(M.B.)
La decrescita non è l'impoverimento
(Marino Badiale, Massimo Bontempelli)
L’idea (o slogan) della decrescita è una componente essenziale di un pensiero critico capace di confrontarsi con la situazione del mondo contemporaneo, e di interagire con una possibile nuova pratica politica adeguata ai gravissimi problemi attuali. Il punto di partenza del pensiero della decrescita è la ritrovata consapevolezza, annullata nel senso comune da qualche secolo di capitalismo, che i concetti di bene economico e di merce non sono identici: beni (intesi anche come servizi) sono i prodotti del lavoro umano che soddisfano determinati bisogni e necessità, merci sono, tra quei beni, quelli inseriti in un mercato monetario con un prezzo di vendita, ed acquisibili, quindi, soltanto pagando quel prezzo. In termini logici, sono due concetti interconnessi, ma non coestensivi. La distinzione chiaramente riecheggia quella, introdotta dagli economisti classici e ripresa da Marx, fra valore d’uso e valore di scambio. Quando si parla di crescita si intende la crescita della sfera della circolazione di merci, quindi della sfera di compravendita di beni e servizi dotati di un prezzo. Quando si parla di decrescita si intende la diminuzione del raggio di questa sfera.
La decrescita è necessaria per risparmiare all’umanità la gravissima crisi di civiltà alla quale ci sta portando l’attuale organizzazione economica e sociale, che ha nella crescita il dogma che non può essere messo in discussione. Vi è ormai una presa di coscienza sempre più diffusa del fatto che non vi può essere una crescita illimitata in un pianeta le cui risorse sono limitate, e che sono ormai stati raggiunti (e superati) i “limiti della crescita”. Ma oltre a questo, è necessario acquisire anche un altro livello di consapevolezza: la crescita economica degli ultimi trent’anni è stata ottenuta con la distruzione delle conquiste dello Stato sociale e con una tendenziale riduzione della logica di funzionamento della totalità sociale alla logica del profitto e del mercato. In questo modo, lo sviluppo capitalistico non distrugge solo la natura, distrugge anche ogni forma di coesione sociale e lo stesso equilibrio mentale degli individui. La decrescita, l’opposizione a questo sviluppo cancerogeno, è dunque un passaggio necessario per salvare la civiltà umana. Essa non deve però essere considerata una dura e sgradevole necessità. La decrescita non è impoverimento: essa è definita, come abbiamo ricordato sopra, nei termini della diminuzione delle merci e non necessariamente dei beni. La decrescita non comporta, in linea di principio, la diminuzione di beni e servizi fruiti dalla popolazione. Comporta piuttosto un ripensamento e una riorganizzazione della produzione e del consumo, incentivando, per fare qualche esempio, i beni ottenuti con l’autoproduzione o con scambi non mercantili, le merci ottenute con produzioni locali, le merci programmate per durare a lungo e per essere facilmente riciclate alla fine del loro ciclo d’uso. Questo comporta ovviamente un cambiamento profondo degli stili di vita delle popolazioni, ma non un loro impoverimento. Per esempio, comporta un drastico ridimensionamento della dimensione della moda e della pubblicità che ci fanno considerare desueti oggetti ancora perfettamente funzionali, ma anche la diminuzione generalizzata dell’orario di lavoro (inteso come lavoro salariato) per rendere possibile l’autoproduzione di una parte dei beni e la cura delle relazioni umane e dei rapporti di comunità, al cui interno possono avvenire scambi non mercantili di beni e servizi.
Per approfondire questo punto, il fatto cioè che la decrescita non è l’impoverimento, occorre riflettere sulla nozione di povertà. L’errore che viene commesso comunemente, a tutti i livelli, è di definire la povertà nei termini quantitativi di un livello di reddito monetario. Un qualsiasi articolo giornalistico sulla povertà nel mondo conterrà sempre il richiamo al fatto che “al mondo ci sono x milioni di persone che vivono con meno di due dollari al giorno”, dove appunto si intende che “povertà” sia definita quantitativamente dall’avere un reddito inferiore ai due dollari al giorno. Si tratta, come dicevamo sopra, di un errore: la povertà va definita in termini qualitativi, sociali e storici, e non in termini quantitativi. Due persone ugualmente povere secondo la definizione quantitativa, cioè allo stesso (basso) livello di reddito monetario, possono vivere tale situazione in maniera completamente diversa a seconda del contesto sociale. Per fare un esempio, vi possono essere, come in certe epoche del Medioevo, situazioni nelle quali il povero è rispettato, e soprattutto la povertà è considerata una delle possibili condizioni umane, non l'espressione di un fallimento personale come adesso. Per cui il povero, economicamente aiutato da comportamenti caritativi non episodici e non umilianti, non è povero nel nostro senso della parola. Ma per venire a considerazioni più vicine al tema della decrescita, pensiamo alla situazione di un contadino inglese di bassa condizione sociale nella fase in cui ha la possibilità di usufruire di una serie di beni comuni (boschi, pascoli), e confrontiamola con la fase successiva nella quale i beni comuni sono stati appropriati dai grandi proprietari terrieri (le famose enclosures sulle quali ha tanto insistito Marx). E’ chiaro che, nelle due situazioni, lo stesso reddito monetario si coniuga a una situazione materiale ben diversa, perché nel primo caso il contadino ha la possibilità di integrare uno scarso reddito monetario con beni e servizi ai quali ha accesso senza passare per lo scambio monetario, mentre nel secondo caso questa possibilità non c’è più. Per fare infine un ultimo esempio, pensiamo alla condizione in cui si trovavano un tempo i domestici che vivevano nella stessa casa dei padroni: essi avevo diritto ad una casa, al cibo, spesso agli abiti, e ad uno scarso reddito monetario. Un tale scarso reddito, assieme alla condizione di servitore, implicava certamente l’essere in fondo alla gerarchia sociale, ma non una condizione di miseria, come lo sarebbe invece stato se lo stesso reddito monetario, o anche uno leggermente superiore, avesse dovuto essere utilizzato per l’acquisto del cibo e il pagamento di un affitto[1].
Possiamo allora adesso capire più facilmente l’errore del discorso comune sulla povertà, che la identifica con un reddito inferiore ai due dollari al giorno. Il punto è che due dollari al giorno possono indicare una situazione in cui è possibile vivere, oppure possono indicare la miseria più disperata, a seconda delle condizioni sociali. Se le persone vivono all’interno di una economia di sussistenza, nella quale cibo e altri beni sono prodotti e scambiati al di fuori del meccanismo del mercato, la vita con meno di due dollari al giorno può essere possibile e può perfino essere ricca, non dal punto di vista materiale ma dal punto di vista delle relazioni umane. Ma se le persone vivono con meno di due dollari al giorno in una situazione in cui l’accesso ai beni fondamentali come cibo e acqua è mediato dal denaro, allora davvero si trovano in una situazione di disperazione.
Il punto è che ciò che comunemente si chiama “sviluppo dei paesi poveri” consiste essenzialmente nel passaggio da economie non monetarie di sussistenza a economie monetarie: per quanto abbiamo appena detto, è allora assai probabile che l’effetto di questo sviluppo sia la creazione di povertà autentica, disperata, invivibile, al posto di una situazione in cui le persone e le comunità potevano sopravvivere, certamente con meno agi rispetto a quelli ai quali noi occidentali siamo abituati [2]. Queste osservazioni rappresentano fra l’altro la risposta ad una tesi che ricorre frequentemente, nelle discussioni sulla decrescita, la tesi cioè secondo la quale la decrescita potrebbe essere una buona idea per i paesi sviluppati ma è improponibile nei paesi poveri. La risposta è dunque che la crescita è distruttiva sia nei paesi sviluppati sia nei paesi sottosviluppati, e la decrescita è una strategia di salvezza per l’intera umanità (con queste osservazioni non intendiamo naturalmente dire che le economie di sussistenza, ancora largamente diffuse nei paesi “poveri”, debbano essere conservate così come sono, ma semplicemente suggerire che un autentico progresso umano per quei paesi dovrebbe avvenire senza inseguire il modello di mercificazione universale tipico del capitalismo).
Un altro aspetto di cui tenere presente, quando si parla di povertà, sta nel fatto che la povertà ha sempre anche un aspetto comparativo: si è più o meno poveri in riferimento allo status medio della società nella quale si vive ed alle merci che essa considera necessario possedere. Spingendo all’acquisto di sempre nuovi oggetti, l’attuale sistema economico crea nuove povertà, perché non tutti sono in grado di acquistarli. Oggi molte persone che definiremmo povere spendono parte del loro scarso reddito per acquisti come quello del telefono cellulare: bisogna averlo perché tutti ce l’hanno, lo usano e danno per scontato che tutti debbano essere attraverso di esso rintracciabili, quindi senza di esso ci si sente più poveri. La società basata sulla crescita genera quindi povertà, da un lato perché genera bisogni cui non tutti possono accedere, dall’altro perché è organizzata in modo da rendere necessari certi acquisti. Questo è ciò che capita se per esempio scompaiono i piccoli negozi e sono disponibili solo supermercati lontani da casa, rendendo così necessaria l’automobile, oppure se a poco a poco si trasferiscono su internet gran parte della transazioni della vita quotidiana, rendendo necessario l’acquisto del computer e il suo continuo aggiornamento.
L’identificazione di decrescita e impoverimento deriva quindi da un’idea sbagliata di povertà, un’idea nella quale si sono fatti scomparire tutti gli aspetti storicamente e socialmente determinati della povertà stessa.
Allo stesso modo, occorre distinguere fra decrescita e recessione economica. La recessione è la diminuzione del PIL in un quadro immutato di mercificazione dell’economia e, più in generale, di configurazione sociale. Recessione significa allora che l’individuo ha sempre gli stessi bisogni di prima (ha bisogno dell’automobile, dell’asilo a pagamento per i figli, di cambiare continuamente il vestiario per seguire la moda, e così via), ma non ha più il reddito monetario per soddisfare questi bisogni, quindi è più povero.
La decrescita, al contrario, è un mutamento qualitativo, non solo quantitativo. Decrescita significa che il PIL diminuisce per due ragioni. In primo luogo certi beni che prima venivano prodotti come merci vengono prodotti come beni non mercificati, oppure restano merci ma includono spese minori per il trasporto e la pubblicità (che andrebbe abolita). In secondo luogo cambia la struttura dei bisogni: se ci sono presidi sanitari sparsi nel territorio che forniscono prestazioni gratuite di buon livello, non si sente il bisogno dell’assistenza sanitaria privata, e chi non ha i soldi per questa non si sente povero. Se un quartiere viene attrezzato per avere una vita sociale autosufficiente, non si genera il bisogno di andare a cercare una discoteca a cento chilometri di distanza, e chi non ha la possibilità di farlo non si sente povero. La scelta della decrescita è in sostanza la scelta di una vita sobria, nella quale una volta raggiunto il soddisfacimento di una serie di bisogni fondamentali non si cerca, come succede oggi, il consumo compulsivo e distruttivo di sempre nuovi oggetti, ma si ricerca la vera ricchezza che oggi ci manca: il tempo per costruire relazioni umane ricche e rapporti di comunità significativi.
La differenza fra decrescita e recessione si comprende anche dall’osservazione che la recessione è un automatismo dell’economia di mercato: interviene necessariamente, date certe condizioni iniziali. Al contrario la deccrescita è un progetto che deve essere attivamente perseguito, e sicuramente non si instaurerà in modo automatico.
Se si è compreso tutto questo, è allora facile capire come la decrescita rappresenti un progetto rivoluzionario, l’unico autentico progetto rivoluzionario oggi disponibile.
Infatti, l’organizzazione economica capitalistica spinge alla mercificazione di ogni aspetto della realtà sociale e di quella naturale: si tratta di un meccanismo necessario alla riproduzione allargata della creazione di plusvalore. Chi vuole la decrescita vuole bloccare e invertire questa tendenza, e quindi ha una posizione anticapitalistica, anche se la coscienza di questo non sembra essere pienamente chiara in coloro che la sostengono e neppure nei critici anticapitalisti della decrescita stessa.
La confusione fra decrescita e povertà, o fra decrescita e recessione, è in ultima analisi un prodotto dell’attuale egemonia del capitalismo. Si tratta del fatto che all’interno della società capitalistica appare del tutto inconcepibile una società che produca e consumi secondo una logica non mercantile. La decrescita appare inconcepibile, oppure concepibile solo come una sventura, perché il nostro immaginario è dominato da un’idea di povertà e ricchezza, e in generale di vita e di umanità, forgiata dal capitalismo. La lotta anticapitalista deve oggi essere una lotta contro questo immaginario.
[1] A scanso di equivoci, precisiamo che non stiamo facendo propaganda alla condizione del domestico di famiglia, che era comunque una condizione di subalternità sociale e poteva accompagnarsi a freddezza o durezza nei rapporti umani. Stiamo semplicemente sottolineando come lo stesso livello quantitativo di reddito monetario sia compatibile con condizioni reali di vita molto diverse fra loro.
[2] Ovviamente la dinamica reale dello “sviluppo” nei paesi poveri può essere molto diversa a seconda delle diverse situazioni. Vi possono essere casi nei quali lo sviluppo non ha tutte le conseguenze negative che potenzialmente potrebbe avere. Non stiamo qui indagando casi determinati, stiamo facendo considerazioni generali sulla nozione di “povertà”.
il post chiarisce molte ambiguità, e certamente posta in questi termini non parlerei tanto di decrescita, ma di crescita della convivialità e di politiche che aumentino l'autosufficienza personale e collettiva. Queste come effetto "misurabile" avrebbero probabilmente la decrescita del PIL, inteso come indice che misura in termini monetari lo scambio di merci, ma non enfatizzerei questo aspetto perchè è origine di equivoci, al punto di sentire commenti di sedicenti decrescisti che vedono nella recessione un percorso verso la decrescita.
RispondiEliminaCome giustamente evidenziato in altri blog (orizzonte48.blogspot.it) la premessa indispensabile per poter attuare politiche alternative è quella di riconquistare la sovranità nazionale e di ridare vigore (proprio nel senso di farla ritornare in vigore) alla Costituzione Italiana del 1948, innanzitutto perchè deve essere ridata priorità alla politica rispetto alla tecnica economica, ma non basta, perchè occorrerebbe comunque riportare la banca centrale italiana sotto il controllo del ministero del tesoro in modo tale che l'azione del governo non debba dipendere dalle logiche mercantiliste che attualmente agiscono e che tengono in ostaggio i governi, i quali sono obbligati a dover attuare quelle politiche in grado di remunerare il capitale preso in prestito dai mercati finanziari; in queste condizioni è quindi impossibile parlare di riduzione del PIL se sei obbligato a remunerare un capitale che proprio in virtù della crescita del PIL può essere remunerato.
E' da anni che seguo con attenzione tutta la tematica della Decrescita ed è veramente difficile riuscire a sintetizzare con estrema semplicità e chiarezza un concetto (ma forse sarebbe preferibile dire una filosofia) così fortemente travisato e osteggiato.
RispondiEliminaPermettetemi di farvi i miei complimenti per lo splendido lavoro che avete fatto.
Così come approfitto per complimentarmi per il libro "La trappola dell'euro" che da poco ho terminato di leggere.
Se può far piacere vi invito a leggere un post che ho pubblicato tempo fa sul mio blog che è centrato sul pensiero di Georgescu-Roegen che, come ben saprete, può essere considerato un padre fondatore di tutto questo immenso mondo che si ispira alla decrescita.
Il post lo potrete trovare all'indirizzo http://contraddittoriale.blogspot.it/2011/10/lingranaggio.html
Di nuovo complimenti per lo splendido lavoro che state portando avanti.
In bocca al lupo e buona vita a tutti.
Sono attivamente impegnato nelle tematiche ambientaliste, e proprio a partire da ciò sono fortemente critico sull'uso stesso del termine decrescita, mi pare che sia un modo di partire col piede sbagliato.
RispondiEliminaLa mia critica consiste nel fatto che ciò che dobbiamo combattere non è la crescita del PIL, ma l'uso stesso del PIL come criterio significativo di valutazione dell'azione politica, che invece viene riconfermato come criterio fondamentale da chi predica la decrescita.
Se, come dovrebbe essere ovvio, ciò che vogliamo combattere è lo spreco delle risorse, allora non possiamo partire dall'ultimo passaggio, dal momento della produzione del reddito e dal suo consumo, ma molto prima, già dall'inizio, dal posto anomalo, assolutamente folle, che l'economia occupa nella politica, come nella vita privata di ciascuno di noi. Non dico, badate bene, che l'economia possa essere completamente ignorata, ciò sarebbe altrettanto folle, ma piuttosto che il suo posto, la sua importanza in questa società è eccessiva, debordante tanto da andare ad occupare ogni luogo e nascondendoci tutte le differenti cose che contano per condurre una vita soddisfacente.
Perfino Latouche, che pure ècolui che ha ispirato tanto dle movimento ambientalista anche qui da noi in Italia, giustifica alla fine l'uso del termine decrescita solo per il suo valore simbolico forte, dice decrescita ma ammette di non volere predicare la decrescita. Mi chiedo però se è possibile scegliere così le parole d'ordine di chi si propone di costruire un movimento, un pensiero che possa saslavare il mondo dal disastro che l'attuale politica finirà col provocare. Qui, non stiamo scegliendo il colore di una bandiera in modo che sia più visibile e riconoscibile, qui se si dice decrescita, bisogna poi spiegare perchè dovremmo decrescere.
Ed infatti, non è che io voglia decrescere, anzi credo che in certi settori si debba invece crescere e neanche poco. Pensiamo ad esempio al settore dei trasporti, non credo che vogliamo rinunciare a una ragionevole mobilità nel territorio, soprattuto quelal a corto raggio. Ebbene, sembra ragionevole spostare le risorse dal trasporto individuale a quello collettivo, e ciò richiede un'attenta pianificazione, una politica ambientalista implica una pianificazione. A sua volta, la pianificazione implica rimettere la politica al posto di comando, ridimensionando il ruolo dlel'economia. Nel prendere un certo provvedimento, un governo deve considerare il complesso delle sue implicazioni senza considerare il PIL come criterio di giudizio. Paradossalmente, se si predica la riduzione del PIL, si continua a perpetuare il ruolo egemone dell'economia.
Brevemente, mi vorrei soffermare su un secondo elemento. Badiale, seguendo in ciò un analogo pensiero di Latouche, crede alla politica della riduzione dell'orario di lavoro. Io pur non avendo nulla contro una certa riduzione dell'orario di lavoro, trovo tuttavia sbagliato affidare eslcusivamente a questa misura la riduzione della produzione. Credo che nel costruire un mondo nuovo, bisogna coinvolgere fortemente il mondo del lavoro, e nello stesos tempo fini9rla cion questa concezione del tempo libero, questa divisione del tutto artificiale tra il tempo del lavoro ed il tempo libero. Come sappiamo, il tempo libero è un'invenzione recente che serve al capitale per lucrare anche su di esso, e così schiavizzandoci 24 ore su 24.
Sono insomma contrario a dividere il nostro tempo in modo così drastico, trattando il tempo del lavoro come un intervallo inevitabile e da ridurre il più possibile. Penso invece che dovremmo intervenire sull'organizzazione del lavoro rendendo i luoghi di lavoro più umani e non considerandoli una specie di toilette in cui dobbiamo certo andare a defecare, ma di cui non ha senso parlare, del tipo e di come si lavora bisogna invece parlare tantissimo.
Probabilmente l'unica cosa poco felice di tutto il ragionamento è il sostantivo prescelto: decrescita.
RispondiEliminaSuscita una tale prevenzione che nessuno approfondisce il discorso. I meccanismi istintivi con i quali nella nostra mente è stato martellato il concetto che crescita del PIL = unica possibilità di benessere non possono essere ammazzati così facilmente come immagina che ha capito certi aspetti.
solo dopo essere riusciti a "vedere oltre" la rappresentazione mediatica certe cose appaiono evidenti. Prima, non ci si riesce..
propongo di cambiare strategia di comunicazione, smettendo di usare questa terminologia.
Per Latousche,non "l'ondivago",quello interessante dell'abbondanza frugale,la decrescita potrebbe e dovrebbe essere considerata un ecosocialismo,ma solo come disintegrazione dei legami sociali sotto l'effetto dei rapporti mercantili(re-inquadrare l'economia,il lavoro,come uscita dall'economia come scienza...).
RispondiEliminaLA DECRESCITA E' LO STATO STAZIONARIO E/O LA CRESCITA ZERO.
Sembrerebbe quindi una diversa interpretazione semantico ideologica
versus la interpretazione di J. S. Mill,e un SUPERAMENTO non solo terminologico della DECRESCITA.
Pur accetando ,Marino Badiale,la distinzione tra poverta e quella che lei chiama politica di decrescita come lotta e distruzione-negazione di plus valore del capitalismo,resta da definire teoricamente questo distinguo nel terzo mondo.
E fuor di metafora, NON E' COSA DA POCO.
I poveri esistono anche "nel primo mondo".
cordiali saluti,
Ernesto Tonani
Mi associo a Criscuolo, complimenti, esposizione chiarissima. Come si fa a non condividere la decrescita felice? Impossibile. Ci sono però alcune domande che pongo a me stesso e a tutti coloro che sono interesssati. Grillo semplifica efficacemente il concetto, dice che l'economia oggi è composta da tre terzi, "un terzo a fare danni, un terzo a ripararli e l'ultimo terzo di produzione buona" cioè quella che rappresenta la vera ricchezza. E allora, se siamo entrati nell'era dell'abbondanza perchè la produttività umana è decuplicata e continua a crescere, sull'ultimo terzo l'umanità potrebbe "godersela". E' un concetto diverso dalla riduzione generalizzata di tutta la produzione, è una visione molto più allegra. Ad esempio, se siamo così bravi a creare tessuti (ex distretto di Prato per esempio), che male c'è a lavorare per vestirsi bene, a godersi il piacere di indossare un abito ben fatto? In altre parole, se l'abbondanza è il contrario della scarsità, e se i beni comuni rappresentano l'abbondanza, non c'è nessuna ragione di proporre un modello pauperistico, inteso in senso reale e non monetario, naturalmente.
RispondiEliminaAltra grande questione è come ci si arriva alla decrescita felice e come si riproduce un sistema sociale basato su quei principi. Cioè, visto che lo scenario è palesemente in conflitto con il capitalismo finanziario, è chiaro che non basta parlarne e non è una passeggiata. E poi come si riproduce. Lenin, al suo tempo, aveva idee molto chiare su come si dovesse riprodurre il socialismo. Noi abbiamo bisogno di un grande chiarimento.
Sì, mi fa piacere che io non sia l'unico a nutyrire dubbi sull'uso della parola "decrescita". Tuttavia, devo registrare che è ancora in termini di PIL che si imposta la discussione. Crescita zero, crescita di un terzo...
RispondiEliminaLa sostanza della mia obiezione era differente, non riguardava un diverso andamento del PIL, ma qualcosa di ben più radicale, senza cui non si esce dalla logica capitalista, ignorare il PIL ed occuparsi dei singoli beni, uno per uno.
Rispetto al famigerato modello dei tagli lineari, i tagli selettivi, il che significa anche gli aumenti selettivi, questa dovrebbe a mio parere rappresentare la nuova politica che miri ad essere alternativa.
Perchè non togliamo di mezzo il termine decrescita a favore del termine "sostenibilità"? Secondo me, sarebbe molto vantaggioso.
Sono contento di vedere che si discute questo tema. Anche io come Cucinotta avanzo dei dubbi sull'uso del termine decrescita.
RispondiEliminaResto inoltre piuttosto scettico sul fatto che passare da un regime in cui molti beni siano sottratti allo scambio mediato dal denaro possa portare ad un miglioramento. L'introduzione del denaro ha portato con se anche l'indipendenza della persona dalla comunità che gli fornisce beni e servizi. E' con il commercio, pur con tutti i suoi difetti, che si è lentamente abolita la servitù della gleba ed i vincoli che questa comportava.
Io temo che ritornare ad un sistema di scambi non mediati dal denaro sia comunque una regressione. Il problema è che il denaro non viene distribuito in maniera equa fra le diverse classi sociali.
Consideriamo inoltre che alcune distorsioni della nostra società non sono imputabili al capitalismo in se, ma al capitalismo casinò in cui ci troviamo a vivere. Come del resto evidenziato in alcuni passaggi di un articolo in cui Fraioli risponde a Pasquinelli:
Pasquinelli fa inoltre un'affermazione scorretta quando scrive che "né Bagnai né D'Andrea vogliono fuoruscire dal capitalismo casinò". Scorretta perché sovrappone due concetti profondamente diversi, il "capitalismo" e il "capitalismo casinò", i quali possono essere invece profondamente diversi.
Ecco, bisogna tornare capitalismo non-casinò, tornare a far crescere il PIL. Con il PIL in crescita possiamo ragionare di sviluppo ecosostenibile, di modelli più cooperativi di società, di comunità di cui negli anni settanta si stavano sviluppando alcune esperienze. Il cambiamento che proponete è, come voi stessi pure osservate, molto grosso; cambiamento così grosso possono molto difficilmente essere "ingegnerizzati", se accadono lo fanno per piccoli passi e spontaneamente, altrimenti rischiano di essere traumatici.
Ed anche se voi agite certamente animati da buoni propositi io sono convinto che quelle stesse elite sovranazionali che ci hanno attirati nella trappola dell'euro vogliano invece attrarci in un altra trappola utilizzando la retorica della decrescita. Per questo è di vitale importanza discuterne apertamente.
A costo di annoiarvi, non mi posso esimere dal puntualizzare che con Giovanni condivido solo la critica del termine "decresciita", su tutto il resto che egli dice, il mio dissenso è totale.
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