giovedì 15 novembre 2012

L'unica democrazia del Medio Oriente?

Una notizia ANSA di qualche giorno fa ci ricorda, caso mai ce ne fossimo dimenticati, che cosa sia lo Stato di Israele, quello che i suoi sostenitori fino a poco tempo fa definivano “l'unica democrazia del Medio Oriente”.  A quanto pare, se Abu Mazen dovesse insistere nel chiedere il riconoscimento della Palestina come Stato all'ONU (in qualità di osservatore, non membro), Israele potrebbe decidere di rovesciarlo. Ricordiamo inoltre che un paio di anni fa Israele proibì a Noam Chomsky di tenere una lezione all'Università palestinese di Ramallah, una città che non rientra certo all'interno dei confini dello Stato di Israele. Ora, sarebbe facile dilungarci in battute pensando a cosa succederebbe se uno Stato europeo proibisse ad un famoso intellettuale ebreo di parlare in una Università, ma non vogliamo soffermarci su questo.

Ciò che è importante chiederci è: cos'è una democrazia? Difficile darne una definizione, tuttavia non c'è dubbio che essa non sia presente laddove il popolo sia privo di ogni forma di controllo sul potere cui è sottoposto.
Ma chi detiene il potere in Palestina? Se “l'unica democrazia del Medio Oriente” può pensare di rovesciare Abu Mazen, se può impedire a Chomsky di parlare a Ramallah, se le è consentito uccidere un qualsiasi palestinese (l'ultimo di tali omicidi mirati è di questi giorni) senza mai rendere conto in nessun modo al popolo palestinese o ai suoi rappresentanti, è evidente che il potere reale è nelle mani di Israele.
E il popolo palestinese può esercitare una qualche forma di controllo su tale potere? Ovviamente no. Possiamo allora parlare di democrazia? Ovviamente no.
La situazione nella Palestina occupata è quella di una dittatura militare che si protrae da più di quarant'anni con la complicità dell'intero Occidente. E tutto ciò non è dovuto al caso né alla malvagità di qualcuno. E' la logica conseguenza di una precisa scelta politica, quella di costruire uno Stato ebraico in Palestina. E il problema non è certo l'aggettivo “ebraico”. Il problema sarebbe lo stesso se si volesse costruire uno Stato coreano in Slovenia, o uno Stato finlandese in Paraguay. Si tratterebbe in ogni caso di una follia, foriera di violenze e sangue.
Infatti, come si potrebbe riuscire a costruire uno Stato coreano in Slovenia, visto che, ahimé, la Slovenia è abitata dagli sloveni? Bè, per prima cosa bisognerebbe portarci i coreani, ovviamente, ma non basterebbe. Perché se non si volesse uno Stato binazionale, cioè se si volesse specificatamente uno Stato coreano, bisognerebbe anche risolvere il problemino rappresentato dalla presenza degli sloveni. E non ci sono molte alternative: o li si tiene sotto un regime repressivo, o li si caccia, o li si stermina. Il progetto sionista di creazione di uno Stato ebraico in Palestina, nelle condizioni storiche date, poteva realizzarsi solo attraverso la dittatura, o la  pulizia etnica, o il genocidio. Finora Israele, nei confronti dei palestinesi, ha usato le prime due opzioni: pulizia etnica al momento della fondazione dello Stato, dittatura militare nei territori occupati nel '67. Non siamo ancora giunti al genocidio, e ne siamo felici, naturalmente. Resta il fatto che l'oppressione del popolo palestinese è un'infamia intollerabile, e che di fronte all'oppressione non si può essere equidistanti: bisogna scegliere se si sta con gli oppressi o con gli oppressori, e qualunque tentativo di evitare questa scelta è infame anch'esso.
(M.B.)

Aggiornamento: questo post era stato concepito nelle sue linee essenziali prima del recentissimo intensificarsi della crisi su Gaza. Non vuole essere una analisi puntuale della situazione attuale, ma piuttosto un chiarimento su alcuni nodi essenziali della questione

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