sabato 6 aprile 2013

L'eccezione e la regola

Segnalo una interessante discussione che potete trovare nel sito di Appello al popolo. La discussione parte da una intervista a Moreno Pasquinelli e prosegue con un paio di commenti ad essa da parte di “Correttore di Bozzi”, la risposta a questi commenti, e un intervento di Fiorenzo Fraioli  (“ecodellarete”). Trovate tutto nel link sopra indicato. La discussione è interessante perché tutte le persone coinvolte condividono la critica a euro e UE e la necessità per l'Italia di uscire da entrambe. Si dividono sulle prospettive da dare a questa uscita. Fraioli ha ben riassunto, mi sembra, il punto del contrasto parlando di posizioni “rivoluzionarie” contrapposte a posizioni “riformiste”, con Pasquinelli nel ruolo del rivoluzionario e lui e “Correttore di Bozzi” in quello dei riformisti. Mi permetto di commentare questo dibattito perché esso tocca un punto che secondo me è molto importante.

Le osservazioni che seguono sono stimolate da questa discussione ma non fanno riferimento specifico alle tesi in essa sostenute; intendo piuttosto sollevare un problema generale che mi sembra fondamentale. Si tratta del fatto che nella situazione attuale, a mio avviso, non c'è spazio né per le posizioni “rivoluzionarie” né per quelle “riformiste”, almeno nel significato che queste parole hanno avuto nel Novecento. Non spendo molte parole sulle posizioni “rivoluzionarie”: in sostanza mi sembra che esse nascondano la mancanza di una prospettiva chiara dietro ad alcune parole, quali “socialismo” o “comunismo”, delle quali è difficile indicare oggi un significato che sia insieme comprensibile e accettabile per quelle masse popolari alle quali i rivoluzionari si rivolgono. Detto altrimenti, quando qualcuno oggi parla di “socialismo” o “comunismo” il più delle volte non si capisce di cosa stia parlando, e le poche volte in cui lo si capisce, il fatto di capirlo fa scappare via tutti o quasi.
Più interessante mi sembra la discussione sul tipo di “riformismo” che potrebbe essere accoppiato alla critica di euro e UE. E' chiaro che si tratta di una posizione intellettualmente seria e coraggiosa, ben diversa da quella di chi crede che sia possibile una politica autenticamente riformista accettando però tutti i vincoli della (cosiddetta) globalizzazione, nonché euro e UE. Nella situazione data da questi vincoli, il “riformismo” è semplicemente impossibile. Il fatto che oggi la parola “riformismo” sia così diffusa, e si pretendano “riformiste” forze politiche e sociali che accettano i vincoli della globalizzazione e dell'euro, è solo un esempio di ipocrisia e di uso “orwelliano” delle parole. Un tale “riformismo” è infatti l'esatto contrario di ciò che è stato indicato con questo termine nel Novecento: è la politica di chi diminuisce le prestazioni pensionistiche, toglie diritti al lavoro, attacca il Welfare State, distrugge la scuola pubblica. Su questo tema ho scritto in “La sinistra rivelata”, e consiglio anche la lettura de “Il riformismo e il suo rovescio”, di Paolo Favilli, ed. Franco Angeli.

Al contrario, chi mette assieme la parola d'ordine dell'uscita dall'euro con un'impostazione generale di tipo riformista, nel senso classico del termine, fa una proposta sensata e mostra di conoscere il significato delle parole che usa. Resta però il problema di capire se proposte di questo tipo rappresentino una risposta ai nostri problemi attuali. E' questo il punto fondamentale che andrebbe approfondito: è possibile oggi pensare di ripetere le politiche riformiste, socialdemocratiche, keynesiane tipiche del “trentennio dorato” seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale? E il tentativo di rispondere a questa domanda ne porta ovviamente un'altra: cos'è successo esattamente negli anni Settanta, negli anni cioè in cui finisce il “trentennio dorato”?

Vorrei che fosse chiaro il problema, perché è il punto che mi sta a cuore scrivendo questo post: l'interpretazione che diamo alla crisi degli anni Settanta condiziona le proposte che possiamo fare oggi. Semplificando molto, le opzioni fondamentali sono due. Da una parte si può sostenere che la crisi del riformismo keynesiano è dovuta a fattori congiunturali (per fare solo un esempio: lo shock petrolifero del '73), sommati all'offensiva intellettuale liberista. Dall'altra si può pensare che tale crisi è dovuta al venir meno di alcuni dei presupposti strutturali del ciclo espansivo che ha caratterizzato il trentennio seguito alla Seconda Guerra Mondiale. Per fare solo un esempio, si potrebbe sostenere che quel ciclo espansivo era basato sul mercato dei beni durevoli di massa (automobili, elettrodomestici) e che la saturazione di tali mercati ha portato al suo esaurimento, magari in congiunzione con un ciclo di lotte operaie che ha ristretto i margini di profitto.
E' chiaro il problema: se la fine delle politiche riformiste, che data appunto dagli anni Settanta, è dovuta a una particolarissima congiuntura ormai lontana, allora si può pensare di riprendere quel tipo di politiche. La crisi attuale dimostra infatti a sufficienza l'insostenibilità, sia sul piano pratico sia su quello teorico, del neoliberismo che ha spodestato il riformismo keynesiano.
Ma se invece quello che è successo negli anni Settanta è l'esaurimento di un ciclo, il venir meno di condizioni particolari che hanno reso possibile il “trentennio dorato”, allora il “neoliberismo” dei trent'anni successivi appare come una risposta alla crisi di un modello, e la proposta di tornare alle politiche economiche del riformismo keynesiano sembra cozzare contro l'obiezione che per esse mancano le basi oggettive.
Per dirla in modo un po' astratto, la questione è se il trentennio di sviluppo riformista-keynesiano rappresenti, per il capitalismo, l'eccezione o la regola (una regola magari osteggiata dai ceti dominanti, ma alla quale si potrebbe ritornare adottando le giuste politiche). La risposta che si dà a questa domanda, come si diceva sopra, condiziona le proposte di uscita dalla crisi attuale, e indubbiamente riecheggia l'opposizione classica rivoluzione/riforme: chi ritiene che il “trentennio dorato” sia un modello al quale si può ritornare, si situa nella posizione che fu del riformismo classico, chi ritiene che quel periodo rappresenti un'eccezione, e la “normalità” del capitalismo sia quella che viviamo oggi, occupa la posizione del “rivoluzionario”.
Personalmente tendo verso questa seconda opinione, che ho cercato di argomentare in un testo scritto con Massimo Bontempelli.
E ritengo che la proposta della decrescita sia appunto una proposta rivoluzionaria, in grado però di salvare quanto di valido vi è stato nel riformismo classico del Novecento.

Sono tutte questioni da discutere e approfondire. Non è probabilmente un blog il luogo migliore per farlo, ma mi sembrava giusto almeno segnalare questi temi ai nostri lettori.

(M.B.)

10 commenti:

  1. Non posso che trovarmi daccordo con Ecodellarete. Un'approccio "rivoluzionario" che arrivi prima - in senso temporale - di un approccio "riformista", nella accezione delle parole che qui si da', e' ad altissimo rischio di paternalismo. Mi pare uno dei difetti storici dell'approccio rivoluzionario da Pisacane: facciamo la cosa giusta e il popolo ci seguira', che implica 1. di sapere quale e' la cosa giusta senza che il popolo sia interpellato, e 2. di farsi inseguire dai membri del popolo stesso forconi alla mano (ovvero aprire la porta a soluzioni reazionarie). E' chiaro che sul lungo termine sara' necessario ripensare in modo generale al nostro modello di sviluppo ecc. ecc. Ma prima di poter pensare a questo bisogna ripristinare sul breve e medio termine le possibilita' basiche di vita e di democrazia. A pancia vuota non si fa filosofia.

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  2. Io penso che qualunque sia il tipo di obbiettivo possibilmente raggiungibile ( sia esso un regime socialdemocratico keynesiano, sia esso il " socialismo", o sia esso un percorso di " decrescita" ) si debba comunque e in ogni caso passare per una fase di "socialdemocrazia keynesiana". Che si voglia ammettere che non sia più possibile un certo tipo di crescita, o che il capitalismo contenga contraddizioni insanabili, in ogni caso una comunità ( ad esempio il nostro paese: la repubblica italiana ) per avere la possibilità di indirizzare il proprio percorso deve riappropriarsi degli strumenti tecnici per farlo. Questi strumenti ( repressione finanziaria, controllo dei capitali, redistribuzione verso i salari) che non abbiano più l' appoggio che hanno avuto nella logica dei due blocchi lo sappiamo, ma il fatto che non vi sia più quell' appoggio geopolitico non ne scalfisce la natura tecnica e rimangono ad oggi per quanto riguarda il breve e medio periodo gli unici applicabili in quanto "sappiamo come funzionano mentre per quanto riguarda socialismo e/o decrescita rimangono "regimi" ancora da "programare/ progettare" ( ma bisogna appunto riappropriarsi di quegli strumenti di programmazione della società tipici della socialdemocrazia ).

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  3. Storicamente, non vi è dubbio alcuno che la stagione vissuta dopo il secondo conflitto mondiale costituisca un'eccezione, e che la fase attuale per molti aspetti riproduca condizioni a lungo vissute a partire da quando l'economia di mercato è riuscita ad affermarsi ed a dominare nelle società occidentali.
    Vedo che si continua ad invocare la socialdemocrazia, ma forse si dovrebbe chiarire se esista davvero una teoria socialdemocratica. A me pare di no, non credo che si possa concedere ad essa una sua posizione teorica autonoma e ben delimitata rispetto a una classica teoria liberale o marxista, si dovrebbe concludere che si tratti di una miscela più o meno ben riuscita delle due teorie, il cui travolgente successo (perchè in Europa lo ha in effetti avuto) sia collegato alla contingenza storico-economica, dipendente essenzialmente dal sovrapporsi di due distinte condizioni favorevoli, la distruzione causata dalla guerra che ha creato un'enorme domanda di merci, e lo sviluppo tecnologico che ha consentito di realizzare tipi di merci molto innovative e proprio nel campo della diffusione di massa, tipicamente gli elettrodomestici che hanno invaso le nostre case negli anni sessanta.
    Alle prime difficoltà, la socialdemocrazia si è squagliata, non nel senso che sono spariti i partiti socialdemocratici, ma che è sparita una loro specifica caratterizzazione, tanto che oggi il socialista Hollande puàò andare al congresso dei popolari europei per dare la sua solidarietà a Monti, che appunto non fa mistero di considerarsi membro di quella parte politica.
    Qui, non è che ci sia da condurre una discussione teorica, basta semplicemente prendere atto del suicidio più o meno esplicito della socialdemocrazia europea, di fronte a cui invocarla come soluzione della fase attuale, suona patetico, è la socialdemocrazia stessa ed i suoi dirigenti in tutta europa che si sono arresi, così che chi spera ancora in essa, dovrebbe quantomeno spiegare in dettaglio dove hanno sbagliato questi dirigenti e cosa invece andava fatto.
    Io, ma credo nessuno di noi, sa quale sarà lo sbocco di una crisi economica così profonda e che a mio parere è ben più grave di quella stessa del '29, anzi non credo neanche che si possa essere ottimisti, anche scenari bellici non possono essere esclusi. Possiamo però dire che esisterebbe una via d'uscita positiva, che non ha senso chiamare socialista, la chiamerò "uscita dall'economia di mercato", dove uso l'espressione "economia di mercato" non come sinonimo di capitalismo, ma come ne parla Polanyi, un'economia dove tutto è merce, dove quindi la logica di mercato si esercita sull'intero universo delle nostre vite.
    Uscita dall'euro, dichiarazione di default e protezionismo sono le condizioni preliminari per incamminarsi verso una società che rimetta l'uomo al centro della politica e che veda il lavoro non come mezzo per produrre, ma al contrario la produzione come mezzo per garantire lavoro a tutti tramite una economia pianificata.
    Paradossalmente, oggi il vero impegno internazionalista, invece di consistere nel condividere con tutto il mondo un certo percorso, data la natura della globalizzazione in atto, starebbe proprio nel sapersi isolare e con tale esempio mostrare al mondo intero la strada giusta da percorrere.

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    1. Però in Europa la socialdemocrazia si è riuscita a farla a pezzi solo a grazie al manganello della costruzione europea. Senza il " ce lo chiede l' europa" non so se la controrivoluzione liberista avrebbe avuto successo in europa come negli usa e in inghilterra. Detto questo, io non la invocavo la socialdemocrazia ( o regime di repressione finanziaria e di indirizzo dell' economia pubblica e privata a fini sociali) come " la soluzione" ma come un passaggio necessario qualunque sia l' obbiettivo di società futura ( sia esso il socialismo, la decrescita, o entrambi) . Questo passaggio possiamo chiamarlo "socialdemocrazia", o anche " pippo", ma sempre degli stessi provvedimenti parliamo ( uscita dall' euro, messa in discussione dei trattati del mercato unico con reintroduzione dei controlli sui movimenti di capitale, banca d' italia sotto il tesoro, vincoli di portafoglio, indicizzazione dei salari,ecc ecc ).

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    2. @piddivi
      Avrei due appunti da farle.
      Il primo riguarda il fatto che la socialdemocrazia è stata protagonista e non vittima dell'integrazione europea, e tra l'altro penso che storicamente questo vada considerato un merito e non un demerito. A partire dagli anni novanta, la stessa classe dirigente europea ha innestato la marcia delle liberalizzazioni e del rigore, non sono stati i partiti popolari (la destra) ad esserne protagonisti, ma proprio la sedicente sinistra. Nel bene come nel male, è proprio la socialdemocrazia la forza politica che si è assunta il ruolo preponderante di guida dell'integrazione europea. Ora, trovo alquanto stravagante dire che la socialdemocrazia è altro, la socialdemocrazia storicamente è l'indipendenza delle banche centrali ed in generale la fautrice dell'economia di mercato a fronte di una destra tendenzialmente protezionistica.
      La seconda obiezione riguarda le misure che lei elenca tra parentesi. Qui, mi trovo a dover essere assertivo, argomentare in proposito sarebbe troppo lungo, ma quelle misure, a causa del problema delle compatibilità, sono del tutto inattuabili oggi (ieri certamente non lo erano) se non rovesciando il tavolino, cioè uscendo totalmente dal quadro posto dalal globalizzazione.
      Lo dico senza alcun compiacimento, ma oggi la gradualità è inattuabile, è la cosa più velleitaria che si possa proporre, è molto più realistico attuare dei veri e propri strappi, certo tuttaltro che facile, ma tuttavia meno irrealistico che operare attraverso passaggi graduali.
      Credere che la gradualità in quanto tale sia più realistica non ha molto senso. Non è che se pretendo di svuotare una vasca con un cucchiaino sono più realista rispetto all'ipotesi di togliere il tappo dello scarico.

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    3. " la socialdemocrazia storicamente è l'indipendenza delle banche centrali " ammettiamo questa tua definizione di socialdemocrazia, può anche starmi bene: dobbiamo allora dedurre che l' italia dal dopoguerra fino all' inizio degli anni ottanta sia stato un regime socialista o di destra-protezionistico? Mi sembra un esagerazione no? Io dico che è più giusto definire socialdemocratico quel periodo. E che una volta finito le sinistre siano passate dall' essere socialdemocratiche ad essere liberoscambiste.
      Le proposte che ho fatto mi sembrano uno strappo rispetto all' attuale classe dirigente liberoscambista e eurista. Se secondo te le mie proposte sono un qualcosa di " graduale", vorrei sapere secondo te in cosa consiste un " vero strappo"

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  4. Negli anni duemila e fino allo scoppio della crisi dei debiti sovrano, nessuna parte politica si è levata per denunciare il crescente indebitamento dell'Italia verso l'estero, e proporre misure di riequilibrio dei flussi finanziari con l'estero.

    Sembra in effetti una storia già vista... proprio come negli anni Ottanta, anche questa volta i problemi dell'indebitamento non sono stati affrontati per tempo.

    Guai a formulare foschi presagi! Non bisogna scontentare i cittadini! Si fa macelleria sociale! Si perdono le elezioni! Meglio allora tirare a campare... fino all'arrivo dell'immancabile resa dei conti, nella quale i problemi non affrontati in precedenza si ritrovano drammaticamente ingigantiti (modello "slavina").

    Eppure grazie all'entrata nell'euro, lo Stato italiano ha potuto beneficiare appieno della riduzione dei tassi di mercato. Tra 1998 e 2010 la spesa per interessi sul debito pubblico si è ridotta ogni anno in media di 25 mld di euro rispetto a quanto veniva pagato in precedenza. Complessivamente si è trattato di oltre 320 miliardi di euro!

    Alcuni cercano di accostare la situazione dell'Italia a quella dell'Irlanda o della Spagna, per dimostrare che la crisi finanziaria è stata originata dalla dinamica del debito privato e non dal livello raggiunto dal debito pubblico, rimasto invece piuttosto stabile in quegli anni.

    Ma dovrebbero pure spiegare dove sono andati a finire i 320 miliardi che lo Stato ha risparmiato in termini di minori interessi. Dovrebbero dirci come sono stati "investiti" questi soldi, e perchè non sono stati utilizzati per ridurre drasticamente il debito pubblico.

    E quando si addita come causa la dinamica del debito privato, per onestà intellettuale si dovrebbe pure riconoscere che in Italia non c'è stata la bolla immobiliare osservata nei paesi sopra citati e che l'indebitamento privato, pur in crescita, si è mantenuto su livelli inferiori rispetto a quelli della zona euro.

    La realtà è che la posizione finanziaria netta del settore privato è sempre rimasta su livelli di avanzo superiori alla zona euro. Mentre il disavanzo del settore pubblico si mantenuto su livelli elevati, pur beneficiando del calo della spesa per interessi.

    Tornando alle miserie del presente ... il livello raggiunto dalla disperazione sociale fa oggi pendant con il disorientamento, la frammentazione, la corsa allo scaricabarile, la ricerca di nemici esterni e di complotti ai danni dell'Italia, la tentazione del ritorno all'autarchia finanziaria e commerciale ... insomma, niente di particolarmente nuovo nella nostra Storia.


    Un cordiale saluto.
    Emilio L.

    http://marionetteallariscossa.blogspot.it/

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    1. Mi scusi Emilio, ma credo invece che sia lei che dovrebbe spiegare perchè fino al 2011 i duemila miliardi di euro di debito pubblico italiano non siano stati considerati un problema, mentre da allora costituiscono la causa di tutti i mali possibili ed immaginabili. Tra l'altro se lei avesse fatto un paragone con un paese come il Giappone, avrebbe avuto un'altra conferma che un grosso debito pubblico non costituisce di per sè un vero problema.
      Vista da un punto di vista strettamente nazionale, non vi è dubbio che il caso dell'Italia si mostri differente da quello mettiamo della Spagna, ma così sfugge la caratteristica globale della crisi finanziaria. E' chiaro che banche di fatto fallite e che si mantengono in piedi grazie alle enormi iniezioni di liquidità da parte di FED e BCE, allo scopo di sopravvivere quanto più a lungo sia possibile, menino botte a destra e manca, tentando ad esempio di speculare su tassi di interesse più alti, e ciò naturalmente prendendosela con quei paesi che appaiono più fragili. L'Italia lo è almeno per tre distinte ragioni, una è quella da lei citata, il grosso rapporto debito/PIL, una seconda è la stagnazione a cui l'ha portato la politica di Tremonti che oggi fa pure lo smargiasso, non si capisce da quale pulpito, la terza è l'euro, cioè la mancanza di una vera banca centrale in grado di funzionare da prestatore di ultima istanza.
      In ogni caso, se per la ragioni più svariate, fossero anche le più obiettive, gli investitori smettono di fidarsi dell'Italia, non vi è alcuna possiblità neanche la più remota, non vi è politica economica, anche la più virtuosa, che questo debito possa essere onorato. Secondo me, non v'è dubbio alcuno che l'Italia debba dare default, naturalmente un default controllato e concordato, come in ogni procedura fallimentare che si rispetti.

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  5. Io non so se si possa parlare nella storia di regole e di eccezioni. Non ho una cultura umanistica ma personalmente ritengo che sia un succedersi di diverse stagioni senza particolari equilibri, magari con dei ritorni (o forse delle rime). Certo la vostra proposta di decrescita sarebbe un "socialismo 2.0", ed è rivoluzionaria. La sua realizzazione impervia, ma bisognerà vedere come si svilupperanno le cose durante e dopo la rottura dell'eurozona che temo richiederà soluzioni di emergenza.

    Il cambiamento succeduto al trentennio dorato è dovuto ad una saturazione naturale al capitalismo dopo un lungo periodo transitorio o un semplice cambiamento? In effetti una saturazione c'è certamente stata così come anche l'attacco delle classi dirigenti che forse si sono sentite minacciate dal crescente potere contrattuale delle classi subalterne. Entrambi questo aspetti sono riportati nell'articolo segnalato su sinistrainrete, che non ho ancora letto per intero. Per rispondere, anzitutto a me stesso, visto che mai avevo pensato la cosa in questi termini osservo che comunque una crescita, anche dopo il trentennio dorato, c'è stata solo che i suoi proventi sono stati distribuiti con sempre maggiore iniquità. Avrebbe potuto essere ottenuta tale crescita senza la compressione dei diritti ottenuti dal precedente periodo di emancipazione? Non so fare i conti ma, a giudicare da quanto ricchezza sia stata accumulata verso l'alto, sono portato a pensare di sì.

    Detto questo occorre pensare la cosa in termini attuali. E' possibile ora tornare ad una crescita con quel modello? Quali settori possono trainarla? A parte la tecnologia durevole (auto, frigorifero ecc) altri settori tecnologici ad esempio computer, telefoni e tutti quei beni di consumo della società moderna di cui necessitiamo sono meno durevoli quindi la richiesta dovrebbe sempre essere sufficiente. Certo c'è il problema importante dello smaltimento dei rifiuti elettronici che va affrontato. Molto adesso viene prodotto altrove ma cominciare a ripensare una reindustrializzazione, organizzata grazie anche ad una ricostituzione di qualcosa simile all'IRI, sarebbe bene e sarebbe anche questo un muoversi verso la filiera corta di prodotti tecnologici.

    Consideriamo che anche l'america sta effettuando un processo di reindustrializzazione, anche se sempre in un quadro deflazionista e quindi poco redistributivo. Ma questo farebbe pensare che loro possano trovarsi, ad un certo punto, ad avere bisogno di una vigorosa "domanda" per trainare il processo. Quindi potrebbero trovare utile un inversione della tendenza.

    Ci sarebbe molto da dire ma dovrei prima riordinare i pensieri, per adesso mi fermo qui.

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  6. Questa decrescita forzosa (deflattiva) è indubbiamente "rivoluzionaria", è il risultato finale della rivoluzione neoliberista: tanto decrescete voi, in massa, tanto cresciamo noi, in concentrazione di potere da ricchezza accumulata. Siamo il Paese che meglio ha emulato gli USA in questo processo durante l'ultimo trentennio. Nel trentennio precedente, quello "dorato" anche per le masse, i rapporti di forza erano semplicemente più "equilibrati", si fa per dire, e tutto era più "normale", a cominciare dallo Stato che faceva lo Stato, cioè anche un minimo di interesse comune.
    Oggi alla rivoluzione neoliberista, ormai giunta a naturale esaurimento dopo aver raggiunto eccessi ormai ineludibili, deve, credo per continuità storica, succedere una rivoluzione altrettanto radicale nei principi quanto quella socialista che ha poi ispirato le politiche socialdemocratiche del trentennio dorato, ma non certo altrettanto ingenua.

    La presa di coscienza della necessità decrescista non è certo un tributo ai successi del liberismo sfrenato, ma un riconoscimento delle ragioni oggettive che lo hanno favorito (riconoscibili ad es. nella deindustrializzazione), fino al punto però da renderlo politicamente e praticamente insostenibile (schemi di Ponzi finanziari).

    Quindi sarebbe più corretto aspettarsi, auspicandola, una "controrivoluzione di massa" il cui esito sia una vera riconversione produttiva unita però a ad una vera redistribuzione, qualunque sia la torta complessiva. Quest'ultima sì socialmente carica di tutta la valenza rivoluzionaria di una politica rinata a partire dal riconoscimento dei bisogni primari e della loro compatibilità ambientale.

    La sfida è molto impegnativa e difficile, su tutti i fronti. Dipenderà soprattutto dalla capacità di distinguere gli obiettivi autentici, umani, dai mezzi tecnologici ed economici, politiche keynesiane comprese (e riadattate). Potremmo ribatezzarla la "rivoluzione del limite"?

    Alberto Conti

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