Prima chiave di lettura
Qualche giorno fa Mario Monti si è
espresso contro l'abolizione tout court
del Senato. “È bene che rimanga una camera di controllo”, ha
detto l'ex Premier, “che freni le iniziative della Camera dei
Deputati, sempre condizionata da esigenze di breve termine”.
Tradotto: la Camera è troppo influenzata dalle assurde pretese degli
elettori. Siccome questi non conoscono il proprio bene, è meglio che
i rappresentanti dei cittadini siano affiancati da un'assemblea di
saggi tutori, che conoscono l'importanza del lungo periodo. Monti ha
voluto fare un paragone con la Camera dei Lords. Non è così
peregrino: i Lords sono nominati dalla Corona, e effettivamente
svolgono un ruolo di monitoraggio nei confronti dei Commons, i
rappresentanti dei cittadini. Ecco il fondamento logico del
bicameralismo differenziale:
è essenziale che una delle due camere non debba rispondere ai
cittadini, altrimenti sarebbe vanificata la funzione di controllo: se
i membri di questa camera dovessero rispondere dei loro atti davanti
agli elettori, essi fatalmente ricadrebbero preda delle esigenze di
breve periodo.
Seconda chiave
di lettura
Matteo
Renzi perora il superamento del bicameralismo paritario adducendo
ragioni di efficienza. Nella navette tra
Camera e Senato, infatti, si perderebbe troppo tempo, subendo i vari
disegni di legge troppe modifiche-contromodifiche-veti incrociati e
via dicendo. Il Senato, inutile doppione della Camera costituirebbe
solo una palla al piede.
Questa
rappresentazione è falsa per vari motivi. Come molti hanno già
fatto notare, le leggi a cui il ceto politico tiene davvero vengono
approvate in tempi rapidissimi, nonostante il bicameralismo (è stato
fatto l'esempio del Lodo Alfano; si sarebbero potuti fare quelli
delle ratifiche al Trattato di Lisbona e al Fiscal Compact). Dunque è
in primo luogo questione di volontà politica. Inoltre, va
considerato il ruolo di ponderazione della suddetta navette.
L'approvazione di un provvedimento in una camera dà luogo a certe
reazioni nell'ambito della società civile; ed è alla luce di queste
reazioni che l'altra camera può deliberare in maggiore armonia
rispetto alle istanze dei cittadini. Ma se l'intento del ceto
politico è proprio quello di costruire un sistema che sia
impermeabile a tali istanze, allora l'abolizione del bicameralismo
perfetto è sensata.
La riforma
Il testo che tra
non molto andrà in discussione procede lungo tre fronti. Il primo e
più importante è la trasformazione del Senato in Assemblea delle
Autonomie; il secondo è la ricentralizzazione di molte competenze,
ora in capo alle Regioni; infine, si introduce una norma che potrebbe
rendere ancora più forte il controllo dell'esecutivo sul
legislativo. Con ordine:
1-A) viene
inaugurato il bicameralismo differenziato. La nuova
Assemblea-composta da 47 membri in luogo degli attuali 320- non ha
competenze legislative generali, ad oggi assegnate dall'art. 70
Cost. all'esercizio collettivo dei due rami del Parlamento. Ogni
intervento normativo della Camera- leggi ordinarie, leggi delega,
leggi di conversione di decreti- andrà trasmesso all'Assemblea, la
quale entro un certo termine avrà la facoltà di esprimere un
parere sul testo. Nel caso in cui il parere sia favorevole, la legge
è senz'altro promulgata; nel caso non lo sia, o contenga delle
raccomandazioni di modifica del testo originario, quest'ultimo per
divenire legge vigente deve essere riapprovato dalla Camera,
eventualmente accogliendo le raccomandazioni. Qualora gli interventi
normativi riguardino particolari materie che coinvolgono aspetti
cardinali degli ordinamenti locali e delle regioni, quali
l'autonomia tributaria e di spesa o il sistema istitutuzionale e
elettorale, la maggioranza necessaria alla Camera per superare il
parere contrario (o emendatorio) dell'Assemblea è quella assoluta
dei componenti. Balza subito agli occhi che l'intento
semplificatorio della riforma viene a dipendere dalla solerzia e
dall'orientamento politico dei membri dell'Assemblea. Se questi
decidessero di esprimere un parere su buona parte dei testi
legislativi, e se tali votazioni avessero frequentamente esito
negativo, allora la procedura legislativa che conosciamo passerebbe
da due scrutini (voto della Camera, voto del Senato) a tre scrutini
(voto della Camera, parere ostativo dell'Assemblea, voto finale
della Camera); e per certe materie avremmo persino una procedura
rafforzata (voto finale con maggioranza assoluta). In altre parole,
l'efficienza e lo snellimento della procedura legislativa vengono a
dipendere dall'atteggiamento politico dei membri dell'Assemblea: se
esso contrasta con quello prevalente nella Camera (e cioè con
quello del Governo, come vedremo) allora i tempi della nostra
procedura legislativa si allungheranno rispetto a quelli correnti.
Se così stanno le cose, è evidente che il cambiamento impresso
dalla riforma è più apparente che reale: anche oggi i tempi di
approvazione di una legge dipendono, in buona sostanza,
dall'atteggiamento delle forze politiche presenti in Senato. Si
dirà: almeno la nuova Assemblea perderà il potere di iniziativa
legislativa. È vero fino a un certo punto: ai sensi del nuovo art.
71, l'Assemblea avrà il potere di chiedere alla Camera di
pronunciarsi su un determinato testo di legge; pronuncia che dovrà
aver luogo entro sei mesi dalla richiesta.
1-B) Un
elemento di grande novità è invece quello che riguarda le modalità
di elezione dei membri dell'Assemblea. Si passa dall'attuale
suffragio diretto al suffragio indiretto. Dei 147 membri della
Assemblea, 21 saranno i presidenti di ciascuna regione e provincia
autonoma; 42 saranno delegati dei consigli regionali, in ragione di
due per consiglio; 63 saranno i sindaci eletti dalle assemblee
regionali dei comuni, in ragione di tre per regione. A questa
schiera di rappresentanti degli enti locali si aggiungeranno 21
personalità selezionate dal Presidente della Repubblica per
altissimi meriti. Il mandato di questi ultimi soggetti sarà di
sette anni; quello dei sindaci di cinque; quello dei rappresentanti
delle regioni coinciderà con il termine delle varie legislature
regionali.
A questo punto
vale la pena ricordare un fatto. Tra il 2011 e il 2012 il Governo
Monti, con due Decreti Legge, rivoluzionò le Province, e istituì
le Città Metropolitane. Tra i punti salienti della riforma vi
era il suffragio indiretto per gli organi di questi enti: il
Presidente della Provincia sarebbe stato scelto all'interno di un
consiglio di delegati dei comuni, il Sindaco Metropolitano sarebbe
stato il sindaco del comune capoluogo. I Decreti sono stati
dichiarati incostituzionali dalla Consulta. Ma è attualmente
all'esame del Senato il Ddl. Delrio, che sostanzialmente riproduce i
caratteri dell'intervento di Monti. Questo ci dice due cose. In
primo luogo non è vero, come sbandiera Renzi, che assisteremo
all'abolizione delle Province: esse continueranno ad esistere, ma
non saranno più menzionate in Costituzione (come è oggi per le
comunità montane, ad esempio). In secondo e più importante luogo:
i governi degli ultimi anni ci hanno preso gusto con le elezioni
di secondo grado. Il modello Province viene qui riprodotto per
l'Assemblea delle Autonomie. Ma se è già difficilissimo
controllare e responsabilizzare i delegati eletti direttamente dai
cittadini, figuriamoci come lo è nei confronti di delegati di
delegati. Non si abolisce dunque il Senato, come non si
aboliscono le Province: nell'uno e nell'altro caso ci si limita a
svalutarne la legittimazione democratica. Infine segnaliamo un
dettaglio. La partecipazione all'Assemblea, nel nuovo testo, non dà
luogo a indennità. I rappresentanti degli enti locali dovranno
lavorare gratis. Questo fa il paio con quanto prevede il Ddl. Delrio
a proposito di Province e Città Metropolitane: gli organi di
entrambi gli enti non percepiranno alcun compenso. Penso sia un
dettaglio rivelatore della concezione dell'attività politica
propria del Governo Renzi.
1-C) Si può
sostenere che la svalutazione del carattere democratico
dell'Assemblea sia compensato dalla limitazione delle sue
prerogative nell'ambito della funzione legislativa: a minore
legittimazione elettorale corrisponde un ridimensionamento della
responsabilità politica. Tuttavia, si deve tenere conto del fatto
che la procedura legislativa per le leggi costituzionali e di
revisione costituzionale rimane invariata con la riforma: sarà
sempre necessaria la doppia lettura del testo in entrambi i rami del
parlamento. Per quanto riguarda questo importantissimo settore
dell'attività legislativa sopravvive il bicameralismo perfetto,
dunque, e soggetti non eletti potranno votare sulla Costituzione.
Non solo: il Presidente della Repubblica continuerà a essere eletto
da entrambi i rami del Parlamento, convocati in seduta comune;
inoltre l'Assemblea contribuirà all'elezione della quota dei membri
della Corte Costituzionale che spetta al potere legislativo (cinque
su quindici). Infine secondo il nuovo testo l'Assemblea “partecipa
alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti
normativi dell’Unione europea ”, e vota la ratifica dei trattati
facenti parte dell'ordinamento europeo. Non è poco, per dei
delegati di delegati.
2) La riforma del
Titolo V del 2001 si era concentrata soprattutto sulla revisione
dell'art. 117, che dopo l'intervento risultò profondamente mutato.
Anche la riforma di Renzi riscrive ampiamente questa disposizione
costituzionale. La riforma del 2001 era imperniata attorno a tre
tipi di competenza legislativa: esclusiva dello Stato, per alcune
fondamentali materie espressamente nominate; concorrente con le
regioni, per un ampio catalogo di materie intermedie; esclusiva
delle regioni, in tutti gli ambiti non direttamente menzionati dalla
Costituzione. Il punto dolente della riforma erano le materie di
competenza concorrente: in esse lo Stato centrale avrebbe dovuto
dettare i principi generali, lasciando la normativa di dettaglio
alla discrezionalità regionale. Cosa sia principio e cosa sia
dettaglio è ovviamente questione di opinioni. L'indeterminatezza
del testo di riforma pose le condizioni per il divampare di un
acceso contenzioso tra Stato e Regioni, che la Corte Costituzionale
ha dovuto definire con innumerevoli pronunce. Il nuovo testo elimina
del tutto il criterio della competenza concorrente: prende dal ricco
catalogo delle materie da essa coinvolte alcuni settori strategici
(urbanistica, governo del territorio, infrastrutture, produzione
energetica, e così via) e li conferisce alla competenza esclusiva
dello Stato; tutte le materie che non sono più espressamente
nominate ricadono nella competenza delle Regioni. Tuttavia
l'esercizio della stessa dovrà essere subordinato, ai sensi del
nuovo testo, alla “salvaguardia dell'interesse nazionale”;
interesse che, insieme alle “esigenze di tutela dell'unità
giuridica ed economica della Repubblica”, giustifica l'intervento
legislativo dello Stato anche nelle materie che non sono ad esso
riservate. A seconda dei contesti e delle necessità,
l'ingerenza statale potrà espandersi liberamente, e sarà
difficilmente sarà arginabile. Assistiamo pertanto ad un deciso
movimento centripeto nella distribuzione della potestà legislative
tra i vari livelli dell'organizzazione territoriale della
Repubblica, movimento speculare a quello centrifuga che ha
caratterizzato i primi anni del secolo.
Avevamo già parlato di questa tendenza. Gli enti locali dovrebbero essere compensati di tale “spossessamento” di competenze con la partecipazione diretta alla funzione legislativa dello Stato, nei termini sopra descritti. In sostanza, viene sottratto potere politico ai rappresentanti regionali eletti direttamente dai cittadini per trasferirlo ai membri dell'Assemblea.
Avevamo già parlato di questa tendenza. Gli enti locali dovrebbero essere compensati di tale “spossessamento” di competenze con la partecipazione diretta alla funzione legislativa dello Stato, nei termini sopra descritti. In sostanza, viene sottratto potere politico ai rappresentanti regionali eletti direttamente dai cittadini per trasferirlo ai membri dell'Assemblea.
3) La nuova
Assemblea non dovrà esprimere un voto di fiducia al Governo, né
potrà sfiduciarlo. Il legame fiduciario tra l'esecutivo e il
legislativo sarà completamente basato sul voto della Camera. A
prima vista, il quadro che sembra delinearsi è quello di una
contrapposizione-bilanciamento lungo la linea centro-periferia:
Camera e Governo da una parte, rappresentanti delle autonomie
dall'altra. In questo quadro è presumibile che
l'indentificazione tra Camera e Governo sarò pressoché totale.
Ciò è favorito dall'impianto iper-maggioritario della legge
elettorale Renzi-Berlusconi; ed è confermato da quello che dovrebbe
il nuovo sesto comma dell'art. 72. Vale la pena riportarlo per
intero: Il Governo può chiedere alla
Camera
dei
deputati
di
deliberare che un disegno di
legge sia iscritto con priorità
all’ordine
del
giorno
e
sottoposto alla votazione finale
entro sessanta giorni dalla
richiesta ovvero entro un
termine
inferiore determinato
in base al regolamento tenuto
conto della
complessità della
materia. Decorso il termine, il
testo proposto
o accolto dal
Governo, su sua richiesta, è
posto in votazione,
senza
modifiche, articolo per articolo e
con votazione finale.
L'esecutivo avrà così facoltà di incidere sui tempi di
elaborazione della Camera, di modificarne il calendario, e
soprattutto di privarla della capacità di emendare i testi dei
disegni di legge. Questa norma apre la possibilità di una
subordinazione totale e definitiva del legislativo rispetto
all'esecutivo. Già oggi la maggior parte dei disegni di legge (non
contiamo nemmeno i decreti) è di provenienza ministeriale. Da
domani il Governo, presentata la propria proposta, potrà metterla
in votazione nei tempi da esso determinati, e addirittura limitare a
un Sì/No la risposta dei deputati. In tale scenario l'unico
contropotere sarà effettivamente rappresentato dall'Assemblea delle
autonomie.
La riforma di Renzi
riesce a centrare entrambi gli obiettivi delinati in apertura di
questo articolo. Da un lato crea un organo di freno e controllo nei
confronti dell'istituzione che rappresenta i cittadini, la Camera dei
deputati; dall'altro ribadisce e rafforza la subordinazione di
quest'ultima all'esecutivo. Esecutivo che vede esaltato il proprio
ruolo anche a discapito delle autonomie locali.
Il testo
costituzionale vigente afferma che la sovranità appartiene al
popolo. Il senso giuridico di questa enunciazione, se si astrae dalla
retorica, è che il potere che dovrebbe assumere un ruolo di
prevalenza e di centralità nell'ambito del sistema istituzionale è
quello legislativo. Il legislativo è il potere che contiene in sé
l'espressione della volontà popolare. Questo è il perno della forma
di stato repubblicana democratica. La forma di stato repubblicana e
post-democratica (o non democratica) non pone al centro il
legislativo, ma l'esecutivo. La prevalenza dell'esecutivo è la
chiave di lettura fondamentale per comprendere l'evoluzione
costituzionale degli ultimi anni. L'intera struttura di governance
della UE è concepita per esaltare il ruolo degli esecutivi e
deprimere quello dei parlamenti. In Italia, abbiamo assistito
all'assalto dell'esecutivo all'indipendenza dell'ordine giudiziario.
In tutti i paesi notiamo come il ruolo del legislativo è usurpato
dal governo. In Italia la stragrande maggioranza degli interventi
normativi sono riconducibili a disegni di legge governativi, Decreti
Legislativi, e (soprattutto) Decreti Legge.
La riforma di Renzi
può essere riassunta in una frase: il Governo sopra a tutto. (C.M.)
Spesso mi chiedo come possa portare a termine un progetto del genere, ha i 2/3 del parlamento? Non credo (questa settimana è andato 3 volte sotto maggioranza semplice per il decreto sulle province). Allora il cambiamento dovrà esser legittimato da referendum, ha quindi la credibilità e la popolarità necessaria per vincerlo? Ne dubito, poco meno di un anno fa l'elettorato si è espresso abbastanza chiaramente su questa classe politica, e ugualmente ha fatto la corte costituzionale. Non credo che le cose siano cambiate. Tutto questo è qualcosa di più di un progetto di una cattedrale nel deserto?
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