Claudio Martini
Abbiamo visto come la nostra Corte Costituzionale nel 1964 negò l'efficacia diretta della normativa UE nell'ordinamento italiano, ponendosi in deciso contrasto con l'indirizzo giurisprudenziale della (allora) Corte di Giustizia delle Comunità Europee. Nove anni dopo la Consulta sarebbe parzialmente tornata sui suoi passi. Vediamo come.
I favolosi anni '70
La cosiddetta Sentenza Frontini tratta di un contenzioso tra una società di import-export di prodotti agricoli e il Ministero della Finanze. La società lamentava una violazione delle norme costituzionali in tema di prestazioni patrimoniali imposte (art 23 Cost), legittime in Italia solo se fondate su una legge. Siccome alcuni regolamenti dell'allora CEE rendevano possibile alle autorità italiane di operare "prelievi agricoli" a danno delle società importatrici, a tutti gli effetti delle "prestazioni patrimoniali imposte", la società commerciale in questione chiedeva l'annullamento della legge di ratifica del Trattato di Roma (1957) che permetteva questa violazione della riserva di legge costituzionale.
Già che ci siamo è opportuno chiarire un aspetto: il diritto comunitario, ieri come oggi, non è un blocco monolitico. Esso si divide innanzitutto tra diritto di fonte primaria e diritto di fonte derivata. La fonte primaria è l'insieme dei Trattati che sostanziano l'integrazione europea; le fonti derivate sono i provvedimenti che le istituzioni europee possono prendere in base ai Trattati. Tra queste le due tipologie più rilevanti sono i regolamenti e le direttive. Per sapere di che si tratta basta consultare l'art 288 del TFUE: "Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri." Si tratta di un atto equiparabile ad una legge. Esso crea diritti e obblighi in capo ai cittadini e agli Stati. Invece "La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere,
salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi". Primo destinatario delle direttive sono gli Stati, e il rapporto che si instaura tra le direttive le norme nazionali di attuazione si può grossomodo paragonare a quello intercorrente tra una legge delega e un decreto legislativo. Le direttive possono creare dei diritti in capo ai cittadini UE, ma mai degli obblighi: in altre parole il cittadino europeo potrà pretendere in giudizio il rispetto delle direttive solo nei confronti dello Stato, mai degli altri cittadini.
Tornando al caso Frontini, la Corte Costituzionale giudicò infondata la questione di costituzionalità della legge di ratifica del Trattato di Roma. E lo fece con un'argomentazione che vale la pena di riprodurre:
"Con riferimento al Trattato istitutivo della C.E.C.A., questa Corte ha già avuto occasione di dichiarare l'autonomia dell'ordinamento comunitario rispetto a quello interno (sentenza n. 98 del 1965). I regolamenti emanati dagli organi della C.E.E. à sensi dell'art. 189 del Trattato di Roma (oggi 288 TFUE) appartengono all'ordinamento proprio della Comunità: il diritto di questa e il diritto interno dei singoli Stati membri possono configurarsi come sistemi giuridici autonomi e distinti, ancorché coordinati secondo la ripartizione di competenze stabilita e garantita dal Trattato. Esigenze fondamentali di eguaglianza e di certezza giuridica postulano che le norme comunitarie, - non qualificabili come fonte di diritto internazionale, né di diritto straniero, né di diritto interno dei singoli Stati -, debbano avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di recezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione uguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari."
In questo modo la Corte
a) riconosce la portata generale e astratta dei regolamenti, il loro prescindere, sotto il profilo dell'efficacia, da atti di diritto interno degli Stati e soprattutto
b) stabilisce che i rapporti tra fonti nazionali e comunitarie devono essere intesi in termini di competenza. Non è che il regolamento prevalga sulla legge interna per una sua forza intrinseca: semplicemente la tematica dei "prelievi agricoli" è stata devoluta dall'Italia alla CEE, e perciò un regolamento che tratta di quella tematica non fuoriesce dalla competenza CEE, e non invade la riserva di legge istituita dalla Costituzione.
Sorge spontanea una domanda: e se fosse le legge italiana a invadere la sfera di competenza europea? A questa domanda rispose la Sentenza 232 del 1975.
Si trattava di una causa piuttosto simile alla Frontini, dove al posto di una società di commercio agroalimentare si trovava, in qualità di attore , un'azienda chimica. Con questa sentenza la Corte dichiarava la illegittimità costituzionale di alcune leggi contrastanti con la normativa europea proprio perche irrispettose della competenza di quest'ultima. Il fondamento giuridico di questo discorso era costituito dall'art 11 Cost: l'Italia aveva acconsentito di limitare la propria sovranità cedendo determinate competenze alla CEE, e perciò una legge ordinaria che "riappropriasse" all'Italia quelle competenza, disponendo in maniera difforme ai Trattati e ai regolamenti, avrebbe provocato una violazione "mediata" dell'art 11 Cost.
La Corte quindi subordinava il "cedimento" della legge nazionale di fronte a quella comunitaria alla pronuncia di incostituzionalità della prima. Il giudice costituzionale restava perciò arbitro della vigenza del diritto comunitario in Italia, e la "diretta efficacia e applicabilità" dei regolamenti rimaneva di fatto condizionata dalle more di un rinvio del singolo giudice a quello costituzionale (con tutte le sue forme, e con i suoi tempi).
Non stupisce che questo indirizzo sia stato censurato dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea la quale, nella celebre (per gli addetti ai lavori) Sentenza Simmenthal, non usò mezzi termini nel chiarire che i regolamenti, così come tutte le fonti comunitarie, si imponevano negli ordinamenti nazionali per la loro intrinseca forza giuridica, una forza prevalente rispetto a quella delle fonti interne. In pratica il giudice nazionale che si fosse trovato a dirimere un conflitto tra una legge e un regolamento comuntario avrebbe dovuto senz'altro disapplicare la prima a vantaggio del secondo, senza aspettare la pronuncia della Corte Costituzionale, operando così un "sindacato diffuso" di compatibilità della normativa italiana con quella comunitaria.
Questo potere di disapplicazione è in effetti previsto dalla legge italiana, ma con una portata del tutto diversa: il giudice italiano può disapplicare i regolamenti amministrativi carpiti in contrasto con la legge ordinaria, non certo la stessa legge ordinaria. L'orientamento della Corte di Giustizia configurava un assetto della potestà giurisdizionale del giudice e del sistema delle fonti del tutto estranea al nostro ordinamento.
Finché...
Finché non arrivò l'otto giugno del 1984, e con esso la Sentenza Granital.
In questa causa la Corte ammise, semplicemente, di essersi sbagliata. Testuale. dopo aver richiamato la pronuncia del 1975, il giudice relatore scrive: "La Corte é ora dell'avviso che tale ultima conclusione, e gli argomenti che la sorreggono, debbano essere riveduti". E dopo aver spiegato quanto preziosi sono gli insegnamenti della giurispudenza della Corte di Giustizia, prosegue enunciando il coordinamento esistente tra i due ordinamento giuridici, italiano ed europeo, pur nella loro separatezza e autonomia. Questa separatezza e autonomia si riflette nel fatto che le norme europee non entrano a far parte dell'ordinamento italiano: i due ordinamenti coabitano nello stesso territorio, ma non si confondono tra loro. Dall'altra parte però l'ordinamento nazionale, dopo la ratifica dei Trattati, si impegna a garantire l'osservanza della produzione normativa del distinto ordinamento europeo, senza interferirvi. E in ragione di ciò "le confliggenti statuizioni di una legge interna non possono costituire ostacolo al riconoscimento della forza e valore, che il Trattato conferisce al regolamento dell'Unione, nel configurarlo come atto produttivo di regole immediatamente applicabili". Il giudice dovrà dunque applicare quest'ultimo, e disapplicare la legge nazionale contrastante, che rimarrà comunque valida ed efficace, tranne che nella specifica controversia che ha dato luogo al contrasto.
In conclusione, ordinamento europeo e italiano sono distinti e autonomi, ma uno è al servizio dell'altro. Se non avete compreso i punti salienti dell'ermeneutica della Corte, consolatevi: non li ho capiti neanch'io.
Conclusione
La Corte Costituzionale:
- è partita dal considerare la normativa comunitaria e quella italiana come fonti giuidiche di pari dignità;
- è passata attraverso la previsione di un giudizio di costituzionalità, per contrasto con l'art. 11 Cost, per sancire l'invalidità delle norme italiane direttamente confliggenti con quelle europee;
- ed è infine approdata, sulla spinta della CGUE, ad una concezione "ancillare" del rapporto tra i due diritti. Oggi il principio del primato del diritto europeo regna incontrastato, e per molte controversie le prime fonti da consultare sono i regolamenti UE, non le leggi nazionali. Dal punto di vista pratico, oggi sarebbe molto improbabile che un provvedimento tipo la nazionalizzazione dell'energia elettrica sopravvivesse più di qualche mese. Sarebbe bene che lo sapessero coloro i quali si propongono di modificare le norme nazionali, magari via Referendum. Così, per evitare spiacevoli sorprese qualche tempo dopo...
A meno che... prima non si denuncino i trattati e si esca dall'Unione Europea a furor di popolo.
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