mercoledì 23 aprile 2014

Piedi storti


Marino Badiale ha illustrato la consistenza logica di un classico argomento “eurista” con una metafora assai calzante, è il caso di dirlo. Il giornalista di Repubblica Federico Fubini non si capacita che l'euro possa avere qualche responsabilità nel declino economico del nostro paese, visto che è la stessa moneta di paesi che crescono (si fa per dire). Il nostro non ha ben riflettuto su quale sia il contenuto del principio di eguaglianza: non si tratta solo di far parti eguali tra eguali, ma soprattutto di NON fare parti eguali tra diseguali. Perciò è perfettamente possibile che una condizione eguale a più soggetti sia causa di disparità tra gli stessi soggetti; proprio peché questi NON sono eguali. Ma c'è di più. Spesso far parti eguali fra diseguali non solo crea disagio per i soggetti coinvolti, ma dà vita a fenomeni di retroazione positiva. Questa è una qualità dei sistemi dinamici nei quali i risultati del sistema vanno ad amplificare il funzionamento del sistema stesso. Può essere presa ad esempio l'agire della forza centrifuga, o anche il c.d. Effetto domino. Mettere economie diverse nello stesso mercato produce, in primo luogo, una polarizzazione tra le diverse economie, che si aggrava sempre di più: i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. Ecco perché l'eguaglianza non è il principio giusto per fondare la pretesa dell'unificazione europea. Il principio giusto è quello di eguagliamento. Prendiamo la Costituzione, all'art. 3. Questo è il princio di eguaglianza:

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Questo è quello di eguagliamento:
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
In termini fisici, l'eguagliamento equivale ad una retroazione negativa: i risultati del sistema tendono a equilibrare il sistema stesso. Una buona metafora è quella della boa: la boa può scendere sotto il pelo dell'acqua, ma ritorna inesorabilmente a galla ripristinando la condizione originaria. In Europa una simile dinamica potrebbe essere rappresentata da una robusta stagione di politiche industriali e redistributive, dal Nord al Sud, che riavvicinino le condizioni economiche dei diversi paesi.
Ecco, a mio avviso, il principale capo di imputazione che pende sui responsabili del processo di integrazione (?) europea: non aver avvicinato tra loro le condizioni di benessere dei vari paesi, ma anzi l'averle divaricate in maniera forse irreparabile.
Tuttavia, il discorso non può chiudersi qui. Dobbiamo sforzarci di intendere quello che Fubini voleva dirci col suo linguaggio maldestro. Si tratta di un messaggio molto importante: potremmo definirlo il cuore stesso dell'ideologia dell'adesione italiana dell'euro.
Noi facciamo bene a mettere in luce che la scarpa euro non può andare bene per tutti i piedi europei, poiché questi sono diversi tra loro. Chiediamoci, giunti a questo punto: ma perché mai quei piedi sono così diversi?
Qui il discorso deve farsi più circoscritto. È abbastanza facile intuire cosa distingue l'economia tedesca da quella greca o portoghese. Tuttavia la retroazione positiva, la diseguaglianza come prodotto dell'eguaglianza, non coinvolge solo piccole economie marginali, ma paesi del calibro della Francia o dell'Italia. Concentriamoci sul nostro paese. Abbiamo capito che non dovremmo avere la stessa moneta della Germania; ma perché la nostra moneta, per garantirci competitività, deve essere strutturalmente più debole di quella tedesca?
È necessario ammettere che il ritorno alla lira sarebbe, da parte dell'Italia, equivalente al ricorso ad una serie di misure protezionistiche. Si protegge ciò che è debole da ciò che è più forte. Cosa rende la Germania così forte?
La risposta standard in genere è: il taglio (o la mancata crescita) dei salari tedeschi. Ne abbiamo parlato infinite volte; ma questa spiegazione può (forse) spiegare il differenziale di produttività con la Francia. Non ci dice molto, invece, sullo svantaggio competitivo del nostro paese, un paese che ha vissuto una deflazione salariale ancora più radicale di quella tedesca.
Dovremmo cominciare ad ammettere che il capitalismo tedesco è più grande, forte e moderno del “nostro”; e che con tutta probabilità tra le ragioni di questa maggior forza un ruolo non secondario hanno tutti quei fattori che gli anti-euro derubricano a “Propaganda PUDE”: la corruzione, l'evasione fiscale, l'illegalità di massa, i differenti livelli di scolarizzazione, la dimensione relativa delle imprese, gli investimenti in ricerca e sviluppo...
Riepilogando: far parti eguali tra diseguali è disastroso, ma le radici della diseguaglianza tra noi e la Germania sono in massima parte endogene, e uscire dall'euro, in sé, non ci aiuterà a risolverle. Ecco il senso di quel che voleva dire lo sventurato Fubini.
Vero è che l'uscita dall'euro potrebbe darsi come condizione necessaria di un generale “risveglio” dell'economia italiana. Dal punto di vista meccanico-economico la cosa appare sensata. Dal punto di vista politico (che poi è quello che conta) non sarei così ottimista. Spiego.
L'errore strategico degli “euristi” è stato quello di pensare, contro ogni logica economica ed esperienza storica, che il mercato unico europeo avrebbe generato una retroazione negativa tra i paesi europei; che per il solo fatto di non poter contare sulle svalutazioni le imprese italiane sarebbero divenute più competitive: che per insegnare a nuotare a qualcuno il modo migliore sia gettarlo, di soppiatto, in acqua. Et de hoc satis: abbiamo visto cos'è accaduto.
Il guaio di molti anti-euro, invece, è il tener in nessun conto le ragioni strutturali e endogene della debolezza italiana. Sembra che propongano di tenerci stretti evasione fiscale, scarso dimensionamento delle imprese, scarsi investimenti di alto livello ecc, però riparati dietro lo scudo della lira svalutata. Sembra che propongano, in sintesi, di proteggere le debolezze del capitalismo italiano. Tale posizione politica, che non mi pare esagerato ascrivere alle forze che su quelle debolezze hanno costruito il loro successo, come la Lega, Forza Italia e fascisteria varia, è sicuramente perdente e retrograda. Il bipolarismo tra pro-euro e anti-euro sopra descritti condurrà questo paese lungo la china di un irreversibile declino.
Quel che sorprende è vedere che nessuno, nell'ambito della classe dominante di questo paese, ha uno straccio di idea di come affrontare il problema principale: la rimozione degli elementi che ci impediscono di assomigliare a una grande potenza capitalistica. Sono tutti presi a discettare del vincolo esterno, vuoi rafforzandolo (piddini) vuoi indebolendolo (leghisti), senza proporre nulla che possa incidere sulle ragioni endogene del nostro declino.
Lungi da me suggerirgliele. Tali diatribe dovrebbero essere perlopiù estranee a chi coltiva una una prospettiva di superamento del capitalismo. Il capitale italiano soffre, da sempre, di una debolezza cronica e inemendabile. Solo il suo rovesciamento potrà salvare questo paese dallo sfacelo. Ma in fondo, a ben guardare, questo vale per tutti i popoli allo stesso modo. (C.M.)

56 commenti:

  1. Avendolo studiato il capitalismo tedesco si basa molto sulle Hausbank sia le Landesbanken che che le grandi banche commerciali Deutsche Bank (te la raccomando questa), Commerzbank che ha inglobato la Dresdner Bank ecc.

    Però da che io mi ricordi dagli anni novanta in poi hanno sempre avuto problemi di patrimonio e si è visto con l'intervento dello stato tedesco e dei Länder, il Giappone ha un sistema simile e abbiamo visto gli stessi problemi (non mi dilungo ma chi vuole informarsi trova tutto).

    L'Unicredit aveva comprato la Bayerische Hypo- und Vereinsbank Aktiengesellschaft che aveva all'epoca grossi problemi patrimoniali poi risolti. Questo per fare un esempio concreto.

    Meno corrotti in Germania e/o Austria che in Italia? Mah. Per esempio in Carinzia sono finiti in galera parecchie persone per la vendita della locale Hypo Bank (controllato dal Land carinziano) alla Bayerische Landesbank (controllata dal Land bavarese) per chi vuole approfondire la vicenda vedi il blog di Di Blas sul Messaggero Veneto:

    diblas-udine.blogautore.repubblica.it/‎

    Alla fine lo stato austriaco è dovuto intervenire mettendoci non pochi soldi.

    La vicenda riporta praticamente i "metodi" di acquisto tedeschi, vai anche alla voce Siemens.

    Per quanto riguarda l'Austria, vedi alla voce Grasser e Strasser e ci facciamo quattro risate in più.

    Per la Sozialdemokratische Partei Österreichs la spina nel fianco si chiamava Bawag.

    Se poi vediamo l'andazzo generale in Germania qualcuno si ricorda l'affaire Elf Aquitaine e il cancelliere Kohl?

    Tutte le storie sull'aeroporto nuovo di Monaco di Baviera?

    Il Teatro di Amburgo? Lasciamo poi stare le vicende politiche di quel Land che c'è veramente da mettersi a ridere nella commistione tra giustizia politica criminalità ecc.
    vedi alla voce Affäre Schill.

    La gestione poi dell'integrazione tra le due Germania è una storia di un clamoroso insuccesso.

    Se andiamo a vedere poi come è stata gestita la Kirchensteuer dove ai disoccupati la si faceva pagare sulle indennità corrisposte anche se non erano aderenti ad una confessione e che solo con una lunga causa giudiziaria si è posto fine (in cui il modo di gestire la causa da parte della locale magistratura sembrava di rivedere film già visti in Italia), visto che la vicenda assunse connotazioni nazionali e il governo obtorto collo dovette intervenire.

    Questi esempi non ci esimono dal cercare di mettere in ordine le cose in casa nostra, probabilmente l'unica vera e significativa differenza la vedo nell'implementazione di politiche coerenti a livello generale e con meno errori degli altri. Comunque l'Italia con tutti i suoi acciacchi e senza materie prime è andata comunque avanti e secondo me è da questa capacità di far fronte alle avversità che bisogna ripartire.

    Riccardo.

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    1. Grazie per la miniera di Verità che richiami del "modello" tedesco.
      Mi "consento" di aggiungere l'analisi di V Giacchè sulla "gestione" dell'integrazione della ex DDR con i minuti e lucidi approfondimenti pubblicati in "Anschluss" (Annessione).
      Mi "consento", altresì, di aggiungere il "macellaio" del lavoro tedesco, il Peter Hartz delle "Agende 2010" rosso-verdi.
      Da brillante direttore delle risorse umane in Volkwagen che aveva intuito il "sapiente" utilizzo delle riforme strutturali del mercato del lavoro trasformando il “malato d’Europa” in “locomotore” efficiente e efficace per l’economia tedesca che riusciva ad accumulare importanti profitti e diminuire la disoccupazione (creando sottooccupazione) fino alla condanna definitiva nel 2007 dal Tribunale di Braunschweig, reo confesso, a due anni di reclusione e al pagamento di 576mila euro d’ammenda per i 44 capi d’accusa tra cui peculato, corruzione a carico di sindacalisti, concussione.
      Modelli logorati di un "ce lo chiede l'Europa" che si trasformano nel del(i)rio fetido "ce lo chiedono i nostri figli".
      G Orwell era un dilettante.

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    2. E io mi permetto di richiamare Treu, Maroni e Sacconi.

      (poi possiamo richiamare tutti i teatri d'Amburgo che vogliamo, ma resta il problema di spiegare il divario di forza tra io capitalismo italiano e quello tedesco)

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    3. @ Claudio

      In economia e gestione delle imprese il modello di capitalismo tedesco propriamente detto è di tipo consociativo.

      Si tende ad avere nelle grandi imprese, ma anche a livello politico (l'Austria e la Svizzera in un certo senso lo dimostrano soprattutto in politica), una lunga discussione sulle strategie da seguire dopo di che trovato un accordo fra tutti gli attori, lavoratori, banche soprattutto, imprenditori e controparti politche si implementano le decisioni che tutti tendono a rispettare.

      Da qui anche la bassa conflittualità sociale.

      E' una strategia di lungo respiro.

      Forse è questo il segreto rispetto al capitalismo relazionale e padronale italiano.

      Diciamo che c'è una forte disciplina nel perseguire le strategie implementate e diciamolo un tedesco ragiona prima di tutto da tedesco (non è solo uno slogan).

      In ogni caso il peso del capitalismo tedesco è portato avanti dalle Hausbank da cui dipendono le imprese per i prestiti, buoni o meno buoni che siano.

      L'esempio consociativo in Austria, a me realtà più vicina, è esemplificato dalla gestione politica dei Länder. Tutti i partiti politici partecipano alla gestione del governo pro quota. In Carinzia per esempio Haider era presidente e i socialdemocratici avevano l'assessorato ai lavori pubblici e così via per i democristiani ecc.

      In Italia abbiamo un esempio pratico nel partito Südtirol Volkspartei che è grossomodo diviso in tre parti, i contadini, gli imprenditori e gli operai. Decidono al loro interno e poi hanno una faccia unica verso l'esterno, in questo caso per far fronte alle altre forze politiche (principalmente partiti italiani o frange fuoriuscite dal Volkspartei) e diciamo che controllano molto bene i loro interessi.

      Riccardo.

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    4. Questa può essere una spiegazione.

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    5. Mi riferìvo al fortissimo corporativismo tedesco (assai diverso dal nostro), non al sistema di banche pubbliche cui ti riferivi prima. Quella è un'altra spiegazione, anch'essa molto buona.

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    6. Penso che la forza della Germania dipenda da fattori di tipo culturale, molto profondo e radicato è il fatto che una volta presa una decisione di qualsiasi tipo è difficile metterla nuovamente in discussione, un esempio è stato la revisione a Stoccarda, qualche tempo fa, dell'interramento della linea ferroviaria decisa parecchi anni prima e che è stata rivista per una forte opposizione popolare. Caso raro per investimenti così rilevanti. Anche lì il potere però si è fatto sentire a manganellate.

      Credo che la questione sia connaturata alla cultura tedesca. Non credo che ci siano altre spiegazioni così penetranti. Se un popolo ragiona in una certa maniera in quasi tutti i campi è difficile poi discostarsi per ovvie ragioni (vedi anche le due guerre mondiali).

      Secondo me questo si riverbera anche sul capitalismo tedesco o per meglio dire modello renano.

      Riccardo.

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    7. Se ci si pensa bene questo modo di pensare ricorda il partito di matrice leninista che non a caso riprende il modello socialdemocratico tedesco se non sbaglio.
      Decisione (ponderata) e successiva implementazione, sottomissione della minoranza.

      Riccardo.

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  2. ANNI ’70 -LA FINE DELL’ETÀ DELL’ORO

    All’inizio degli anni Settanta termina, inaspettatamente, quella che Eric J. Hobsbawm aveva definito l’Età dell’oro, cominciata alla fine della Seconda guerra mondiale con un inedito “compromesso tra politica ed economia”, durante la quale grazie al meccanismo di cambi fissi stabilito a Bretton Woods erano i governi e quindi la politica a regolare l’economia mondiale. La sovrapproduzione di merci, l’abbondanza di capitali, la corsa agli armamenti e il basso costo del lavoro e delle materie prime erano la spina dorsale del sistema.

    Tale sviluppo permise in Europa la nascita del Welfare State, che attraverso politiche di assistenza sociale, attraverso l’assicurazione di garanzie previdenziali e pensionistiche e relazioni industriali neo-corporative, puntava all’obiettivo della massima occupazione.

    Tale sistema basato sulla capacità degli stati di influire sull’economia cominciò a entrare in crisi, paradossalmente, proprio a causa dello sviluppo dell’economia stessa, la quale subiva un processo di transnazionalizzazione grazie allo sviluppo delle multinazionali, della divisione internazionale del lavoro e della nascita dei paradisi fiscali, rifugi dall’alta tassazione sui redditi.

    Il sistema si incrina sotto i colpi delle rivolte studentesche e sociali post ‘68, lo stato assistenziale non è più in grado di garantire le sue tutele né tantomeno di sostenere le spese assistenziali. Si giunge così alla fine simbolica dell’Età dell’oro con l’annuncio, da parte del presidente americano Richard Nixon, dell’inconvertibilità del dollaro in oro decretando di fatto la morte del sistema aureo e la nascita del sistema fluttuante, era il 15 agosto 1971.

    La crisi, in verità, cominciò a essere percepita nella vita quotidiana solo nel 1973 quando la crisi petrolifera, scoppiata dopo la sconfitta nella Guerra del Kippur dei paesi arabi, portò a uno straordinario aumento del prezzo del petrolio, la qual cosa influì sull’aumento dei costi di produzione con relativa inflazione e recessione.

    L’altra faccia della medaglia è che l’innalzamento dei salari porta a un aumento del costo del lavoro e quindi a una diminuzione degli investimenti e della produzione, ma ciò è dovuto a ragioni più profonde in particolare alle mancate innovazioni, durante gli anni Sessanta, di un sistema economico arretrato che trovava il suo equilibrio sulla possibilità di contare su un basso costo del lavoro.

    L’aumento del prezzo del petrolio, dell’energia e delle materie prime e la fine dei cambi fissi di Bretton Woods misero a dura prova la stabilità economica del Paese e ne rilevarono le fragilità, in particolare la diminuzione della produzione automobilistica e del relativo indotto crearono una crisi generalizzata la quale dimostrava che l’industria italiana era eccessivamente legata a tale settore…

    La situazione era aggravata dall’azione “piratesca” di una “borghesia di stato” connivente con il sistema politico in un sistema di reciproci favori. Eugenio Scalfari parlerà di “razza padrona”; il tutto in un rinnovato clima corporativo dove le associazioni di categoria ormai si erano trasformate in partiti elettorali pronti a far pressioni sul Parlamento per ottenere leggi inefficaci e a vantaggio di pochi.

    Il nostro Paese presenta, all’inizio degli anni ‘70, i più alti livelli di inflazione tra i principali paesi europei (con punte superiori al 20%) i più alti livelli di disavanzo pubblico e disoccupazione. La “politica del cambio” fu l’atipico strumento della politica industriale italiana, la quale, piuttosto che puntare su un profondo ammodernamento, cercava di aumentare semplicemente le esportazioni attraverso la svalutazione della moneta nazionale.


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    1. L'ultimo paragrafo cara Rosanna è una sonora accozzaglia di bugie a parte forse il metodo delle svalutazioni per sostenere le esportazioni.

      All'inizio degli anni '70 la situazione era ben diversa.

      Riccardo.

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    2. All'inizio degli anni 70 l'inflazione era circa al 5% e la disoccupazione al 6 circa, per esempio.
      Forse ti confondi con l'inizio degli anni 80? Dopo 2 shock petroliferi ecc.?
      Riccardo.

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    3. Sembravano anche a me esagerate quelle percentuali, ma del resto il sito era di storia, quindi forse più predisposto ad essere più superficiale circa le informazioni economiche ... grazie comunque

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  3. Italia, paese di bassi salari e bassa crescita

    La debolezza dell’economia italiana, resa evidente dalla crisi globale, ha radici lontane e richiede una attenta riflessione sia sull’andamento della domanda aggregata sia sulle caratteristiche strutturali del nostro sistema economico. Come le due lame della forbice di Marshall, anche dal punto di vista macroeconomico questi due aspetti sono interdipendenti: quello che accade alla domanda aggregata influenza le caratteristiche strutturali e viceversa.

    Qui mi concentro sugli aspetti strutturali, legandoli però alla distribuzione del reddito; in quanto segue confronterò i dati stilizzati della nostra economia con quelli della Francia, della Germania, della media dell’area euro a 12 paesi e degli Stati Uniti, questi ultimi considerati come pietra di paragone per le performance dell’economia dei paesi europei.

    Il dato dell’Italia è però impressionante, la caduta della quota salari si concentra nell’ultimo decennio del secolo scorso ed è molto più forte che negli altri paesi. Tra il 1991 e il 2000 essa è scesa di 8,82 punti percentuali in Italia, mentre è scesa di 3,23 punti nell’area Euro a 12, di 1,08 punti in Germania, di 2,15 punti in Francia ed è salita di 0,3 punti negli USA.

    Si può immaginare che una tale caduta della quota dei salari abbia comportato in Italia nell’ultimo decennio del ‘900 una crescita dei profitti superiore che negli altri paesi europei.
    La crescita dei profitti in Italia negli anni ‘90 non è stata accompagnata da una crescita proporzionale dell’accumulazione del capitale; in altri termini non si è verificato nel periodo un adeguato flusso di investimenti. Infatti le aspettative di alti profitti sono state alimentate dai mutamenti distributivi e non hanno stimolato investimenti innovativi, in grado di far crescere la produttività del lavoro.

    In Italia la crescita della produttività oraria del lavoro è molto alta nel quinquennio 1991-1995, decresce e diviene più bassa di quella degli altri paesi nel quinquennio successivo, è stagnante nel primo quinquennio del 2000 e addirittura negativa nel quinquennio successivo, segnato dallo scoppio crisi economica. Per contro l’Italia sperimenta una bassa crescita dei salari reali per ora di lavoro in rapporto agli altri paesi nel primo quinquennio in esame.

    Nel secondo quinquennio la variazione dei salari reali diviene addirittura negativa. Viceversa il salario reale per ora di lavoro torna a crescere nel terzo e nel quarto quinquennio, con una percentuale, sia pure modesta, superiore a quella della media dei paesi europei.

    L’andamento del PIL in Italia è solo di poco inferiore a quello della Francia e della Germania nel primo quinquennio (bisogna tener conto che il 1993 è un anno di recessione per tutti i paesi europei considerati) e cresce, pur rimanendo consistentemente più basso degli altri paesi, nel quinquennio successivo. Il tasso di variazione diminuisce sostanzialmente nel primo quinquennio del 2000 e diviene negativo nell’ultimo quinquennio preso in esame. Dal 1991 ad oggi il tasso di crescita del PIL nel nostro paese è stato meno della metà di quello degli altri paesi europei.

    Questo è un periodo di grandi innovazioni, il periodo della cosiddetta new economy, al di là degli aspetti speculativi legati alle dot.com, i dati suggeriscono che l’Italia proprio allora abbia mancato un appuntamento fondamentale per il rinnovamento della sua struttura produttiva. La sostanziale diminuzione dei salari reali e l’aumento della produttività del lavoro ottenuta nel periodo precedente di razionalizzazione spingono a puntare sul contenimento dei costi piuttosto che sulle innovazioni che stimolano la produttività del lavoro.

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  4. Bagnai sembra smentire in parte quanto detto prima

    Poveri euristi! Glielo ha detto in faccia perfino Frits Bolkestein, uno degli artefici del Mercato Unico: “L’Unione monetaria è un esperimento fallito”. È successo a Roma, il 12 aprile, al convegno dia/simmetrie, dove 500 persone e un consistente drappello di imprenditori, sindacalisti e politici hanno preso atto di questo certificato di morte e delle sue motivazioni: nel Nord Europa non esiste alcuna volontà di dar seguito a un progetto federale, al famoso “più Europa”, all’unione politica, per il semplice motivo che i contribuenti del Nord, istruiti da anni a ritenere che la crisi sia colpa del Sud, non hanno alcuna voglia di metter mano al portafoglio per contribuire a sanare gli squilibri europei in modo solidale. …

    Glielo ha detto perfino il Fondo Monetario Internazionale, con le parole dello storico irlandese O’Rourke: “Fra 50 anni ci chiederemo perché lo abbiamo fatto!” Fra 50 anni, certo. Ma oggi, i poveri euristi, commentatori diversamente preparati in economia, giornalisti diversamente indipendenti, studiosi diversamente a proprio agio coi dati, intellettuali diversamente colti, sono ancora, ahi loro, alla prima fase dell’elaborazione del lutto: la negazione!

    La negazione prende una forma particolarmente ridicola: quella di contestare il dato di fatto che nel declino dell’economia italiana l’euro c’entri e come! Ha cominciato tempo addietro Lucrezia Reichlin, sul Corriere della Sera del 9 aprile 2012, notando che “come reddito pro capite, almeno fino all’inizio degli anni Novanta, l’Italia è stata simile ai più forti Paesi europei”, e il suo distacco dagli altri paesi avviene “prima dell’entrata nell’euro”. In effetti è vero. Il cambio, in pratica, è stato fissato nel 1996, e per di più dopo una drastica rivalutazione. Secondo le regole europee sarebbe bastato farlo nel 1997, ma noi, che siamo sempre più realisti del re, lo abbiamo voluto fare un anno prima.

    Rintuzzato questo grossolano tentativo di riscrittura della storia, questo ennesimo tentativo orwelliano di ricostruzione del passato per controllare il futuro, voi penserete che il discorso si sia chiuso. Invece no! In ossequio a un’altra precisa tecnica della persuasione occulta, il vero spin non si arrende di fronte all’evidenza, anzi, rincara la dose. E così è stato un florilegio di “il declino inizia negli anni ’70”, “no, anzi, negli anni ‘60”, “no, anzi…” e così, via via, su per li rami, passando per congresso di Vienna, Trattati di Vestfalia, morte nera del 1348 …

    Incuranti del fatto di contraddirsi gli uni con gli altri, gli euristi proseguono imperterriti, ma tutte le loro spiegazioni confondono il declino assoluto (il rallentamento della crescita, fatto fisiologico) con quello relativo (la perdita di posizioni rispetto a economie simili, fatto patologico), dando prova di una assoluta e totale ignoranza della più elementare teoria economica. …

    Negli anni ’70, l’Italia era cresciuta meno che negli anni ’60, ma possiamo parlare di inizio del declino? No, perché pur crescendo meno che nel decennio precedente, l’Italia era riuscita a ridurre di circa 1000 euro il divario di reddito pro capite dagli altri paesi europei, cioè a recuperare in termini relativi. Perché mai? Ma è semplice: perché quello che valeva per lei (la ridotta produttività di uno stock di capitale sempre più abbondante, e quindi la diminuzione della crescita) valeva anche per gli altri. Tutti i paesi europei rallentarono in termini assoluti (il tasso di crescita degli anni ’70 fu ovunque inferiore a quello degli anni ’60), ma l’Italia rallentò un po’ meno, perché era ancora relativamente indietro, e perché era padrona della propria politica economica.


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  5. Condivido molto la frase di chiusura del Post.
    "Sono tutti presi a discettare del vincolo esterno, vuoi rafforzandolo (piddini) vuoi indebolendolo (leghisti), senza proporre nulla che possa incidere sulle ragioni endogene del nostro declino.
    Lungi da me suggerirgliele. Tali diatribe dovrebbero essere perlopiù estranee a chi coltiva una una prospettiva di superamento del capitalismo. Il capitale italiano soffre, da sempre, di una debolezza cronica e inemendabile. Solo il suo rovesciamento potrà salvare questo paese dallo sfacelo"

    Ci sono diversi problemi, a mio avviso, su cui riflettere. Ne elenco Alcuni:
    1) Il rovesciamento di questo sistema richiede prima che ci sia un’alternativa credibile e strutturata. La Decrescita, ad esempio, è interessante, ma ci sono mille varianti e non tutte condivisibili. Tutt’altro. Ma al di là di questo, forse gli unici che si sono posti il problema di quale struttura produttiva, sociale, istituzionale, economica e politica prefigurare, sono stati Badiale e Tringali nel loro ultimo libro. Ma siamo solo agli inizi. Oggi non esiste un’alternativa effettiva. E questo, credo, sia il problema maggiore.
    2) Non c’è, di conseguenza, un’opposizione, degna del nome, a questo sistema. Diventa difficile, allora, portare avanti una lotta contro l’euro e, a mio avviso anche una lotta per l’uscita dalla UE. Le posizioni che emergono affrontano il problema da punti di vista limitati che non sono del tutto credibili.
    3) Non sono del tutto d’accordo con chi, come fa l’ARS, invita a non andare a votare alle elezioni europee perché non servono a nulla. Mi convince di più la posizione di Sapir. Ma il problema è chi votare. Votare il movimento 5 stelle è da escludere se l’intento è quello di votare una formazione che è per l’uscita dall’euro. Non lo è mai stata. E le ultime affermazioni di Casaleggio non lasciano dubbi. Le altre formazioni lo fanno per convenienze elettorali e/o portano avanti la cosa in modo non convincente.


    Ci sarebbero altri punti da sviscerare, ma mi ferma qui perché questo mio commento rischia di diventare troppo lungo.
    Spero che Badiale e Tringali nel prossimo libro che scriveranno approfondiscano la tematica della decrescita.

    Saluti.

    Valerio.

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  6. Secondo me prima di tutto dobbiamo rimetterci al volante della macchina per poi possiamo decidere dove andare e come guidare. Ma perchè c'è questa idea che essere no-euro corrisponda a proteggere le debolezze del capitalismo italiano?
    Io non ho sentito nessun esponente di riguardo di questo "schieramento" - se così lo vogliamo chiamare - fare affermazioni simili (Da Bagnai a Rinaldi a Borghi a 48), voi dove lo avete sentito?

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    1. Mettiamola così: se affermi che le cause endogene hanno un ruolo secondario nel determinare il declino del paese, e non proponi alcun rimedio a quei guasti, stai di fatto presentando un modello di sviluppo economico fatto di piccole imprese inefficienti ed use all'illegalità, protetto dallo scudo delle svalutazioni. Il programma del centro-destra italiano, insomma.

      Posso farle una domanda? Cosa intendi per "rimetterei al volante"? E chi sarebbe il "noi"?

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    2. Io credo che Genewen con “rimetterci al volante” volesse intendere riprenderci la sovranità monetaria ed economica, quindi uscire dall’euro e dai trattati autoritari europei, per poter decidere liberamente del nostro destino. Quindi credo anche che Bagnai, Borghi e Rinaldi, puntino soprattutto l’attenzione sull’euro, perché questo è il nodo cruciale del problema.

      Uscire dall’euro è la condizione necessaria per poter riprenderci la nostra sovranità monetaria ed economica, e non è cosa da poco, anzi è la risoluzione dell’enigma. Solo riprendendo la guida del timone tra le mani potremo evitare di sbattere contro un iceberg. È la condizione necessaria, indispensabile, imprescindibile per ripartire.

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    3. Non credo che Genewen abbia bisogno dell'interpretazione autentica ;)

      Allora rivolgo la stessa domanda anche a te: "noi" chi? Noi chi saremmo? Di chi sono le mani che si rimettono sul timone?

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    4. In assenza di Genewen, che forse è andato in piazza a celebrare il 25 Aprile, ho risposto io. La domanda mi sembra tautologica, “noi” sarebbero gli italiani, quelli che dovranno decidere da che parte stare alle prossime elezioni europee, quelli che dovranno votare CONTRO questa Europa dittatoriale e padrona, che ci ha imposto l’euro e i trattati, senza chiederci il premesso, dopo che Olanda e Francia avevano decisamente bocciato la Costituzione europea.

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    5. Tautologissima. Noi quindi siamo noi italiani. E gli italiani, notoriamente, sono tutti eguali, tutti partecipando in egual misur nella determinazione delle scelte politiche generali. Ma è davvero così? Esiste un novero di persone politicamente (politicamente, non giuridicamente!) denotabile come "gli italiani"? E le classi, e i ceti, i dominanti e i dominati? Saremo io e te a mettere le mani sul timone? O non piuttosto il ceto politico/finanziario?

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    6. Certo che è il ceto politico/finanziario, ma quel cazzo di ceto politico/finanziario chi lo ha votato? Gli italiani. E perché lo hanno votato? Perché si guardano il Grande Fratello, cioè la tv, gestita proprio da quel ceto politico/finanziario, che quindi pilota l’opinione pubblica come e quando vuole, creando quel “frame”, quella cornice emozionale dell’immaginario collettivo, quel pensiero unico dominante , che è praticamente impossibile infrangere. Perché i nuovi nazisti del mercato sono in gamba, sono in grado di convincere gli italiani “già poveri”, ripeto attraverso gli showman della politica, e attraverso impulsi empatici emozionali (NON RAZIONALI), a votare per chi li ridurrà sul lastrico a cercare l’elemosina.

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    7. Su l'analisi psico-politica degli elettori italiani non mi avventuro, anche se suggerirei maggiore prudenza. Siamo comunque giunti ad un punto fermo: quando si dice "dobbiamo rimetterci al volante" in realtà bisognerebbe scrivere "è necessario restituire al ceto politico/finanziario italiano tutte le leve della politica economica". Così suona più realistico.
      A mio avviso un tale proposito è:

      1) insensato. Buona parte delle "leve" sono ormai perse per sempre. Come riconosciuto da tutti gli economisti (e da Bagnai, se interessa) in regime di libera circolazione dei capitali nessuno stato ha la sovranità monetaria; al più ha la sovranità valutaria, che è un'altra cosa.

      2) infondato. In realtà, gran parte di quelle "leve", quelle non perdute per sempre, sono già nelle mani del ceto politico, che però ha deciso di non usarle. I vincoli UE sono auto-imposti, e sono buoni per i gonzi.

      3) poco entusiasmante. Gridiamolo: "è necessario restituire al ceto politico/finanziario italiano tutte le leve della politica economica". Ma chi mobilitiamo su una piattaforma così deprimente?

      4) depistante. Occorre rovesciare il sistema, non riverniciarlo.

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    8. Ah, dimenticavo!

      5) velleitario e/o paradossale. Per ragioni su cui non mi dilungo (qui), il ceto politico italiano è convinto che senza l'euro muore. Secondo me è paranoia, ma così stanno le cose; e lorsignori faranno di tutti per rimanere nell'euro. Dunque per costringerli a portarci fuori dalla valuta unica occorerebbe orchestrare una specie di insurrezione. Domanda: ma se noi abbiamo la forza di scatenare un'insurrezione lo facciamo per "restituire al ceto politico/finanziario italiano tutte le leve della politica economica"?

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    9. Claudio, riconosco che sei “economicamente e finanziariamente” superdotato per i miei limitati mezzi. Continuerò a studiare, grazie.

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    10. Non crucciarti: sono ricco di famiglia.

      (comunque esageri!)

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    11. Della serie meglio tardi che mai, eccomi ;-) .

      Per quanto riguarda le cause endogene, nessuno dice che hanno un ruolo secondario, però il problema è che queste "cause"(che però sembrano essere molto sopravvalutate cme per esempio dimostra la bufala dei 60 miliardi annui smentiti dalla corte dei conti, usati però spesso come mantra nelle trasmissioni tv) , si è tentato di risolverli con il vincolo esterno che qui ormai tutti abbiamo chiaro che non funziona - anzi - peggiora le cose, quindi se vogliamo cominciare a migliorare si deve abbandonarlo non solo per riacquistare varie leve e marchingegni, ma anche per - e questo a mia opinione - riprendersi ufficialmente le responsabilità delle nostre azioni. Ecco cosa intendevo con il discorso della macchina, non mi riferivo solo agli Italiani in generale, ma anche ai politici, nel senso di dire : ora sei tu al volante e ti ti schianti in un muro è colpa tua.
      Sò già qual'è l' obbiezione: in realtà al volante ci sono già e potrebbero portarci fuori da questa situazione domani mattina.E' vero, ma ora hanno la scusa - spendibile almeno a livello di opinione pubblica, anche se in fondo non è vero - del vincolo esterno , del ce lo chiede l' Europa per non far nulla e per non assumersi le loro responsabilità. Io dico, cominciamo a togliergli questa scusa e contemporaneamente restituiamo alle nostre imprese il loro mercato , che non è quello di partire con un listino prezzi falsificato del 30%, poi vedranno loro come essere competitive.Sbaglio?
      Poi questo discorso delle piccole imprese inefficienti a me pare ideologico, ma come , non eravamo entrati nel G8 con le imprese inefficienti?Non era il modello delle piccole e medie imprese elogiato da molti economisti come anche alesina , giavazzi e mi pare anche Graziani se non sbaglio?Questo almeno fino a quando non si è distorto il mercato falsificando il listino prezzi.
      E poi perchè si parla solo di svalutazioni?Questo è un uso strumentale dell' argomento, quando si ha il cambio flessibile si svaluta e si rivaluta anche, quando abbiamo svalutato noi lo hanno fatto anche gli altri (vedi shock petroliferi), lo abbiamo fatto solo per difesa da shock esterni e quando siamo entrati in un sistema di cambio insostenibile.Non credo ci sia mai stato da perte dell' Italia un uso aggressivo di questo strumento.

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    12. Mi ero dimenticato sul discorso delle libera circolazione dei capitali, su questo "perdute per sempre" ci andrei cauto, visto che in realtà si parla di accordi fra esseri umani l' eternità è di un altro mondo, per esempio anch eil fmi ha preso posizione sulla pericolosità di questa eccessiva libertà e la Le Pen ha detto che vuol fare un referendum per uscire dalla UE(su questo magari i giuristi sono più ferrati, ciò non corrisponderebbe ad una forma di protezionismo?). Non escluderei che si torni un pò indietro su questa cosa, ormai il mondo è ben conscio dei danni che fà.

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    13. 1) "si è tentato di risolverli con il vincolo esterno che qui ormai tutti abbiamo chiaro che non funziona"
      Esatto, è il tema di un prossimo post. Si intitolerà "il fallimento strategico del centro sinistra. Va detto che si tratta di un discorso complesso: un vincolo esterno "gestito" diversamente forse avrebbe dato risultati migliori; ma non lo sapremo mai.

      2) il discorso della macchina. Potremmo accordarci così: il volante deve andare (non tornare: andare) ai cittadini e ai lavoratori. Così saremmo d'accordo. Inserita in un discorso del genere, si può discutere anche di abolizione dell'euro. Ma il punto cardine è capire la natura di classe del soggetto che tiene le mani sul volante. Quello è il punto cardine; non l'euro.

      3) "Sò già qual'è l' obbiezione: in realtà al volante ci sono già e potrebbero portarci fuori da questa situazione domani mattina.E' vero, ma ora hanno la scusa"
      un po' troppe b! Comunque: se ammetti che si tratta solo di una scusa, allora il primo passo fondamentale è smettere di darle credito. Cominciamo da questo.

      4) " restituiamo alle nostre imprese il loro mercato"
      Non è un risultato cui si possa arrivare mediante l'uscita dall'euro. In primo luogo, se oltre a noi svalutano anche altri paesi l'effetto benefico ovviamente si annulla. Ma c'è di più: anche se svalutassimo solo noi, ciò non basterebbe a rilanciare le imprese. Svalutare significa diminuire i prezzi all'estero; dunque si tratta di lavorare sull'OFFERTA. Ma non è lavorando sull'offerta che si può rimediare ad una carenza di DOMANDA. Questo è l'insegnamento di Keynes. Attualmente c'è una carenza di domanda a livello mondiale, e la fine dell'euro non sposterà di un passo il problema.

      5) "Poi questo discorso delle piccole imprese inefficienti a me pare ideologico, ma come , non eravamo entrati nel G8 con le imprese inefficienti?Non era il modello delle piccole e medie imprese elogiato da molti economisti come anche alesina , giavazzi e mi pare anche Graziani se non sbaglio?"
      Non mi risulta che Graziani abbia detto ciò. Ad ogni modo, non si tratta di un discorso ideologico. Ci rivediamo al prossimo post, dove chiariremo la faccenda.

      6) "E poi perchè si parla solo di svalutazioni?"
      Mio caro, non lo devi chiedere a me: è il mondo antieuro che sostiene che la svalutazione è indispensabile altrimenti moriamo.

      7) "perdute per sempre"
      ovvio che si parla sempre di fatti umani. Solo la morte è irreversibile. Ma c'è un piccolo problema. Per bloccare i movimenti di capitale ci vorrebbe un movimento coordinato degli stati del mondo. È la stessa logica del disarmo: chi disarma per primo? Il primo stato che limitasse i movimenti di capitale finirebbe triturato in poco tempo, a vantaggio degli altri stati. Converrai che si tratta di difficoltà difficili da sormontare.

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    14. In buona parte ci siamo capiti solo non sono daccordo sul punto 4) "se oltre a noi svalutano anche altri paesi l'effetto benefico ovviamente si annulla"

      Tutti non possiamo svalutare, tutti verso chi?La Germania che fà se esce, svaluta?Non credo.
      E il problema è che abbiamo perso terreno proprio con il nostro principale competitor europeo(grazie ad un listino prezzi sottovalutato per loro e sopravvalutato per noi), se recuperiamo sui mercati esteri in Italia si inizia ad assumere e anche la domanda interna (ora assente per via della disoccupazione e della deflazione) riprende.
      Anche sulla domanda a livello mondiale ho qualche dubbio, siamo il fanalino di coda dell' ocse e anche se gli altri forse non se la spassano potremmo fare molto meglio senza euro.
      Poi megari per le altre cose ci vediamo nell prossimo post.

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    15. Però alcune cose le possiamo sistemare subito.
      Non esiste alcuna equivalenza tra espansione dell'export e calo della disoccupazione; anzi spesso è vero il contrario. Lo dimostra proprio la Germania: negli anni in cui accumulava il proprio iper-surplus la Germania aveva il record europeo della disoccupazione, mentre la nostra calava. Notare: negli anni '80 accadeva esattamente il contrario, eppure eravamo costretti a svalutare pur di stare dietro all'export tedesco.
      L'idea che l'economia e l'occupazione si possano rilanciare solo attraverso le esportazioni è un'idea infondata dal punto di vista scientifico, e orrida sotto il profilo politico: essa costituisce il nocciolo del più bieco mercantilismo.

      Andiamo agli effetti di un'eventuale svalutazione. Ovviamente sono imprevedibili. Ma possiamo fare delle ipotesi. Se svalutiamo tutti rispetto al Marco tedesco, la rivalutazione di quest'ultima moneta non sarà in grado di riassorbire le nostre eccedenze: il mercato tedesco (più satelliti) sarebbe comunque troppo piccolo. Sul piano dei mercati dei paesi terzi, il Marco tedesco andrebbe in difficoltà, ma il beneficio dell'Italia andrebbe spartito con quello di tutti gli altri paesi che svalutano.
      Peraltro, questa rappresentazione non tiene conto di tre fattori:
      1) non è affatto detto che la Germania ci faccia la buona grazia di non svalutare anch'essa. Oltretutto lo farebbe da posizioni di forza.
      2) molti settori di mercato, nei quali i prodotti tedeschi dominano, sono pressoché anelastici al prezzo. BMW, farmaci, motori a reazione continueranno a vendersi anche con un aggravio di prezzo.
      3) non si tiene in debita considerazione la struttura produttiva italiana. Es: con la svalutazione, torneremmo a fare concorrenza alla Volkswagen. E con quale industria automobilistica, di grazia, visto che la nostra l'abbiamo smantellata? Senza contare un altro dettaglio. Gran parte del nostro manifatturiero è costituto da ditte subfornitrici di grandi imprese tedesche. Con svalutazione lira e rivalutazione Marco, queste imprese potranno acquistare suboforniture a minor prezzo, acquisendo un vantaggio competitivo rispetto al costo del prodotto finale. Ci avevamo mai pensato?

      In estrema sintesi: non si può pensare di "scavalcare" il divario tra il nostro capitalismo e quello tedesco passando per il cambio. Il problema sta tutto lì. La nostra classe dirigente non è in grado di competere con quella tedesca. Ma per me potrebbe andare a morire ammazzata anche se lo fosse.

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    16. Si ma infatti uscire non è certo una passeggiata, e non risolve tutti i problemi, ma intanto tornare ad avere una banca centrale che conta qualcosa e un giusto prezzo(non svalutato, giusto prezzo) della nostra moneta cambia.
      poi il mercantilismo lo fai se attui deflazione salariale per essere più competitivo, ma non è così necessario.Adesso abbiamo i mercati esteri chiusi per un gap di competitività di prezzo alto, se lo diminuisci, già è meglio no?
      poi il problema di base non è tanto quello se vendi di più alla Germania, è che comincerebbe a essere conveniente consumare i nostri prodotti, non credo si venderanno le stesse golf che si vendono ora in Italia una volta finito l' euro.
      O anche le stesse quantità di latte tedesco, o acciaio, per esempio.

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    17. Perdonami, ma abbiamo i mercati Esteri chiusi per carenza di domanda. Per uscire da una simile impasse, ci vorrebbe un rilancio della spesa pubblica produttiva (sì, produttiva!) a livello perlomeno continentale. Il mercantilismo non ci salverà, nemmeno se travestito da svalutazione.

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    18. Che il mercantilismo non ci salvi è certo.Anzi semmai è una delle cause delle crisi.
      Io penso che il far tornare i nostri prodotti convenienti - soprattutto per noi stessi - sia essenziale.
      Poi all' esterno non è che ci sia questo buco nero come qui in Europa.
      Infine si, c'è sia bisogno di intervento pubblico produttivo siamo daccordo, ma vallo a dire ai trattati europei (oppure alla nostra classe dirigente che li applica, se così ti piace di più).

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    19. Ecco, a me non verrebbe mai in mente di "andarlo a dire" alla classe politica. la classe politica va rovesciata, non trattata come un interlocutore. Ovviamente non va rovesciata per rendere il Made in italy più conveniente, ma per ragioni un po' più profonde ;)

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  7. Intanto voglio dire che le cose scritte da Claudio Martini, da Riccardo e da Rosanna Spadini sono tutte molto interessanti e pongono problemi veri. Tra le tante cause della differenza tra Italia e Germania mi sembra che non sia stata menzionata la capacità tedesca di fare sistema (al loro interno, naturalmente) e il forte intervento di programmazione statale. Non è vero che la politica tedesca sia liberista, la presenza dello Stato è molto forte. Il ruolo delle banche pubbliche, ad esempio. Oltre agli elementi già citati, finanziare le aziende e la ricerca a tassi d'interesse molto bassi costituisce un vantaggio competitivo estremamente importante. Ma non sono negli aspetti tecnici che devono essere ricercate le differenze. Sono nei rapporti sociali che devono essere ricercate le cause profonde. L'Italia spaccata in due non è un fatto tecnico, come la mafia non è un fenomeno criminale ma un vero sistema di potere, una cultura primitiva che non si trasforma con semplici tecnicismi. Anche la cultura industriale, di capitalisti senza capitali, anche le mani sul sistema bancario (vedi il ruolo che ha giocato per decenni Mediobanca). Ci sarebbero tantissime cose da dire, anche la propensionead esportare svalutando la lira. Che ha funzionato quando la lira era agganciata al dollaro e il marco era forte. È evidente che questi problemi non si risolvono magicamente uscendo dall'euro, come vorrebbe la Lega e fascistume vario. È chiaro che l'unità monetaria creata come è stato creato l'euro è insostenibile per le ragioni che sono state dette. È altrettanto vero che, nell'ipotesi di rottura dell'euro, tutti i problemi interni, endogeni, ce li ritroveremmo così come li avevamo lasciati, con l'aggravante che nel frattempo il mondo è cambiato. La battaglia sociale, di classe, è l'unica strada per affrontarli. Perchè di questo si tratta. Perché è il ruolo di chi lavora che è stato storicamente piegato alle esigenze di capitalisti straccioni e agli interessi oligarchici e mafiosi di questo paese per buona parte arcaico.

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  8. Produzione industriale Italia e Germania prima e dopo l’euro

    Ecco qua, guardate il grafico, è per quelli che: La Germania non sente la crisi perché sono belli biondi e produttivi, noi non cresciamo perché siamo pigri e invece di lavorare andiamo al mare, non è colpa dell' euro né tantomeno delle politiche deflazionistiche (leggi mercantiliste) della Germania, no, siamo noi che non abbiamo fatto le riforme strutturali, che abbiamo un mercato del lavoro ingessato che abbiamo i sindacati che rompono i cosiddetti, eccolo il modello che si vuole imporre all' Italia, ecco i risultati comparati sulla produzione industriale in Germania e in Italia prima e dopo l' euro ( vedi grafico ), e adesso sapete anche il perché.

    A questo punto però io credo che nonostante le debolezze strutturali dell’economia italiana rispetto a quella tedesca, non sia possibile tornare a crescere se non si esce dall’euro. Vero?

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  9. Secondo me è giusto mettere in guardia dal semplice "ritorno a quando andava tutto bene", oppure a non generalizzare dicendo che il vecchio capitalismo italiano era perfetto.
    Sappiamo benissimo che non è così e soprattutto che l'obiettivo più auspicabile dovrebbe comunque essere un superamento brusco o gradule dello stesso.

    Detto questo mi sembra che si generalizzi anche nell'articolo, quando si parla della debolezza italiana, soprattutto rispetto alla "solidità tedesca".
    Secondo me è un argomento certamente da approfondire perchè sembra che si esaltino davvero troppo le differenze tra i 2 paesi.

    Bisognerebbe aggiungere che la "teoria delle scarpe uguali" è stata applicata anche con lo sme e soprattutto lo sme credibile, che le "svalutazioni" passate sono state sistematiche solo dopo gli shock petroliferi, mentre rispetto alla Germania è interessante notare quanto sia stata più essa a dover rivalutare a causa delle politiche antinflazionistiche.
    Visto che è stato citato Bagnai in qualche commento, ne condivido un articolo a riguardo http://goofynomics.blogspot.it/2014/01/zingales-e-la-svalutazione-strutturale.html
    Per quanto riguarda la ricerca e sviluppo molto dipende dalla natura diversa dei 2 capitalismi, quello italiano incentrato sulla piccola impresa ha difficoltà maggiori in assenza di politiche statali mentre la grande impresa tedesca lavora molto nella ricerca privata.
    Non sempre le grandi imprese sono intrisicamente migliori, anche dal nostro punto di vista, magari in un ottica di superamento del capitalismo classico verso forme di economia locale (come i famosi km0).
    Anche paragonando i pochi dati su evasione e corruzione ci rendiamo conto che non è un problema solo nostro, questo non vuol dire mal comune mezzo gaudio, infatti è bene ricordare certe cose.
    Onestamente dire che certi piedi siano migliori di altri non è così scontato e anzi potremmo avere discrete sorprese.
    I problemi del capitalismo italiano sono principalmente i problemi del capitalismo stesso, senza discostarsi molto da quello "della concorrenza".
    In conlusione ritengo personalmente giusto e doveroso mettere in guardia dalle fascisterie varie, però evitando il rischio di cadere nelle solite semplificazioni.

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    1. Posso?
      Sempre tenendo a mente la prospettiva rivoluzionaria, se devo scegliere tra un capitalismo arretrato e uno avanzato scelgo il secondo. Credo di non essere l'unico.

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    2. Buon 25 aprile!
      Diciamo che io ponevo qualche dubbio sul confronto tra i 2 capitalismi, basato solo su una considerazione valuta debole-capitalismo debole, quando è un valore molto condizionato dalle politiche, soprattutto in caso di rivalutazione, e da eventi esterni.
      Comunque capisco certamente il punto di vista.

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  10. Risposte
    1. Be', è l'ARS descritta con un disegno.

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    2. Questo lo dici tu, facendo finta di non capire quello che voglio dire. Per me è la scelta tra un capitalismo arretrato e un capitalismo avanzato.

      Poi, si sa, ognuno va dove lo porta il cuore...

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    3. Io quando non capisco non faccio finta: non capisco. Mi capita sovente. Veniamo a noi: non a caso ho scritto "se DEVO scegliere". Del resto ho chiuso il post rifiutandomi (sia pure a livello ideale)di suggerire soluzioni al capitale italiano per rafforzarsi. Alla scelta capitalismo avanzato/arretrato ci vogliono costringere i pasdaran pro e anti euro.

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  11. Lungi da me voler difendere il capitalismo predatorio italiano. uno dei piu´ biechi esempi di sfruttamento del continente.

    Perô e´ partigiano descrivere le cose in questo modo dimenticando che il sistema di libero scambio europeo e´ stato creato a immagine e somiglianza della grande impresa del centro europa.

    e si dimentica inoltre che nel gioco del libero scambio il capitale piu´ grande vince sempre. e almeno da 100 anni il capitale piu´ grande d´europa risiede in germania.

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  12. "Perô e´ partigiano descrivere le cose in questo modo dimenticando che il sistema di libero scambio europeo e´ stato creato a immagine e somiglianza della grande impresa del centro europa.
    e si dimentica inoltre che nel gioco del libero scambio il capitale piu´ grande vince sempre. e almeno da 100 anni il capitale piu´ grande d´europa risiede in germania."

    NON CI SI CREDE!!!!!!

    Ho scritto:

    "Mettere economie diverse nello stesso mercato produce, in primo luogo, una polarizzazione tra le diverse economie, che si aggrava sempre di più: i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri."

    Ho proseguito:

    "Abbiamo capito che non dovremmo avere la stessa moneta della Germania"

    Però mi sono chiesto:

    "ma perché la nostra moneta, per garantirci competitività, deve essere strutturalmente più debole di quella tedesca?"

    Ecco il senso dell'articolo.
    E poi mi si accusa di dimenticare che " il sistema di libero scambio europeo e´ stato creato a immagine e somiglianza della grande impresa del centro europa."

    Ma stiamo scherzando o cosa?


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    Risposte
    1. io volevo solo dire che secondo me e´ ben piu´ probabile che il clientelismo e l evasione fiscale e l affidarsi alla debolezza del cambio - sulla corruzzione passerei oltre essendo fenomeno mondiale - piuttosto che elementi endemici del capitalismo italiano, che infatti non erano presenti in modo preponderante durante bretton woods, sono il metodo scelto dal capitale italiano per difendersi dal nuovo ordine europeo instaurato a partire dagli anni 70.

      Il capitalismo italiano avrebbe potuto

      1 - combattere - ma questo avrebbe voluto dire concedere piu´ potere allo stato italiano, cosa in prospettiva pericolosa per ´loro´ e quindi da evitare -

      2 - soccombere - cioe´ tentare di sfidare in ricerca e innovazione chi aveva mezzi enormemente superiori

      3 - salvarsi in corner - cioe´ accettare il nuovo ordine continentale facendo affidamento su politici compiacenti per sopravvivere e avere comunque una fetta della grande torta continentale.



      molto a grandi linee. pero´ pensare che il capitale italiano, seppur volendo, avrebbe potuto competere con quello tedesco mi pare sbagliato. nel libero scambismo chi ce l´ha piu grande vince. anche giocando alla pari.


      poi andrebbe fatta la distinzione tra grande capitale italiano paragonabile a quello centr europeo - Agnelli De benedetti ecc... che infatti ben accolsero e furono anch essi promotori del nuovo sistema al pari dei cugini d oltralpe - e capitale non piccolo ma cmq di dimensioni non transnazionali fortemente diffuso in Italia...che scelse appunto la difesa.

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    2. E siamo daccapo: perché il capitalismo tedesco "ce l'ha più grande"?

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    3. non lo so non sono uno storico. ipotizzo: perche da quando gli stati tedeschi si sono uniti si e´ formata un entita´ statale troppo prorompente tale da mutare gli equilibri del continente per sempre....

      non credo sia per la corruzione. pero ammetto la mia ignoranza. comunque non e´ sicuramente un motivo da ricercare esclusivamente nella storia del dopoguerra essendo che e´ cosi da oltre un secolo.

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  13. Giusto. Però non scordiamoci che oltre al rovesciamento del capitalismo, c'è da fare i conti anche col peccato originale.

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  14. Tutti in vena si battutone divertentissime, vedo. Avete un futuro nel cabaret.

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  15. "Cosa rende la Germania così forte?
    La risposta standard in genere è: il taglio (o la mancata crescita) dei salari tedeschi. Ne abbiamo parlato infinite volte; ma questa spiegazione può (forse) spiegare il differenziale di produttività con la Francia. Non ci dice molto, invece, sullo svantaggio competitivo del nostro paese, un paese che ha vissuto una deflazione salariale ancora più radicale di quella tedesca".

    Puoi chiarire il punto? Per quel che ne so è vero il contrario, il contenimento (mancata crescita rispetto alla produttività) dei salari tedeschi è stato più radicale di quello italiano, come si vede in questa immagine, tratta da qui

    Antonino

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    1. E certo, e quale altra potrebbe essere la fonte? ;)
      Dai scherzo...

      È molto facile che i salari italiani tra il 99-07 appaiano rispettosi della "regola aurea" keynesiana, per la banale ragione che in quel periodo la produttività italiana è rimasta sostanzialmente al palo; quella tedesca è cresciuta, abbattendo l'inflazione. Il senso dell'intero post può racchiudersi in una sola frase: perché la produttività tedesca tende a crescere più che da noi?
      Ma non voglio sembrare evadere alla domanda. Quel grafico è ovviamente corretto, ma parziale. Capita sovente.
      La deflazione dei salari reali italiani comincia a partire dagli anni '90, dalla mitica svalutazione. In quel periodo si è verificato quel che la ILO ha descritto come il processo di riduzione degli indici di protezione del lavoro più esteso del MONDO (mondo, non Europa). I salari italiani sono rimasti pressoché fermi per vent'anni, prima di crollare nel 2011. Questo mi fa pensare che l'Italia sia uno dei paesi europei maggiormente propensi al mercantilismo.
      A partire dal 2004, inizia un percorso di inseguimento da parte tedesca, in cui loro tentano progressivamente di avvicinarsi ai nostri livelli, senza riuscirci (con la crisi dello spread i loro salari sono rimasti stabili, i nostri sono crollati). Ma la strada dei bassi salari l'abbiamo percorsa noi per primi a livello europeo.

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    2. "senza riuscirci"????

      e per quale motivo mai il capitalismo tedesco avrebbe dovuto minare la base di consenso che ha fra il proprio popolo forzando una corsa ai ribassi salariali sui livelli di quella italiana quando non ne ha bisogno? le imprese tedesche godono anche di una moneta ampiamente sottovalutata, non hanno bisogno di svalutare ulteriormente il salario medio - che nel settore dei servizi è cmq crollato.

      "se non svaluti la moneta svaluti il salario"....

      la Germania è il Paese più mercantilista al mondo...questo direi che va ricordato.

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    3. Vorrei fare alcune domande, ma se la Germania comunque riusciva a competere sui mercati perchè ha dovuto fare la riforma Hartz?

      Perchè è in ogni caso proprio da lì che vediamo la biforcazione.

      Non è che fino al 2004 hanno campato sul serbatoio Germania est sia di imprese prese per quattro soldi e relativi mercati e di un esercito di disoccupati?

      C'è anche da dire una cosa perchè si prende sempre a paragone la Germania e non l'UK, Francia, USA, Giappone, ecc.

      Che non sia proprio la Germania l'anomalia?

      Riccardo.

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