martedì 24 settembre 2013

Siamo noi i nipoti di Keynes


Per una discussione su decrescita ed economia


1. Introduzione
Questo articolo vorrebbe essere uno stimolo per una discussione sul tema della decrescita fra i sostenitori della decrescita stessa, da una parte, e, dall'altra, quegli economisti eterodossi che contestano in modo radicale le attuali politiche di austerità, e in generale il pensiero e le politiche neoliberiste, a partire da posizioni keynesiane o marxiste o da una mescolanza delle due correnti di pensiero. Si tratta di un dibattito che ho a più riprese  invocato, l'ultima nelle pagine finali del libro sull'euro scritto assieme a Fabrizio Tringali [1]. Purtroppo le diffidenze e le ostilità fra i due gruppi non sembrano diminuire. I decrescisti vedono nelle posizioni degli economisti “eterodossi” semplicemente una versione “di sinistra” del dogma della crescita che essi combattono, gli economisti “eterodossi” vedono nella decrescita una ideologia reazionaria, confusionaria e incapace di fornire risposte reali e non regressive ai drammatici problemi contemporanei.
È mia convinzione che queste diffidenze possano e debbano essere superate, e in questo scritto cercherò di argomentare questa convinzione. Credo che questo superamento sia un'urgenza del tempo presente. La crisi che il mondo oggi attraversa risulta dal confluire di varie crisi relativamente indipendenti: siamo di fronte infatti ad una crisi economica che non si riesce a superare e ad una incipiente crisi ecologica [2]. E' evidente che non è possibile fornire risposte separate a queste due crisi. La risposta alla crisi ecologica non può prescindere dai problemi drammatici della disoccupazione e delle crescenti ineguaglianze, perché, se facesse così, la preoccupazione per l'ambiente apparirebbe come una fisima di benestanti senza problemi. D'altra parte, la risposta alla crisi economica non può sperare di ripercorrere le strade tipiche del keynesismo del  “trentennio dorato”, perché quel modello era basato sulla fortissima crescita dei consumi materiali, che oggi non sembra più possibile dati i vincoli ecologici [3]. Il confronto su questi temi appare quindi una esigenza imprescindibile per confrontarsi seriamente con la nostra realtà.



2. Cos'è la decrescita
Cos'è la decrescita? I concetti fondamentali sono stati spiegati con molta chiarezza da autori come Maurizio Pallante e Serge Latouche [4]. Assieme a Massimo Bontempelli, abbiamo cercato in varie occasioni di chiarire alcuni punti importanti [5], ma poiché sembra vi sia ancora parecchia confusione, ripetiamo qui in sintesi i concetti fondamentali. Il punto di partenza è la distinzione fra beni e merci. I beni sono i prodotti del lavoro umano che soddisfano bisogni, le merci sono quei particolari beni prodotti per essere venduti sul mercato in cambio di denaro. Ciò che si chiama “crescita” o “sviluppo” consiste nell'aumento dei valori monetari delle merci prodotte in un'economia. Consiste cioè nell'aumento quantitativo della sfera della produzione e dello scambio di merci. È il volume di questa sfera della società ciò che viene misurato dal PIL. Questo aumento storicamente è avvenuto da una parte grazie ad una grande crescita quantitativa della produzione di beni materiali in forma di merci, resa possibile dagli enormi aumenti di produttività realizzati all'interno del modo di produzione capitalistico, dall'altra grazie all'estensione della logica capitalistica molto al di là della sua sfera iniziale. E' successo cioè, per chiarire questo secondo punto, che una grande quantità di beni e servizi che un tempo erano creati dal lavoro umano non in forma di merci, e destinati all'autoconsumo o a scambi di tipo non mercantile, sono stati sostituiti da analoghi beni e servizi prodotti in forma di merce. Per cui, per fare due esempi banali, un tempo la famiglia produceva da sé buona parte del cibo che consumava, mentre oggi esso viene quasi tutto comprato; un tempo l'assistenza a bambini ed anziani era un servizio prestato all'interno dei rapporti non mercantili della famiglia (allargata) mentre oggi sempre più si ricorre a babysitter e badanti a pagamento.
Ora, questo sviluppo ha indubbiamente consentito enormi progressi: ha sottratto alla miseria la grande maggioranza degli abitanti dei paesi occidentali, e allo stesso tempo ha sottratto gli individui ai legami di rapporti umani predeterminati, consentendo lo sviluppo di individualità autonome.
Il problema che non può più essere eluso è il fatto che questo tipo di sviluppo sembra aver raggiunto un punto di svolta, oltre il quale gli svantaggi  e i contraccolpi negativi che esso produce cominciano a superarne i vantaggi. Ovviamente i problemi ecologici (inquinamento, esaurimento delle risorse, cambiamenti climatici) fanno parte di questi contraccolpi negativi, sul lato dei rapporti fra società e natura. Ma si potrebbe aggiungere che ormai lo sviluppo ha effetti negativi direttamente sul corpo sociale. Il fatto che l'intero ambito sociale venga riconformato secondo la logica del profitto non può non devastare tutti quei mondi la cui logica intrinseca è estranea all'aziendalismo: la scuola o l'assistenza sanitaria, per esempio.
Il punto è che il modo di produzione capitalistico non ha come fine il bene degli esseri umani. Esso non ha in effetti altro fine che la propria riproduzione allargata. La crescita economica, in quanto espressione della logica del capitale, è senza fine e senza fini. E se per un periodo storico essa ha rappresentato, pur tra mille contraddizioni, un indubbio fattore di progresso, questo dipende appunto non dalla sua logica intrinseca ma da una serie di “condizioni al contorno”. Non è quindi contraddittorio pensare che, al cambiare di tali condizioni, la stessa crescita economica possa diventare fattore di regresso. Una delle tesi fondamentali della decrescita è appunto che si sia oggi arrivati a questo punto: le condizioni che hanno fatto sì che la crescita abbia rappresentato un progresso non ci sono più, e non ci sono più, possiamo aggiungere, proprio per effetto della crescita.  Come s'è detto, l'esigenza del profitto, o della riproduzione allargata del capitale, non ha nessun legame logico con l'esigenza di conservazione degli instabili equilibri ambientali, o con la logica dell'educazione insista in una istituzione come la scuola, o con quella dell'assistenza insita nel concetto di assistenza sanitaria. In altri termini, estendendosi il rapporto sociale capitalistico, esso piega alla sua logica ambiti sociali che dovrebbero rispondere a logiche diverse, e che ne vengono quindi stravolti, dissestati e sostanzialmente aboliti nella loro specificità. La crescita diventa distruttiva di società e natura (almeno di una natura accogliente per gli esseri umani: ovviamente, anche un deserto di scorie inquinate abitato solo da muschi e scarafaggi è pur sempre “natura”). I problemi dell'inquinamento e dell'esaurimento delle risorse, che rendono oggi difficile pensare ad una crescita economica che prosegua ancora a lungo con i ritmi che ha avuto nei decenni del secondo dopoguerra, sono quindi solo un aspetto particolare di questa problematica più ampia [6].
La contraddizione fondamentale nella quale si trovano prese le nostre società capitalistiche è dunque la seguente: da una parte la crescita è necessaria, all'interno dell'attuale organizzazione sociale, per produrre e distribuire ricchezza in modo da prevenire la dissoluzione della società, dall’altra la crescita è ormai distruttiva sia della natura sia del legame sociale. Se mi è permessa una autocitazione, il capitalismo “è ormai la maledizione del genere umano, che è condannato, per creare e distribuire ricchezza secondo i rapporti di produzione capitalistici, in maniera sufficiente a mantenere un minimo di equilibrio sociale, a vivere in modo sempre più distruttivo nei confronti della natura e di se stesso” [7].
La proposta della decrescita vuole confrontarsi con questa situazione e proporre una soluzione a questa drammatica contraddizione. La soluzione consiste nell'uscire dal meccanismo della crescita senza fine e senza fini, facendo regredire (anche se non scomparire) la sfera della produzione capitalistica di merci. Si tratterebbe di reintrodurre, per quanto possibile, forme di autoproduzione di beni (non di merci) destinate all'autoconsumo o a reti di scambi non mercantili, di ridurre l'orario di lavoro, di introdurre una estesa rete di servizi sociali gratuiti forniti dallo Stato [8]. Poiché non possiamo scrivere qui un altro libro sulla decrescita, rimandiamo ai testi sopra citati per approfondimenti su queste proposte. Basti qui sottolineare che l'idea che le sostiene è quella di una società nella quale tutti abbiano assicurati i servizi fondamentali e abbiano anche il tempo, libero dal lavoro salariato, per vivere relazioni umane che permettano la riproduzione dei legami sociali, e fra le altre anche le relazioni che permettano scambi non mercantili di beni e servizi. Se questo è il lato “positivo” della decrescita, il suo lato “critico” può essere formulato nel modo seguente: essa è la messa in questione del dogma alla base della politica e dell'economia contemporanee, il dogma secondo cui la crescita è condizione necessaria (magari non sufficiente) per risolvere tutti i fondamentali problemi sociali, col corollario che quei problemi che non possono essere affrontati tramite la crescita non vengono affrontati per nulla.

3. Cosa non è la decrescita (risposta a qualche obiezione)
Dopo aver così sommariamente spiegato cosa è la decrescita, possiamo provare a dire cosa essa non è, cioè a dissipare alcuni dei punti di poca chiarezza che ritornano continuamente nel dibattito su questi temi.
Un punto fondamentale è il seguente:  la decrescita non significa l'imperativo di diminuire il PIL in ogni intervallo di tempo [9]. Non si chiede cioè di impostare politiche economiche che facciano costantemente diminuire il PIL. E' chiaro che attuare un programma di conversione ecologica dell'economia (per usare la bella espressione di Guido Viale) richiederà investimenti che tenderanno a far crescere il PIL. Impostare una politica economica indirizzata alla decrescita può quindi significare, in certi momenti, far aumentare il PIL. Resta il fatto che, a meno di oscillazioni, la tendenza sarà quella alla diminuzione del PIL, proprio perché l'aumento del PIL ha bisogno dell'estensione del rapporto sociale capitalistico a sempre nuove sfere sociali, e una politica di decrescita vuole invece far regredire la sfera sociale soggetta a tale rapporto sociale. Ora, poiché l'intera struttura sociale attuale si basa sulla crescita, è chiaro che impostare una politica che, anche solo tendenzialmente e sul medio periodo, porti alla diminuzione del PIL, significa sconvolgere la società, e tale sconvolgimento deve essere fronteggiato con opportune misure politiche ed economiche [10]. E' dunque fondamentale che chi propone una politica indirizzata alla decrescita abbia presente questo carattere destrutturante che ha l'idea della decrescita rispetto all'attuale organizzazione sociale. In questo senso, è corretto insistere sul concetto della diminuzione del PIL, nonostante, come s'è detto, possa portare all'equivoco di pensare che la proposta della decrescita equivalga alla proposta di una diminuzione del  PIL in ogni intervallo di tempo.
Se si tengono presenti le cose fin qui dette, e i lavori che abbiamo sopra citato, è possibile superare molte delle obiezioni e delle incomprensioni che circolano in relazione al tema della decrescita. I testi sopra citati (in particolare Per un'abbondanza frugale di S.Latouche) cercano in vari modi di chiarire le molte possibili incomprensioni, e non ripeteremo qui discussioni già svolte. Può essere però interessante discutere alcune obiezioni nelle quali mi sono imbattuto di recente e che non rientrano quindi dentro la casistica di quelle già esaminate nei miei scritti precedenti. La discussione servirà a mostrare come, se c'è chiarezza concettuale, non sia difficile proporre una prima risposta  a tali obiezioni, permettendo quindi a chi le ha formulate di elaborarle e facendo quindi maturare il dibattito.
La prima obiezione è quella di chi dice che i decrescisti attaccano la nozione stessa di PIL. Ma, prosegue l'obiezione, il PIL è semplicemente un concetto scientifico come un altro, utile a descrivere lo stato di un'economia, e non ha senso “prendersela col PIL” più di quanto abbia senso prendersela con la carica elettrica o la temperatura, concetti scientifici utilizzati nelle scienze fisiche. La risposta a questa obiezione è abbastanza semplice: essa sembra nascere da una conoscenza non approfondita delle tesi del movimento della decrescita. Può darsi, certamente, che in certe sue formulazioni più “sloganistiche”, la decrescita sembri attaccare il PIL in quanto tale. Ma l'essenza della decrescita consiste in primo luogo nella critica al dogma, sopra enunciato, della crescita del PIL come risposta ai problemi sociali, e in secondo luogo nella tesi che, nelle condizioni attuali, perseguire la crescita del PIL porta a effetti negativi. Per utilizzare il paragone con le scienze fisiche, la posizione della decrescita non ha analogie con l'ipotetica posizione di un pazzo che critichi “il concetto di temperatura”, ma piuttosto con la posizione di chi combatte il riscaldamento climatico globale. La differenza mi sembra chiara.
La seconda obiezione è quella di chi nota che il PIL può benissimo crescere per lo sviluppo di un'economia “immateriale”, non legata alla produzione di oggetti fisici, e quindi la crescita del PIL non porta necessariamente a problemi come quelli dell'inquinamento o dell'esaurimento della risorse. A questa osservazione si possono dare essenzialmente due risposte. La prima è contenuta in quanto si è detto all'inizio. L'invasività della merce non riguarda solo la natura ma anche la società. L'estensione del modello dell'azienda a ogni forma di attività sociale distrugge i fondamenti stessi del legame sociale. È difficile pensare che una crescita del PIL basata soprattutto sui servizi non contempli il fatto che tutta una serie di servizi oggi forniti (ancora) dallo Stato, o all'interno di relazioni non mercantili (tipicamente, la famiglia) debbano diventare merci da comprare sul mercato. Ma abbiamo detto che questa dinamica è uno degli aspetti della crisi sociale contemporanea, e contro di essa combatte il pensiero della decrescita.
Il secondo tipo di risposta riguarda il fatto che sembra poco credibile una crescita del PIL che riguardi solo i servizi e non coinvolga in nessun modo la produzione materiale. In primo luogo, nessun servizio oggi viene fornito a mani nude. La crescita dei servizi informatici fa aumentare le vendite di computer, e così per il resto. Inoltre, in ogni caso, la crescita comporta l'aumento del reddito globale, ed è difficile pensare, ferma restando la nostra organizzazione sociale, che questo aumentato reddito non si traduca nell'aumento di acquisti di beni materiali (e non solo di servizi). I tecnici informatici, assunti per produrre servizi immateriali, col loro stipendio si compreranno, possiamo immaginare, auto, cellulari, viaggi in aereo, case al mare e così via. In sostanza sembra difficile isolare la crescita “immateriale” da quella materiale, e sembra difficile pensare che la crescita, comunque ottenuta, non abbia in ogni caso effetti negativi sul problema dell'inquinamento e dell'esaurimento delle risorse.
Una terza obiezione è legata alla attuale crisi economica, ed è quella di chi suggerisce che la decrescita possa essere lo strumento ideologico dei ceti dominanti per far accettare ai ceti subalterni le conseguenze negative della recessione economica. I ceti dominanti, che non sanno come far uscire le nostre società dalla crisi economica, starebbero cioè favorendo il diffondersi della tematica della decrescita perché in tal modo sarebbe più facile far accettare il permanere della crisi stessa e le sue conseguenze di povertà sui ceti medi e bassi. Chi formula tale obiezione commette a mio avviso diversi errori. In primo luogo confonde la nozione di decrescita con quella di recessione. Non mi dilungo molto sull'importanza di questa distinzione, perché ne ho già parlato nei testi scritti assieme a Bontempelli, sopra citati. Basti dire che la recessione è la diminuzione del PIL all'interno dell'attuale struttura economica e sociale, la decrescita è la diminuzione del PIL all'interno di un percorso di radicale cambiamento di tale struttura. E sembrerebbe davvero strano che i ceti dominanti all'interno di una determinata struttura economica e sociale progettino un radicale sovvertimento della stessa struttura. Si tratterebbe di un evento piuttosto raro nella storia umana. E oltretutto, se davvero lo volessero, non avrebbero che da farlo, visto che stiamo parlando appunto dei ceti dominanti, cioè di coloro che hanno il potere reale. Questa osservazione ci porta alla seconda obiezione che si può fare a questa tesi: davvero non si vede nessuna traccia di questa “scelta della decrescita” da parte dei ceti dominanti. Se si ascoltano le dichiarazioni di tutto il ceto dirigente italiano ed europeo (i politici di destra, centro e sinistra, i sindacati, le associazioni di imprenditori, il mondo accademico che conta, i giornali importanti) è evidente che la crescita è considerata come una delle priorità fondamentali e che i sacrifici che vengono chiesti ai ceti medi e bassi sono giustificati con la promessa che essi porteranno ad una crescita stabile (non certo alla decrescita). Se talvolta da costoro viene usato il termine decrescita, è solo come sinonimo di recessione, e ovviamente questo non è il modo per renderlo popolare. Se poi questo ceto dominante non riesce ad assicurare la crescita che insegue da anni, questo non dipende dal fatto che intenda scegliere la decrescita, ma dipende dal fatto che ci sono situazioni nelle quali vengono al pettine i nodi strutturali di una fase storica, e i ceti dirigenti vedono esplodere una serie di contraddizioni che non riescono più a gestire. E' mia convinzione che questa sia appunto la situazione attuale.

4. Cos'è il progresso?
Può essere interessante, per introdurre alcune considerazioni che spero possano far progredire il dibattito, discutere brevemente ancora un'altra delle tipiche obiezioni rivolte contro la decrescita, quella cioè di essere nemica del progresso scientifico e tecnologico. Si tratta di una obiezione che non ha nessun fondamento. Al contrario, la decrescita richiede avanzamenti scientifici e tecnologici per poter essere efficace: essa ha infatti bisogno di una politica di risparmi energetici e, contemporaneamente, del passaggio dalle fonti fossili a quelle rinnovabili; ha poi bisogno di innovare totalmente la produzione materiale, puntando a prodotti di lunga durata, facilmente riparabili e i cui materiali, alla fine della loro vita, possano essere totalmente recuperati. È evidente che tutto questo (e sono solo degli esempi, per quanto importanti) richiede che lo sviluppo scientifico e tecnologico vada avanti. Certo, la decrescita non è favorevole a qualsiasi sviluppo scientifico e tecnologico: alcuni settori andranno fermati e altri ampliati o creati ex novo. Ma questa non è nient'altro che normale politica delle ricerca.
In generale, si potrebbe pensare che la decrescita sia contraria al progresso, e assuma quindi la posizione di una ideologia reazionaria, nostalgica del buon tempo antico e della vita contadina prima della modernità. Non possiamo certo escludere che posizioni di questo tipo si ritrovino entro il movimento della decrescita, e a suo tempo abbiamo polemizzato con alcune loro espressioni. Il punto sta nel fatto che è perfettamente possibile una decrescita non reazionaria, ed essa, come abbiamo detto all'inizio, potrebbe entrare in sintonia con alcune tesi elaborate in questi anni da economisti progressisti esterni al mainstream neoliberista tipico della professione.
È certo che occorre diffidare dell'ideologia del progresso in quanto legge metafisica della storia. Su questo non c'è bisogno di spendere molte parole, perché un tale tipo di critica è stata fatta da  importanti pensatori del Novecento (un esempio fra i tanti, il Benjamin delle “tesi di filosofia della storia”)[11]. Una tale critica all'ideologia del progresso, del resto, è largamente indipendente dalle tesi della decrescita, e ne è piuttosto un presupposto logico. Questo però non significa negare che nei due secoli di storia della modernità capitalistica dei paesi occidentali vi sia stato, pur fra mille contraddizioni, un progresso reale e concreto. Il punto decisivo da capire è il seguente: la decrescita è la risposta ad una situazione nuova, appunto quella in cui ci troviamo dopo due secoli di progresso (contraddittorio, accidentato, segnato da conflitti, ma pur sempre progresso). Il miglioramento effettivo e drastico delle condizioni di vita della maggioranza delle persone, nei paesi occidentali, ha creato problemi nuovi, per affrontare i quali occorrono nuovi modi di pensare. È  assurdo affrontare i problemi creati dalla crescita eccezionale degli ultimi due secoli con schemi mentali adatti alla situazione precedente.
Facciamo due esempi concreti, per spiegare la situazione.
Il primo esempio è quello dell'obesità [12]. Si tratta di un problema del quale si stanno occupando seriamente le autorità sanitarie di tutti i paesi occidentali (e non solo). Essa viene ormai descritta come una pandemia, la cui incidenza nella popolazione sta costantemente aumentando e che colpisce, in gradi diversi, tutti i paesi sviluppati, ma non solo essi. L'obesità è un serio problema sanitario perché si associa a vari tipi di disturbi e all'aumento di mortalità. L'obesità cioè, tendenzialmente, fa vivere di meno e peggio. Inoltre, l'obesità colpisce maggiormente gli strati sociali inferiori [13]. Se tutto questo è vero, appare evidente come lo sviluppo economico degli ultimi secoli, e in particolare quelli dei decenni succeduti alla Seconda Guerra Mondiale, abbia cambiato almeno alcuni dei caratteri di quella che era chiamata “la questione sociale”. Semplificando, forse un po' troppo, per esigenze di chiarezza, potremmo dire che una volta i poveri erano affamati, oggi, almeno nei paesi occidentali, sono obesi [14]. Ma questo significa che sono cambiati i problemi, e che non si possono più affrontare gli aspetti attuali della “questione sociale” con le idee adatte alle situazioni di penuria nelle quali si è dibattuta l'umanità per larga parte della sua storia. Lo sviluppo economico ha creato problemi nuovi che vanno affrontati nella loro specificità. L'obesità è il risultato del mangiare troppo e male. È chiaro che la soluzione non sta nello sviluppo, nella produzione di quantità sempre maggiori di cibo. La soluzione sta nel mangiare  meno e meglio. Il punto è  che  non sembra possibile impostare seriamente una politica del “mangiare meno e meglio”, all'interno del paradigma della crescita, perché è proprio tale paradigma che porta all'esplosione del problema dell'obesità. Del resto, questo slogan “meno e meglio”, è esattamente la descrizione della decrescita [15], che propone in generale di produrre meno merci ma migliori, cioè più durature e a minore impatto ambientale.
Il secondo esempio è quello dei regali ai bambini. Nella generazione di mia figlia, che frequenta la scuola primaria, è prassi normale che per il compleanno si organizzi una festa in cui vengono invitati tutti i piccoli compagni di scuola più altri bambini con i quali ci sono delle relazioni amicali. Ogni invitato porta un regalo, e ciò significa che al festeggiato arrivano 20 o 30 regali. Nel mio ricordo, ai compleanni di me bambino e dei miei coetanei il festeggiato riceveva forse 4 o 5 regali. Ecco allora un tipico esempio di crescita. L'aumento del reddito permette di pagare feste di compleanno più dispendiose che implicano un maggior numero di invitati e quindi di regali, e le maggiori spese (sia per la festa sia per i regali)  contribuiscono all'aumento del PIL e quindi all'aumento del reddito globale. La domanda da porsi è ovvia: ma i bambini sono più felici? La risposta non è semplice. E' certo che, una volta instaurata la prassi dei 20 o 30 regali, il bambino percepirebbe il ritorno ai 4 o 5 regali come una perdita. A maggior ragione se questo riguardasse solo lui o lei, mentre gli amici continuerebbero a ricevere i 20 o 30 regali. Ma il bambino è anche fortemente condizionato dal suo ambiente, cioè dalla famiglia e dal gruppo di amici. In una situazione nella quale fosse usuale per tutti i bambini ricevere 4 o 5 regali, difficilmente un bambino  normale percepirebbe questo come una perdita: esattamente come succedeva a me bambino e ai miei amichetti. Ci si può allora chiedere, indipendentemente dalle preferenze del bambino, cosa sia meglio per lui. Da questo punto di vista, appare difficile sostenere che il passaggio dai 4-5 regali ai 20-30 sia davvero un progresso per il bambino. E' banale ricordare che la crescita umana del bambino ha bisogno soprattutto di genitori che abbiano tempo per lui, di amici con cui giocare, di cure e attenzione. Certo, ha bisogno anche di giocattoli: ma è ovvio che il giocattolo è solo un supporto per la creatività del gioco, e che il bambino, se opportunamente stimolato, può davvero giocare con quasi qualsiasi cosa. La bulimia da giocattoli  non appare quindi utile alla crescita umana del bambino. Del resto, si tratta di una verità che ciascuno di noi si porta dentro. Se ognuno si guarda dentro, alle radici delle proprie ferite, delle scelte affettive sbagliate, degli errori che abbiamo commesso nella vita, si scopre sempre un bambino che ha sofferto nel rapporto con i genitori, per una madre incapace di amare o un padre severo e distante. Ma per quanto ci guardiamo dentro, difficilmente troveremo un bambino che ha sofferto perché ha ricevuto 5 regali invece di 30, in una situazione in cui ricevere 5 regali era la cosa normale nella propria cerchia di relazioni. E lo stesso possiamo pensare dei nostri figli:  i nostri errori di genitori saranno quelli di essere stati o troppo distanti o non abbastanza, o troppo severi o non abbastanza. Se avranno delle ferite saranno, anche per loro, quelle di un rapporto sbagliato con i propri genitori, non certo quelle di un giocattolo in meno.
Vorrei precisare un punto, perché sia chiaro il discorso che qui si tenta di fare: non si sta sostenendo che il rapporto genitori-figli 40 o 50 anni fa fosse migliore di adesso, e non si sta quindi dicendo che tornando a fare meno regali ai figli, di per sé, questo rapporto migliori. Il discorso è piuttosto il  seguente. Cinquanta anni fa la nostra economia ci permetteva di fare certe cose: si lavorava per un certo numero di ore alla settimana e potevamo permetterci di regalare 5 giocattoli ad un bambino per il suo compleanno. Da allora la nostra economia è cresciuta, siamo più ricchi. Ma cosa ne abbiamo fatto di questa ricchezza? Senza che nessuno lo abbia chiaramente scelto, abbiamo deciso di continuare a lavorare un tempo più o meno uguale a prima e di regalare 30 giocattoli per il compleanno di un bambino. Non era possibile una scelta diversa? Non era possibile pensare di continuare a regalare 5 giocattoli invece di 30, e lavorare di meno in modo che i genitori potessero stare più tempo con i figli? E se questo non è stato possibile farlo finora, perché non pensare di poter cominciare a farlo adesso? In sostanza ciò che si propone non è di tornare alla situazione di 50 anni fa, ma di usare la maggiore ricchezza in modo diverso rispetto a quanto è stato fatto finora.

5. Quali bisogni?
Il discorso della decrescita si collega in maniera ovvia a tutte le analisi critiche che sono state svolte, da decenni a questa parte, sulla società dei consumi. E questo tipo di critiche si collega a sua volta ad una riflessione di tipo antropologico e filosofico sull'essere umano e sulla natura dei suoi bisogni e desideri.
I temi fondamentali della critica alla società dei consumi sono stati svolti e approfonditi, come s'è detto, da decenni. Al loro sviluppo hanno contribuito gli autori più diversi [16]. Si può dire che tali temi siano ormai entrati nel senso comune. Anche nelle conversazioni più banali, al bar o in uno scompartimento del treno, può capitare di sentire echi di quelle elaborazioni intellettuali. I temi della critica alla società dei consumi che adesso ci interessano possono essere riassunti nella tesi che la società dei consumi è una società che deve creare continuamente insoddisfazione: il consumatore deve essere continuamente spinto a sentire di breve durata il piacere delle merce appena comprata. Un consumatore soddisfatto non consuma più.
La soddisfazione dei bisogni fondamentali non può essere il fine dell'economia, perché, una volta soddisfatti tali bisogni, la crescita verrebbe bloccata. Di conseguenza, la società dei consumi deve continuamente creare nuovi bisogni per spingere il pubblico all'acquisto di merci che li soddisfino.
La società dei consumi si basa quindi su un meccanismo che non è eccessivo definire nevrotico: si devono creare continuamente insoddisfazioni che portino all'acquisto di merci ma non ad una vera soddisfazione, che bloccherebbe il ciclo del consumo. L'acquisto compulsivo diventa la copertura, la reazione nevrotica ad una insoddisfazione di fondo.
La proposta delle decrescita si accorda in modo naturale con questo tipo di analisi critica: al posto dell'acquisto compulsivo di merci destinate a rapida obsolescenza si propone la soddisfazione nel possesso di beni durevoli, nella liberazione del tempo dal lavoro salariato e nella cura della relazioni umane.
Nei dibattiti intellettuali sono state sollevate varie obiezioni a questo tipo di analisi della società dei consumi.
In primo luogo si obbietta che la distinzione fra “bisogni fondamentali”  e “bisogni indotti” non appare ben fondata, perché in qualche modo tutti i bisogni hanno un carattere di costruzione sociale, e quindi sono in un certo senso indotti. Se è vero che l'essere umano deve mangiare, e che il suo apporto calorico quotidiano non può scendere sotto una certa soglia, è anche vero che esistono forme diversissime di soddisfazione di questo bisogno primario. Gli esseri umani, nella loro storia, hanno consumato i cibi più diversi nei modi più diversi. E queste diversità hanno, in larga parte, una matrice sociale.
In secondo luogo, la critica alla crescita dei bisogni e delle merci per soddisfarli può apparire come una critica regressiva allo stesso processo di civilizzazione. Infatti tale processo può essere visto appunto come la creazione di sempre nuovi bisogni (il bisogno di mangiare con le posate invece che con le mani o di mangiare cibi cotti invece che crudi, il bisogno di abitare in case riscaldate invece che in capanne o caverne, per fare qualche facile esempio) e dei mezzi per soddisfarli. Criticare la creazione di nuovi bisogni può apparire allora come l'invito a tornare ad abitare nelle caverne mangiando cosce di bisonte crude.
Per rispondere a queste obiezioni conviene partire dalla seconda. L'errore di tale obiezione è quello di non distinguere fra tipi diversi di bisogni. E' certo che la crescita di civiltà implica la crescita di sempre nuovi bisogni e della capacità di soddisfarli, ma questo non vuol dire che la civiltà consista nella creazione e soddisfazione di qualsiasi bisogno. Se così fosse, bisognerebbe concludere che la tossicodipendenza è un grande contributo alla civiltà, e sforzarsi di diffondere il più possibile l'uso delle più diverse droghe. L'ideale umano sotteso a queste argomentazioni è proprio quello della persona dipendente da droghe, e anzi dal maggior numero possibile di droghe diverse, visto che aumento dei bisogni= aumento della civiltà. Per uscire da queste contraddizioni occorre distinguere fra tipi diversi di bisogni, e rendersi conto che esiste una gerarchia fra bisogni, per cui una volta soddisfatti i bisogni materiali, la crescita di civiltà non sta in un aumento indifferenziato dei bisogni, ma nella crescita dei bisogni che sono specifici dell'essere umano, che è l'essere capace assieme di ragione e di sentimenti. Una volta che siano assicurati a tutti il cibo, la casa, il vestiario, la scuola, l'assistenza sanitaria e così via, i bisogni che fanno crescere la civiltà sono i bisogni relativi al godimento dei prodotti dello spirito umano: dalle relazioni umane stesse ai prodotti dell'arte e dell'intelligenza. Ma la proposta della decrescita va appunto in questa direzione: diminuire la dipendenza dalle merci e l'orario di lavoro per aumentare la possibilità di godere delle relazioni umane e dei prodotti dello spirito.
Si tratta di una posizione teorica che non è certo nuova nella storia del pensiero: solo per restare al pensiero occidentale, è in sostanza quello che hanno detto e ripetuto la quasi totalità dei filosofi, a partire da Platone. Proprio nei testi di Platone si può infatti trovare una analisi del carattere negativo e insoddisfacente della soddisfazione dei piaceri materiali come fine in sé, e della necessità, per trovare una vera soddisfazione per l'essere umano, di passare ad un altro livello di piaceri e godimenti. E' interessante notare che le analisi di Platone possono essere facilmente lette come una tematizzazione critica ante litteram sia del consumismo che delle tossicodipendenze, e presentano forti assonanze con quanto descritto in tempi moderni da ex-tossicodipendenti a proposito della loro esperienza [17].
Per quanto riguarda la prima obiezione, quella relativa al carattere storicamente determinato dei bisogni umani, e alla conseguente difficoltà teorica di distinguere fra “bisogni fondamentali” e “bisogni indotti”, occorre naturalmente accettarne il fondo di verità. E' proprio così, ciò che è “bisogno” per l'essere umano dipende grandemente dalla situazione storicamente determinata di ciascuna società, e la distinzione fra i due tipi di bisogni non è quindi fissata una volta per tutte. Ma la correttezza di questa osservazione non invalida il discorso della decrescita. Cerchiamo di spiegare perché. Cominciamo con l'osservare un aspetto curioso di questa obiezione. Essa ci dice in sostanza che la nozione di “bisogno” è storicamente determinata, che i “bisogni” sono in qualche modo plasmati dalla storia e dalla società. Ma perché questa osservazione corretta deve implicare che sia un bene andare verso la moltiplicazione continua dei bisogni e delle merci che dovrebbero soddisfarli? Il fatto che i bisogni siano storicamente determinati, e quindi in qualche modo plasmati dalla storia e dalla società, non significa che si debba accettare ogni forma storicamente determinata di struttura dei bisogni. Potrebbe anzi significare che, di fronte ad una data struttura dei bisogni, è pensabile che essa possa essere cambiata, andando nella direzione di una maggiore frugalità. Ma, potrebbe ribattere il critico della decrescita, se si vuole andare nella direzione di una diminuzione dei bisogni di beni materiali, occorrerebbe dire fino a che punto essa debba arrivare, quale sia il livello di bisogni che è “giusto” e “naturale” soddisfare; ma questo, per quanto detto sul carattere storicamente determinato dei bisogni, appare impossibile. Questa obiezione appare ragionevole perché si ha in mente una immagine sbagliata del mutamento storico, l'idea cioè che i grandi cambiamenti storici avvengano sulla base di programmi stabiliti a priori nei dettagli, che si tratta solo di applicare. In questo caso occorrerebbe avere stabilito a priori il piano che stabilisca i bisogni “naturali” da soddisfare e quelli “indotti” da cassare. Ma i grandi mutamenti storici non avvengono mai in questo modo. In molti casi i Grandi Piani Strategici proprio non ci sono (nessuno ha programmato il passaggio dalla società antica, basata sulla schiavitù, al medioevo feudale) e quando ci sono vengono sempre disattesi: le cose, nei grandi mutamenti storici, non vanno mai secondo i piani. Cosa significa tutto ciò rispetto al problema di cui stiamo discutendo? Significa che una politica per la decrescita dovrà senz'altro cercare una riduzione del consumismo e della spinta alla creazione di sempre nuovi bisogni materiali. L'obiettivo non sarà quello di arrivare a  un livello di bisogni “giusti” fissato in anticipo ma sarà quello di diminuire il più possibile lo spreco di risorse naturali, l'inquinamento, l'effetto serra, l'impronta ecologica. Il fatto di avviare politiche di questo tipo provocherà una serie di contraccolpi a partire dai quali si potrà discutere di nuovi livelli di bisogni. Si avvierà in questo modo una dinamica di mutazione della struttura dei bisogni che andrà nella direzione di un rapporto fra economia, legami sociali e natura che non sia distruttivo nei confronti degli ultimi due termini. Quale sia il livello “giusto” di bisogni che permetterà questo equilibrio, risulterà dalla concreta dinamica storica. È impossibile e fuorviante pensare di stabilirlo apriori.

6. Economisti critici.
Dopo questa lunga discussione nella quale abbiamo cercato di tratteggiare alcuni aspetti della costellazione teorica legata alla decrescita, possiamo finalmente cercare di capire se vi sono analogie con quanto vanno sostenendo alcuni economisti di ambito più o meno “eterodosso”. E' chiaro infatti che nessun contatto vi può essere con gli economisti mainstream, per i quali la crescita è l'alfa e l'omega della politica economica e che si dividono solo sul tema di quali siano le ricette più efficaci per ottenere la tanto agognata crescita.
In effetti, sembra che esistano alcune minoranze eterodosse alle quali ha senso proporre una interazione col pensiero della decrescita.
E si può cominciare proprio dal pensiero di J.M Keynes, che nel 1930 pubblica un articolo dal titolo “Prospettive economiche per i nostri nipoti” [18]. La tesi di questo breve testo è molto semplice: è possibile secondo Keynes pensare che lo sviluppo economico dei prossimi cento anni porterà ad una tale crescita di ricchezza da assicurare la soluzione del “problema economico”. Ciò significa che in sostanza sarà possibile assicurare a tutti la soddisfazione dei “bisogni assoluti” [19] con un impegno lavorativo sempre minore. Keynes parla esplicitamente di “turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore” [20]. Le conseguenze umane di questa situazione sono da Keynes abbozzate con poche e interessanti osservazioni:

“Vedo quindi gli uomini liberi tornare ad alcuni dei principi più solidi e autentici della religione e della virtù tradizionali: che l'avarizia è un vizio, l'esazione dell'usura una colpa, l'amore per il denaro spregevole, e che chi meno s'affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e della profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all'utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l'ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano” [21]

Al di là dei voli lirici di Keynes il senso delle sue parole mi sembra piuttosto chiaro: il superamento del “problema economico” comporterà un profondo mutamento nei valori di fondo, dando a tutti la possibilità di concentrarsi su ciò che è specifico dell'essere umano invece che sulla lotta per la sopravvivenza. Ovviamente Keynes scriveva in un momento storico nel quale non erano attuali né il problema ecologico né la deriva consumistica. Ma non è difficile inserire queste tematiche nella sua prospettiva. Il punto fondamentale della proposta di Keynes è infatti quello di insistere sulla crescita economica fino a dare a tutti una larga soddisfazione di quelli che lui chiama “bisogni assoluti”, per poi usare la ricchezza per liberare il più possibile il tempo della vita dal lavoro. Se in questo inseriamo l'idea di perseguire un sistema di  consumi centrato sul risparmio (di energia e materiali), sul rifiuto del consumismo, sulla necessità di curare le relazioni umane per gestire reti di scambio non mercantili, otteniamo una proposta molto simile a quella illustrata nella prima parte di questo saggio.

Questo tipo di riflessioni keynesiane sono state sviluppate da vari autori. Per quanto riguarda l'Italia, ci sembra particolarmente significativo il lavoro di Giovanni Mazzetti [22], che da decenni sostiene la tesi di una riduzione generalizzata dell'orario di lavoro come unica via per uscire dal vicolo cieco in cui ci hanno cacciato le politiche economiche neoliberiste. Il discorso di Mazzetti è molto ricco e rigoroso (coinvolgendo in maniera essenziale il pensiero di Marx, oltre a quello di Keynes) e non possiamo sicuramente riassumerlo qui. Cerchiamo di evidenziare alcuni punti che ci sembrano significativi in relazione alle argomentazioni che stiamo qui sviluppando. In vari testi, Mazzetti ricorda come le politiche keynesiane del secondo dopoguerra abbiano portato a un forte sviluppo economico che ha cambiato in profondità le società occidentali. Ma quel tipo di sviluppo tocca i propri limiti negli anni Settanta del Novecento. La risposta progressiva a quel punto poteva essere quella di ulteriori passi avanti nella strada della liberazione degli esseri umani dalla schiavitù economica, nella direzione indicata appunto da Keynes nel saggio sopra discusso. Per motivi che sarebbe troppo lungo discutere qui, risposta alla crisi del keynesismo è andata invece nella direzione opposta, in sostanza verso il ripristino di un mondo”pre-keynesiano”. Ma a sua volta questo capitalismo neoliberista e globalizzato ha incontrato i suoi limiti strutturali: questo è il significato della crisi economica attuale iniziata nel 2007/08. La risposta alla crisi attuale è, secondo Mazzetti, quella di riprendere i lati più avanzati del pensiero di Keynes e di impostare una seria politica di riduzione dell'orario di lavoro (a parità di salario, naturalmente). Come ho detto sopra, non entriamo qui nel merito delle approfondite analisi con le quali Mazzetti argomenta la sua posizione. Facciamo solo notare che, come nel caso di Keynes, questa impostazione appare concordare con le proposte di decrescita che sono state delineate nella prima parte di questo saggio. Considero perciò un vero peccato il fatto che Mazzetti abbia espresso in varie occasioni la sua opposizione alla proposta della decrescita. Le sue obiezioni sono espresse in maniera molto chiara in un articolo pubblicato nel “Manifesto” [23]. Abbiamo in sostanza già risposto alle obiezioni contenute in questo articolo, quando abbiamo discusso il problema dei bisogni. Mazzetti infatti contesta due prese di posizione di Latouche. Nella prima l'autore francese ricorda le ricerche antropologiche secondo le quali le popolazioni dedite alla caccia e raccolta erano popolazioni non perseguitate dal bisogno e ricche di tempo libero, nella seconda egli ripete le critiche alla società dei consumi come creatrice di bisogni sempre nuovi e quindi di insoddisfazioni sempre nuove. Mazzetti ribatte che non si può rimpiangere l'età della pietra perché comunque allora l'umanità viveva in condizioni disagiate, e che la creazione di nuovi bisogni è elemento di civilizzazione, e conclude sostenendo il carattere regressivo della decrescita. Ma è facile superare queste resistenze di Mazzetti. Per quanto riguarda il primo punto, appare ovvio a chiunque conosca le opere di Latouche che la sua proposta non è certo quella di tornare all'età della pietra, ma piuttosto di usare le scoperte dell'antropologia per riflettere su ciò di cui hanno veramente bisogno gli esseri umani. Per quanto riguarda il secondo punto, ho già risposto sopra, ricordando che i bisogni non possono essere messi tutti sullo stesso piano e che, una volta soddisfatti per tutti i bisogni materiali, ciò che fa crescere la civiltà sono i bisogni specificamente umani: il bisogno di relazioni umane autentiche, il bisogno di godere delle creazioni dello spirito, il bisogno di partecipare a tali creazioni con la propria attività. Tutti bisogni per soddisfare i quali la riduzione dell'orario di lavoro è  condizione necessaria. Si vede quindi anche qui come la logica delle proposte di Mazzetti sia in assonanza con la proposta della decrescita.

Esaminiamo adesso due autori inglesi, Robert e Edward Skidelsky, autori di un bel libro da poco tradotto in italiano [24]. Robert Skidelsky è un economista keynesiano, autore fra l'altro di una biografia di Keynes in tre volumi che è a tutt'oggi il principale riferimento sulla vita del grande economista. Edward, figlio di Robert, è un filosofo. I due autori, nel testo citato che adesso discutiamo rapidamente, riprendono anch'essi le tesi  esposte da Keynes nelle “Prospettive economiche”, e cercano di svilupparle confrontandosi con gli sviluppi della realtà intervenuti negli ottant'anni che ci separano dal testo di Keynes. Come è inevitabile, anche gli Skidelsky si confrontano col problema dei bisogni, e giungono ad elaborare una lista di quelli che essi chiamano “beni fondamentali”, cioè quei beni le cui soddisfazione è fondamentale per una “vita buona”. Si tratta della salute intesa come “il pieno funzionamento del corpo, la perfezione della nostra natura animale”, della sicurezza (“l'aspettativa giustificata di un individuo che la sua vita seguirà più o meno il suo corso abituale”), del  rispetto (tenere sempre l'altro come degno di considerazione), della personalità (“la capacità di formulare e attuare un progetto di vita rappresentativo dei gusti, del temperamento e della concezione del bene di una persona”), dell'armonia con la natura, dell'amicizia (in senso lato), del tempo libero. Gli autori rilevano poi come, per quel che se ne può capire dalle ricerche sociali, la fruizione di questi beni non sembra migliorata nonostante la crescita economica degli ultimi decenni. Essi notano infatti che

“Il continuo inseguimento della crescita non solo è inutile per la realizzazione di beni fondamentali, ma può, in effetti, pregiudicarli. I beni fondamentali non sono, in pratica, commerciabili: non possono essere acquistati o venduti in senso stretto. Un'economia finalizzata a massimizzare il valore del mercato tenderà a escluderli o a sostituirli con surrogati commerciabili” [25]

Il compito di rendere più facile il raggiungimento dei beni fondamentali, e quindi di una vita buona, dovrebbe allora essere compito dello Stato, che dovrebbe indirizzare l'economia nella direzione voluta, descritta dagli autori nel modo seguente:

“Come dovrebbe essere un'organizzazione economica finalizzata a realizzare i beni fondamentali? Dovrebbe produrre beni e servizi sufficienti a soddisfare i bisogni fondamentali e ragionevoli standard di benessere. Inoltre, dovrebbe farlo con una notevole riduzione nella quantità di lavoro necessario, in modo tale da offrire più tempo libero, inteso come attività autogestita.  Dovrebbe garantire una distribuzione meno diseguale di ricchezza e reddito, non solo per ridurre l'incentivo a lavorare, ma per migliorare le basi sociali di salute, personalità, rispetto e amicizia. Infine, una società che punta a realizzare i beni fondamentali di amicizia e armonia con la natura porrebbe più enfasi sul localismo e meno su centralizzazione e globalizzazione” [26]

Occorrerebbe poi, aggiungono gli autori, ridurre la spinta a consumare e ridurre la pubblicità.
Anche in questo caso, appare evidente la consonanza fra queste impostazioni e proposte e quanto esposto nella prima parte di questo saggio.
Prendiamo infine in esame le elaborazioni di Stefano Bartolini e del gruppo di ricerca presso l'Università di Siena che a lui fa riferimento. Le idee fondamentali sono state espresse da  Bartolini in un testo divulgativo, al quale faremo principalmente riferimento [27]. E' interessante notare che queste tesi, che come vedremo sono piuttosto “eterodosse”, sono sostenute da un lavoro di ricerca  del tutto in linea con i criteri di scientificità della comunità degli economisti, per cui difficilmente tali risultati possono essere accusati di risultare “esterni” alla disciplina dell'economia in senso stretto [28]. La ricerca parte da quello che è stato definito il “paradosso della felicità”: il fatto cioè che la crescita economica, superato un certo valore, non sembra accompagnarsi ad una crescita del benessere generale delle persone. Si tratta di uno dei problemi studiati a fondo da quella branca dell'economia che ha assunto il nome, per la verità un po' inquietante, di “economia della felicità”. Questo tipo di problematica si basa sul presupposto che sia possibile operare una “misura della felicità”, e si tratta ovviamente di un presupposto discutibile, che qui accetteremo rimandando ai testi citati per approfondire come gli studiosi arrivano a “misurare la felicità”. La tesi del  “Manifesto” di Bartolini è molto interessante per il nostro discorso: essa infatti spiega il “paradosso della felicità” con l'ipotesi che la crescita economica, superato un certo livello di benessere, comporti la perdita di una serie di beni (ambientali o relazionali) che prima erano disponibili gratuitamente e poi divengono reperibili solo sul mercato. In questa situazione gli individui hanno bisogno di ulteriore reddito per l'acquisto di tali beni, questo comporta ulteriore crescita e quindi ulteriore degrado dei beni gratuiti, e il meccanismo procede. Ma in questo modo gli individui non trovano una vera soddisfazione, e per questo il benessere non aumenta nonostante la crescita economica. Per fare un esempio, un bene gratuito può essere quello dell'aria pulita: la crescita economica comporta inquinamento che peggiora la qualità dell'aria, quindi se voglio aria pulita devo fare lunghi viaggi e ho bisogno di un aumento del reddito per potermeli permettere. Un altro esempio (di un bene relazionale) può essere quello di rapporti di fiducia fra vicini che mi permettono di essere sicuro di non subire furti perché la mia casa è sempre sorvegliata dalla comunità locale. Ma la crescita economica tende a distruggere queste reti di relazioni, per cui ho bisogno di spendere soldi per gli antifurti.
E' del tutto evidente come questo tipo di analisi si accordi bene con quanto delineato nella prima parte di questo saggio. In particolare, usando il linguaggio marxista (che non è quello di Bartolini), la crescita che distrugge i beni relazionali costringendo gli individui ad acquisirne sul mercato dei surrogati corrisponde all'espansione della sfera del rapporto sociale capitalistico, che invadendo ogni ambito sociale degrada società e natura. Anche molte delle proposte pratiche sostenute nel libro di Bartolini (per esempio la riduzione dell'uso dell'automobile) sono perfettamente inseribili all'interno del discorso della decrescita.

7. Conclusioni.
Con questo ci avviamo alla conclusione. E' necessario ribadire che, nel riportare alcuni spunti di convergenza fra gli autori citati e il pensiero della decrescita non abbiamo voluto compiere una analisi approfondita del pensiero e delle proposte di questi autori. Ci siamo limitati, appunto, a evidenziare una notevole assonanza  nell'impostazione generale e anche in alcune proposte concrete. Tutto questo non vuol dire che ci sia completa identità di vedute. Vuol dire piuttosto che la direzione verso cui puntano queste diverse proposte sembra essere grossomodo la stessa. Questa dovrebbe essere, a nostro avviso, la base per una discussione serena che potrebbe portare ad approfondire i punti di convergenza e a smussare le eventuali divergenze. Sarebbe davvero il momento di cominciare. Dopotutto, i nipoti di Keynes, per i quali egli sognava la liberazione dal problema economico, siamo noi. Sarebbe il caso di prendere sul serio il suo sogno.

Marino Badiale, Genova, Settembre 2013.


[1] M.Badiale, F.Tringali, La trappola dell'euro, Asterios 2012.
 
[2] Vi è anche una terza crisi, di natura geopolitica: la crisi dell'egemonia mondiale statunitense, ma la sua trattazione esula dagli scopi di questo articolo.

[3] È probabile che ci possano essere anche argomenti più strettamente socioeconomici a sostegno della tesi dell'impossibilità di una ripresa delle politiche del “trentennio dorato”, ma non affrontiamo qui questa discussione.

[4] Fra i molti testi possibili, consigliamo M.Pallante, La felicità sostenibile, Rizzoli 2009. Id., Meno e meglio, Bruno Mondadori 2011. S. Latouche, Breve trattato della decrescita serena, Bollati Boringhieri 2008. Id., Per un'abbondanza frugale, Bollati Boringhieri 2012.

[5] M.Badiale, M.Bontempelli, Un progetto rivoluzionario, Alfabeta2, anno II, n.6. Id., Una politica economica per la transizione, Alfabeta2, anno II, n.9. Id., Il ruolo dello Stato nella transizione, Alfabeta2, anno II, n.10. Id., Dopo la fine della crescita, Alfabeta2, anno II. Id., Marx e la decrescita, Asterios, 2010.

[6] Queste dinamiche del modo di produzione capitalistico possono essere indagate a partire dal concetto marxiano di “sussunzione reale” “contrapposto alla “sussunzione formale”. Questa analisi è stata svolta in maniera approfondita da Massimo Bontempelli, si veda http://www.rivistaindipendenza.org/Teoria%20nazionalitaria/Bontempelli%20-%20sussunzione.htm

[7] M.Badiale, M.Bontempelli, 28 tesi, http://il-main-stream.blogspot.it/2013/06/28-tesi.html

[8] Quest'ultimo punto è stato discusso in particolare da Bontempelli e dall'autore di queste righe negli scritti sopra citati.

[9] Per chi ha qualche vago ricordo dell'esame di Analisi 1, si può dire che non stiamo chiedendo che il PIL, come funzione del tempo, sia una funzione monotòna decrescente.

[10] Alcuni suggerimenti di misure economiche necessarie all'interno di un programma di decrescita li si può trovare nei testi citati nelle note 4 e 5.

[11] E anche da alcuni di quelli meno importanti, come l'autore di queste righe: si veda per esempio M. Badiale, Ricercando la comune verità, CRT 1999.

[12] Per una introduzione alle problematiche dell'obesità di veda O.Bosetto, M.Cuzzolaro, Obesità, Il Mulino 2013.

[13] Si veda R. Wilkinson, K.Pickett, La misura dell'anima, Feltrinelli 2009, in particolare il cap. 7.

[14] Questo ovviamente non vuol dire che non persistano ampie fasce di umanità che combattono ancora col problema della fame, soprattutto nei paesi del Terzo Mondo ma anche nei paesi occidentali.

[15] Non a caso è stato usato come titolo del libro di Pallante che abbiamo sopra citato.

[16] Per fare solo due esempi recenti, si possono vedere B.R. Barber, Consumati, Einaudi 2010; Z. Bauman, Vite di corsa, Il Mulino 2012. Ma tutta la produzione recente di Bauman, ovviamente, ha a che fare con questi temi.

[17] Il fatto che si possa usare il pensiero di Platone per discutere il problema moderno delle tossicodipendenze è brillantemente dimostrato in G.Sissa, Il piacere e il male, Feltrinelli 1999, in particolare nel cap.2.

[18] Ora in J.M.Keynes, Esortazioni e profezie, Il Saggiatore 2011, pagg.273-283.

[19] Cioè i bisogni che sentiamo in ogni caso, distinti dai “bisogni relativi” che sentiamo solo in relazione a ciò che possiedono gli altri. I primi possono essere compiutamente soddisfatti grazie alla crescita della ricchezza collettiva. E' interessante notare come Keynes sia spinto a indagare, per quanto brevemente, il tema della natura dei bisogni. Si tratta di una discussione inevitabile, quando si trattano questi temi.

[20] J.M.Keynes, cit., pag.280. E si noti che anche questo appare a Keynes necessario solo “per soddisfare il vecchio Adamo che è in ognuno di noi” (pag.281), cioè per evitare i problemi che si avrebbero nel passare direttamente ad una società del non-lavoro.

[21] J.M.Keynes, cit., pag.282.

[22] Faremo qui riferimento ai seguenti testi: G.Mazzetti, Quel pane da spartire, Bollati Boringhieri 1997. Id., Ancora Keynes?!, Asterios 2012. Id., Contro i sacrifici, Asterios 2012. Id., Dare di più ai padri per far avere di più ai figli, Asterios 2013. Si possono utilmente leggere alcuni interventi di tipo giornalistico, per esempio quelli reperibili ai seguenti indirizzi http://www.sinistrainrete.info/societa/2898-giovanni-mazzetti-la-torre-di-babele-della-sinistra.html, http://149.3.145.61/lavoro-e-sindacato/2872-giovanni-mazzetti-dividiamoci-il-lavoro-risposta-a-lunghini.html

[23] G.Mazzetti, Decrescita, fuga verso il passato, Il Manifesto, 1-4-2012. In rete http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/6957/

[24] R. e E. Skidelsky, Quanto è abbastanza, Mondadori 2013.

[25] R. e E. Skidelsky,, cit., pag. 226-227.

[26] R. e E. Skidelsky,, cit., pag. 254.

[27] S.Bartolini, Manifesto per la felicità, Donzelli 2010.

[28] Alcuni dei lavori scientifici di Bartolini e dei suoi collaboratori possono essere scaricati dalla home page di Bartolini: http://www.econ-pol.unisi.it/bartolini/
























16 commenti:

  1. nel caso descritto da Mazzetti, ovvero, diminuzione dell' orario di lavoro (cosa assai complicata da fare oggi), nel contesto di una economia chiusa, o con scambi commerciali verso l' esterno tenuti in equilibrio in situazione di parità, con mantenimento dello stesso potere di acquisto; IL PIL AUMENTEREBBE, secondo me, almeno nella odierna situazione.
    Perché?
    Semplice: La diminuzione dell' orario di lavoro, comporterebbe una diminuzione dei disoccuppati, e, infine un travaso di ricchezza dai redditi da rendita a quelli da lavoro. I consumi SICURAMENTE tenderebbero ad aumentare, in quanto una fascia di popolazione che prima consumava meno, gli ex disoccupati, aquisirerbbero potere di aquisto, quindi, potere di consumo.

    Le elite, OVVIAMENTE dicono di voler la crescita, ma è una plateale balla! Ricordo che il concetto di "austerità espansiva" è una contraddizione in termini.

    Questo tipo di teorie decrescitiste, unitamente a quelle maltusiane, sono assolutamente propedeutiche all' elite per ottenere il loro obiettivo di impoverire (loro pro) le masse ottenendone pure la loro approvazione, seppure per "vie traverse", o almeno di una parte delle classi subalterne.

    Mi colpì tempo fa, leggendo i commenti di una ragazza argentina, il fatto che raccontasse, che , nella fase finale della grande crisi del 2001, in piena attuazione delle politiche deflattive neoliberiste, si diffusero in maniera esponenziale le teorie malthusiane.
    C'è di che riflettere per i "decrescitisti", io pur comprendo il senso dei loro principi, li invito a stare attenti a non finir per essere i migliori alleati dei neoliberisti.

    Ah, ovviamente, instaurando un sistema di decrescita, è assolutamente scontato rielaborare, anzi, ELIMINARE, il concetto di debito.

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    1. Tu dici:
      "La diminuzione dell' orario di lavoro, comporterebbe una diminuzione dei disoccuppati, e, infine un travaso di ricchezza dai redditi da rendita a quelli da lavoro. I consumi SICURAMENTE tenderebbero ad aumentare, in quanto una fascia di popolazione che prima consumava meno, gli ex disoccupati, aquisirerbbero potere di aquisto, quindi, potere di consumo."

      Difatti, non importa se il PIL sale o scende, ma come ciò avviene. La piena occupazione è un fine in sè, non è un mezzo per fini superiori. Per questo, continuo a sostenere, isolato tra gli ambientalisti, che la parola d'ordine "decrescita" è inadeguata perchè quantomeno ambigua.

      "Le elite, OVVIAMENTE dicono di voler la crescita, ma è una plateale balla! Ricordo che il concetto di "austerità espansiva" è una contraddizione in termini."
      La crescita è per il capitalismo una necessità imprescindibile, non può esistere un capitalismo come lo conosciamo, che possa convivere con la stagnazione prolungata. La recessione in atto non è voluta, anzi i capitalisti degli USA, UK e Giappone tentano di uscirne con politiche espansive fino alla temerarietà. L'Italia è un paese periferico e privo di reale autonomia, che viene tenuto in recessione per favorire la ripresa nei paesi più forti (Germania inclusa che usa un differente metodo per non andare in recessione).
      Rimane il problema di ridefinire cosa il capitalismo sia. Legarlo alla proprietà dei emzzi di produzione oggi mi sembra un grave errore.

      Infine, non capisco come sia possibile eliminare il concetto di "debito", e perchè mai dovremmo eliminarlo dal vocabolario.

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    2. Del tutto condivisibile quello che dice Vincenzo Cucinotta. Con una piccola postilla. Il capitalismo è un sistema di comando sui lavoratori. La proprietà dei mezzi di produzione è uno strumento fondamentale di questo dominio. Il lavoro è una merce che è messa in vendita per la sopravvivenza. Simone Weil parlava addirittura di "ragazze accompagnate al bordello". Naturalmente non è l'unico strumento. La sovranità monetaria ad esempio è uno strumento fondamentale. Non c'è capitalismo senza crescita, verissimo. E' anche vero che i periodi di recessione si utilizzino per fare le "riforme", si approfitta di questi momenti per piegare ulteriormente le difese dei lavoratori. Il caso Marchionne insegna.

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    3. Francesco, per uscire dal generico, ciò che dici, vale solo in un sistema di mercato, dove cioè le scelte economiche vengono fatte sulla base della legge della domanda e dell'offerta.
      Supponi di essere in una sistema di economia pianificata, dove lo stato si assume il compito di imprenditore a titolo prevalente. Che esistano privati che all'interno del piano economico, integrino la produzione delle aziende statali, non può in alcun modo costituire uno strumento di dominio, può addirittura svolgere una funzione positiva. L'importante è che non sia il privato che decida dove e come investire, insomma il problema fondamentale è quello del potere. Accertato che il potere è collettivo, allora l'imprenditoria in sè non costituisce un problema.

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    4. Come dice Francesco, non c'è capitalismo senza crescita.
      E NON C'E' CAPITALISMO SENZA DEBITI.
      Questo deve essere chiaro.

      I debiti, senza crescita diventano insostenibili, come ben stiamo vedendo.
      I debiti, altri non sono che l' altra faccia della medaglia dei crediti, cioè del RISPARMIO (concetto alla base del capitalismo). E' del tutto evidente che la decrescita, comporta l' impossibilità di onorare i debiti, cioè i crediti, CIOE' LA NATURALE DISTRUZIONE DEI RISPARMI, ovvero del capitalismo stesso.

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    5. Beh, tentiamo di capirci.
      Se rifiutiamo il rapporto credito/debito, rifiutiamo ogni genere di transazione finanziaria e quindi anche il denaro, significa che vogliamo tornare al baratto, quindi certo fuori dal capitalismo ma anche fuori da tutti i sistemi economici fin qui sperimentati, torniamo a quello più elementare.

      Io non sono di questa opinione, e non trovo nulla di male nel fatto che ci siano in una determinata operazione due soggetti, di cui l'uno fa da creditore e l'altro da debitore, non capisco cosa ci sia che non va. I tedeschi usano lo stesso termine per indicare peccato e debito, vorrai forse dare loro ragione?.

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  2. In sostanza, per te l'accordo tra decrescisti e Keynes sta nel fatto che entrambi immaginano una società in cui venga ridotto il tempo lavorativo.
    Mi pare che si tratti di una concordanza poco significativa. Keynes ( e Mazzetti bene ne tramanda il pensiero), pensa che l'economia crescerà tanto che il livello dei consumi potrà essere alto anche lavorando poco, mentre i decrescisti pensano che la riduzione del tempo lavorativo sia un mezzo per evitare di avere una produzione così alta da compromettere gli equilibri ambientali: mi chiedo dove stia la concordanza allora.
    Per quanto mi riguarda, mi colpisce sfavorevolmente il fatto che i decrescisti parlino di tempo libero (esattamente come i capitalisti in quest'aspetto),e quindi ammettino che parte del nostro tempo va ceduto per espletare attività considerate ineluttabilmente sgradevoli. Il tempo libero è appunto l'invenzione dei capitalisti a cui non basta essersi appropriato del tempo lavorativo, e vogliono lucrare anche del resto del nostro tempo: definirlo libero non solo implica che quello lavorativo non lo è per definizione, ma che è vuoto: Infatti,quando si dice che un posto è libero? Appunto, quando esso è vuoto, mentre il tempo di una persona realizzata non è mai libero, come non è mai interamente vincolato.
    Credo infatti che Latouche abbia su questo punto torto marcio, ciò su cui una politica ambientalista dovrebbe intervenire è invece sulla qualità del lavoro, e tanto per uscire dal generico, dal rifiutare la competitività. Insomma, invece di accettare che il lavoro sia sgradevole per definizione concentrando così gli sforzi sul ridurne la durata, dovremmo a mio parere riprenderci anche quel tempo tentando di rendere il lavoro il più gradevole possibile, senza l'obbligo di produrre più velocemente di altri. E' questa insensata competitività che rende il lavoro odioso, ed è su questo che si dovrebbe intervenire.
    Il puinto fondamentale è tuttavia costituito dal fatto che nei fatti è proprio la scuola di Keynes che si trova agli antipoldi dei decrescisti, proprio perchè, contrariamente ai monetaristi che privilegiano la stabilità, essi predicano come priorità la crescita: crescita contro decrescita, potrebbe esserci opposizione più assoluta?

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    1. Credo che sia utile il materiale recentemente pubblicato da Riccardo Bellofiore nella pagina facebook "Economisti di classe". C'è un suo vecchio lavoro in cui riparte da Adam Smith e ripercorre le tappe indirizzando le riflessioni proprio su questi temi.

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  3. continua dal precedente...

    La questione del rapporto con il pensiero di Keynes è più che mai di attualità oggi, visto che io trovo il modo sostanzialmente acritico con cui vasti settori che includono anche gli ambientalisti, nello sforzo di opporsi alla sventura dell'euro, finiscono per sposare le politiche espansionistiche di USA, UK e Giappone, apparentemente dimenticando come sia proprio la politica insensatamente espansiva, ad avere prodotto la crisi, Capisco che si tratti di un modo irrituale di seguire Keynes (alcuni parlano di monetarismo keynesiano), ma oggi è questo il modo con cui viene interpretata quella dottrina.
    Credo che invece si possa essere contro l'euro anche essendo fieramente contrari con le politiche insensantemente espansive di quei paesi che ho citato, ma sarebbe troppo lungo argomentarlo qui.

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  4. Ulteriore obiezione (non inclusa tra quelle citate): sappiamo che il sistema capitalistico ha bisogno della crescita. Senza crescita c’è recessione. Abbiamo milioni di disoccupati che rischiano di essere esclusi dalla distribuzione del reddito. Per essere chiari, non riescono a vivere. È evidente che l’ipotesi della decrescita si abbina con l’uscita dal capitalismo. E che occorre un’economia pianificata che faccia gli investimenti necessari distribuendo lavoro e reddito in modo egualitario. Ma questo è un orizzonte di lotta. Le rivoluzioni non si realizzano nei circoli (anche se è importante che ci siano), si realizzano nel conflitto della società. Occorrono strategie e adesioni di massa. Non mi pare un discorso irrilevante.
    Un’osservazione: chi stabilisce quali siano i bisogni fondamentali, indotti, i bisogni “buoni” e quelli “cattivi”? Il capitalismo ha inventato “la mano invisibile” del mercato. Pur con tutti i limiti enormi, le distorsioni del finto mercato, la persuasione occulta e quant’altro, non si può certo ipotizzare un metodo autoritario in cui sia “Platone” a deciderlo. Occorre definire con quali meccanismi autenticamente democratici si arriva alla definizione dei bisogni “storicamente determinati”.

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  5. http://noi-nuovaofficinaitaliana.blogspot.it/2013/09/siamo-noi-i-nipoti-di-keynes-per-una.html

    ribloggato

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  6. Avrei molte domande da fare ma mi limiterò a una: non ho capito in che termini lei si ponga su posizioni anticapitaliste e al contempo lo faccia richiamandosi in modo sostanziale al keynesismo. Da quel che ne ho letto Keynes in sostanza si proponeva di salvare il capitalismo da se stesso, cercando di contenere i suoi effetti più destabilizzanti.

    Grazie in ogni caso per l'attenzione.

    Distinti saluti.

    Herr Lampe

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  7. Parte 1/3
    Credo che sia fuorviante impostare un dibattito su scelte macroeconomiche decrescita – keynesismo senza prima avere ben chiaro quali siano gli attuali scopi del modello economico dominate.
    Ritengo che l’idea della decrescita non possa essere presa in considerazione in una condizione di aggravamento delle condizioni generali del sistema economico; la decrescita, che non significa solo riduzione del PIL, può aver senso solo in un sistema economico stabile in cui non vi siano fasce sociali in forte sofferenza e in cui siano presenti Istituzioni funzionanti; insistere su tale modello in questo momento facilita il gioco del modello economico dominate e vedremo il perché.
    La macroeconomia, cioè la scienza che studia il governo dell’economia di un Paese, ha subito negli ultimi 40 anni una forte evoluzione che ha condotto ai risultati che sono sotto gli occhi di tutti: le varie crisi susseguitesi a livello globale, in gran parte, tuttora irrisolte.
    Fino ai primi anni ’70, il pianeta ha conosciuto il più grande sviluppo economico della storia; in fase di espansione avrebbe avuto senso parlare di decrescita cioè di un modello più sostenibile che prendesse a riferimento altri parametri oltre il PIL. Fino alla crisi energetica del 1973, la gestione economica di un Paese era affidata, sostanzialmente, ai dettami del grande economista inglese John Maynard Keynes che prevedeva l’intervento del settore pubblico a sostegno del sistema economico.
    A partire dal 1973, anno in cui si è registrata, la contemporanea presenza di inflazione e disoccupazione, la dottrina keynesiana è stata progressivamente abbandonata a favore di altre dottrine quali quella monetarista e la sintesi neoclassica.
    Quest’ultimo modello economico si riconduce ad una sorta di sintesi tra la dottrina di Keynes e l’impostazione marginalistica di stampo neoclassico; in tale approccio teorico è supposta l’esistenza di una condizione di equilibrio naturale, rappresentato da un “livello naturale dei prezzi”, verso cui può tendersi, a lungo termine, semplicemente “rimuovendo gli ostacoli” che si frappongono al suo raggiungimento: principalmente i diritti dei lavoratori, il sistema di protezione sociale e l’influenza dello Stato. Da qui, l’esigenza delle cosiddette “riforme strutturali” volte ad accelerare il raggiungimento di quell’equilibrio naturale tramite la rimozione degli ostacoli.
    Il marginalismo, inoltre, esclude del tutto la presenza di crisi economiche che non sono altro che il “transitorio” che si manifesta durante il raggiungimento di una nuova configurazione di equilibrio; per tale motivo, affrontare in fase di crisi la questione della decrescita è, per i marginalisti, lo “specchietto delle allodole” per far digerire ai più quel processo di aggiustamento economico e sociale che l’impostazione marginalistica neoclassica ritiene un semplice transitorio.
    Il problema è che questo “transitorio” potrebbe essere di “lunga durata” (non a caso lo chiamano lungo periodo) e nel frattempo, come sosteneva Keynes, le sofferenze di fasce sociali sempre più ampie diventeranno insostenibili; sempre che esista una condizione di equilibrio da raggiungere e questo non è affatto detto.

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  8. Parte 2/3
    Mi spiego. Il modello neoclassico si riconduce alla definizione di utilità marginale del prodotto con una apposita modellazione matematica che esclude nelle proprie deduzioni ogni argomentazione relativa alla produzione, ma definisce i prezzi (compreso il salario) come un indice di scarsità relativa; esclude, inoltre, nella definizione di utilità marginale dell’individuo ogni ulteriore esigenza connessa alle sue aspettative per il futuro. Ritengo che questa non sia solo una ipotesi ma addirittura una condizione del modello: l’individuo non “DEVE” avere alcuna aspettativa per il futuro; non “DEVE” pensare di migliorare la propria condizione, ad esempio ricorrendo ai sindacati; non “DEVE” cercare una protezione sociale da parte dello Stato. Perché? Perché tutte queste cose sono inutili e costituiscono OSTACOLO al raggiungimento dell’equilibrio naturale. E cos’è quest’equilibrio naturale? semplice: l’equilibrio tra domanda e offerta in cui tutto ciò che è offerto viene consumato.
    Sorge un dubbio: l’impostazione marginalista, o forse sarebbe meglio dire progetto marginalista, contiene in sé questo progetto dell’uomo: uomo come automa, semplice consumatore e basta.
    Ma veniamo al contrappunto sul modello economico dominate.
    Ritengo che sia possibile DIMOSTRARE, partendo dalle conclusioni dell’analisi economica del grande economista italiano Piero Sraffa, analizzando il modello comportamentale del consumatore, sia dal punto di vista individuale che aggregato che solo un modello di tipo prettamente keynesiano è in grado di garantire la riproducibilità di un sistema economico; solo quando il sistema economico è stabile è opportuno affrontare il problema della decrescita (che beninteso non è sinonimo di impoverimento ma è la formazione di un sistema alternativo di valori).
    Sraffa, infatti, sosteneva che i prezzi sono una diretta conseguenza del sistema produttivo e, come tali, si presentano al consumatore come un dato di fatto e hanno un legame con i salari complesso, dipendente dalla natura e struttura del sistema produttivo stesso.
    Se nel modello comportamentale del consumatore, oltre all’utilità di acquisto dei prodotti consideriamo i prezzi fissi, o comunque poco variabili, e consideriamo anche l’utilità del capitale (o reddito) posseduto in chiave di “aspettativa per il futuro” si ottengono risultati fortemente divergenti dall’analisi del marginalismo neoclassico.
    Innanzitutto, l’equilibrio supposto tra domanda e offerta può non verificarsi per il manifestarsi della preferenza per la liquidità (trappola della liquidità) senza che tale liquidità abbia un corrispondente in investimenti produttivi; e di ciò se ne era già accorto Keynes nella sua Teoria Generale.
    In situazione di trappola della liquidità (alta utilità percepita del capitale) l’insieme degli individui, anche per l’azione non cooperativa tra essi, preferisce conservare una quota di quanto possiede in termini di liquidità piuttosto che consumarlo per intero, ma la riduzione del consumo vanifica lo scopo del processo produttivo che, per cicli successivi, tende ad essere disinvestito comportando un impoverimento progressivo e inesorabile del sistema economico.
    Allora il tanto decantato equilibrio naturale non sussiste più; si giunge così a dover, necessariamente, introdurre nel modello di gestione del sistema economico una ulteriore figura cooperativa, normativa e impositiva, cioè lo Stato, che sia in grado di abbassare l’utilità percepita del capitale.
    L’unico che può farlo è lo Stato mediante la spesa pubblica, che aumenta la propensione al consumo (abbassando l’utilità percepita del capitale) e riavvia il sistema economico.

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  9. Parte 3/3
    Solo quando il sistema economico è stato riavviato ha senso definire processi e strumenti sostenibili per l’economia che vadano al di là della semplice valutazione del PIL; questo, secondo me è il vero concetto di decrescita.
    L’accettare supinamente un progressivo disfacimento del sistema produttivo non rappresenta un modello di decrescita sostenibile, bensì è un impoverimento insostenibile.
    Mi preme sottolineare che il marginalismo neoclassico impiega strumenti di analisi matematica, che sono congeniali al modello che tale corrente vuol portare avanti; ciò gli conferisce un aspetto di scientismo; ma si può ben vedere che utilizzando lo stesso tipo di strumenti matematici si può pervenire a risultati del tutto diversi che dicono che l’uomo non è un semplice automa destinato al consumo (una specie di maiale, insomma) ma ha anche delle aspettative, una consapevolezza del futuro, un proprio progetto di vita che può coagularsi attorno ad Istituzioni Sociali che non sono un ostacolo ma fanno parte del progetto di vita che ciascuno di noi desidera avere; e sono queste Istituzioni che dovranno essere ben solide per gestire una politica di decrescita, impostata su nuovi valori, e non smantellate e svuotate come le vorrebbe il marginalismo

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  10. Condivido pienamente. Una sola osservazione: il modello di decrescita si potrebbe anche definire come un modello in cui una comunità, un paese, un gruppo omogeneo, decide autonomamente cosa produrre, quanto e come produrre. Non sfuggirà che il problema del potere diventa cruciale. Se cosa, come e quanto produrre lo decidono i “mercati finanziari”, i risultati non sono quelli che auspichiamo. Il tema del potere e della sua conquista non può non essere al centro di qualsiasi altra considerazione.

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