare e far crollare definitivamente il proprio antagonista “socialista”. Abbiamo visto il capitalismo unificare il mondo sotto l'impero del profitto e del mercato. Abbiamo visto un vorticoso sviluppo tecnologico rigidamente sottomesso all'imperativo del profitto e della
competizione (e della supremazia militare USA), senza il minimo accenno alla possibilità di indirizzare lo sviluppo stesso alla soluzione dei problemi che affliggono e preoccupano l'umanità (dalla fame alla distruzione dell'ambiente). Abbiamo visto i rapporti di produzione capitalistici estendersi sempre più in profondità nei paesi "avanzati", abbiamo visto le leggi della competizione, del profitto, della mercificazione universale invadere ogni ambito della vita fino a rendere quasi incomprensibile l'idea stessa che si possa vivere altrimenti che così. Abbiamo visto svuotarsi la democrazia e ridursi sempre di più la capacità degli abitanti di questo pianeta di capire e controllare il mondo in cui vivono. Avendo in mente questa realtà, sentire ripetere, in forma più o meno aggiornata ma in sostanza sempre identica, la vecchia solfa della "maturità del comunismo" non può che farci ridere, o forse piangere.
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Sì, mi pare proprio che il "general intellect" preconizzato da Marx, e che solo una sua distorsione interpretativa ha voluto identificare con la classe operaia tout court (mentre avrebbe dovuto essere l'unione di tutte le forze produttive, dall'operaio di più basso livello al manager, in funzione del superamento del capitalismo borghese), non solo non si sia realizzato, ma sia stato soppiantato, nella seconda parte del XX secolo, dal progressivo scollamento tra le singole forze produttive, tra il lavoratore sempre più precarizzato e il manager sempre più assurto a funzioni "padronali", fino ad arrivare a un capitalismo radicalmente diverso da quello borghese ottocentesco, cioè composto da funzionari del capitale (per dire à la La Grassa).
RispondiEliminaQuello che sempre mi colpisce del "mostro sacro" Negri è che le sue analisi sono permeate da una sorta di ottimismo "desiderante", cioè da una lettura della realtà condizionata da visioni e desideri che non vi hanno ragionevole riscontro.
Nota OT: negli anni Sessanta e Settanta esistevano formazioni politiche (non parlamentari) le cui analisi avevano fondamenti oggettivamente migliori di quelle di PO.
Negri: l'arte della fuga (in avanti)
RispondiEliminaMolto interessante. Spero che Marino pubblichi altri suoi "vecchi "testi come questo. Come le lettere a Rossanda.
RispondiEliminapiero meaglia