Claudio Martini
Coloro che parlano di stato federale europeo in genere svalutano l'argomento del Demos. Quando si oppone loro il semplice fatto che non esiste qualcosa di paragonabile ad un popolo europeo, essi spesso ribattono indicando esempi di felice convivenza e cooperazione tra popoli diversi chiusi negli stessi confini. Tra questi c'è la Svizzera, ma si potrebbero citare tanti altri paesi, incluso quello che sembra il vero modello degli europeisti, ossia gli Stati Uniti d'America. In effetti l'omogeneità etnica-culturale sembra essere l'eccezione, e non la regola, dello scenario delle formazioni statuali odierne. Sono davvero pochi gli stati, come le Coree o il Giappone, dove lo stesso gruppo etnico rappresenta più del 95% del totale della popolazione. Stati che appaiono monolitici ai nostri occhi superificiali, come la Cina, la Russia o l'Iran, sono in realtà complessi ordinamenti federali caratterizzati da un'ampia varietà etnica e linguistica. Per non parlare di veri universi multiculturali come l'India o la maggior parte degli stati africani.
Eppure questo argomento ha qualcosa che non va. Quando noi constatiamo l'assenza di un popolo europeo non pretendiamo certo che sia condizione per avere una federazione europea che tutti gli abitanti del continente europeo appartengano allo stesso popolo. Sulla scorta degli esempi sopra fatti, basterebbe individuare un'etnia dominante.
Prendiamo la Svizzera.
Tralasciando il dettaglio che la genesi storica della Confederazione risale alla lotta separatista dei cantoni sovrani contro il dominio asburgico, fatto che forse dovrebbe sconsigliare agli europeisti dall'eleggerla a paradigma, notiamo come nella multiculturale Svizzera due terzi dei cittadini parlino tedesco. Certo,dopo secoli di comune convivenza e un sistema educativo all'avanguardia il multilinguismo è assai diffuso. Ciò nonostante i lingua-madre francesi non superano un quinto della popolazione, e gli italiani un decimo.
Negli U.S.A. gli W.A.S.P. sono tutt'oggi la maggioranza assoluta dei cittadini della federazione, la cultura e la lingua (le lingue) induiste dominano l'India, russi etnici e cinesi Han sono rispettivamente i tre quarti e i quattro quinti della popolazione dei loro paesi. E così via. In ogni grande unione multiculturale e multilinguistica è sempre riconoscibile un'etnia dominante che regge i fili di quell'unione. Esiste qualcosa del genere in territorio europeo?
Ovviamente gli unici candidati a svolgere il ruolo di dominanti sono i tedeschi. Ma i tedeschi, anche in un'accezione piuttosto estesa del termine, non raggiungono il 20% della popolazione UE (sono poco più di 90 milioni su 500). Se si escludono soluzioni hitleriane, possiamo concludere che ancora per molto tempo (decenni, se non secoli) il continente europeo, fedele alla sua tradizione, rimarrà privo di un'etnia dominante, e qualsiasi progetto di federazione europea difetterà di quella che l'esperienza ci indica come una condizione imprescindibile per raggiungere l'agognata (ma da chi?) unione sovranazionale.
Ma si potrebbe obiettare che l'esperienza ci permette di qualificare un fenomeno come improbabile, non già come impossibile. Dopotutto c'è sempre una prima volta; e gli europeisti hanno buon gioco ad affermare che gli Stati Uniti d'Europa potrebbero costituire il primo esempio di unione tra popoli diversi posti in condizione di (relativa) parità.Tuttavia uno sguardo all'atlante, nonché un minimo di memoria storica, ci dice che questo genere di unioni è già stato sperimentato. E' il caso, per esempio:
della Bosnia-Herzegovina, un'entità che si suddivide in una federazione croato-musulmana e in una repubblica Srpska totalmente serba.
del Libano, dove ci si divide lungo linee confessionali, e dove la fazione più numerosa (gli sciiti) non raggiunge il 40% della popolazione.
dell'Afghanistan, dove ancora una volta l'etnia più consistente, quella Pashtun, è ben lontana dal rappresentare la maggioranza assoluta.
Infine della Nigeria, dove la grandissima varietà di etnie, tribù, lingue e dialetti compone un mosaico eterogeneo attraversato da una linea di faglia religiosa: metà dei nigeriani è musulmano, metà cristiano.
Non si tratta di esempi di successo. Per completezza si può aggiungere che si tratta dei teatri di alcune delle più spaventose guerre civili delle ultime generazioni.
Badate, qui non stiamo giocando a etno-risiko. La presenza di un popolo e di una lingua comune sono un elemento decisivo non solo dal punto di vista della democraticità di un sistema (pensiamo all'esigenza di disporre di un'opinione pubblica comune e di media condivisi); costituiscono la condizione per la sostenibilità politica di un meccanismo di trasferimenti fiscali e finanziari indispensabile per tenere insieme grandi formazioni statuali. Senza un comune sentire popolare non c'è solidarietà, e senza solidarietà i meccanismi di trasferimento diventano forieri di nuove e più profonde lacerazioni. Ecco una delle analisi più lucide che mi sia capitato di leggere sulle conseguenze dell'operare di quei meccanismi in un contesto privo di solidarietà. Se poi volessimo dare un'occhiata fuori d'Europa, potremmo leggere un bell'articolo proprio sulla situazione nigeriana.
E' facile sorridere dell'argomento del Demos, o cavarsela con una battuta; ma fondare un progetto politico trascurando un simile elemento significa costruire sulle sabbie mobili. Non esattamente un atteggiamento responsabile.
Se poi i nostri interlocutori volessero ignorare del tutto l'importanza di una lingua e di un'appartenenza comune, svalutando completamente il peso dell'elemento entico-culturale, allora bisognerebbe chiedere loro perché non costruire un'unione politica tra i paesi del mediterraneo. Perché non ci federiamo con l'Albania, il Marocco, la Turchia, l'Egitto? Se davvero l'elemento culturale e linguistico non vale niente, non ci dovrebbero essere difficoltà nella realizzazione di un simile progetto. E dato che con internet e con la globalizzazione gli spazi si annullano, presto potremmo allargare la federazione al Turkmenistan, al Madagascar, allo Sri Lanka.
Paradossale? Non tanto, a meno che non si ammetta la natura veramente paradossale di una proposta politica che trascuri il Demos. Forse gli europeisti farebbero bene ad ammettere che anche alla base della loro proposta c'è un elemento identitario, ossia la comune appartenenza all'Europa cristiana (e bianca). O comunque "occidentale", visto che nessuno si è mai sognato di fare entrare la Giordania, ma tanti hanno proposto l'ingresso di Israele. Ciò è molto coerente con l'affermazione sovente ripetuta che gli europei dovrebbero unirsi "per far fronte", "per tenere testa" alle potenze emergenti. Non proprio valori progressisti, direi; anzi uno squallido (e un tantino reazionario) nazionalismo europeo, creato ad arte dalle classi dirigenti per imporre il proprio volere alle masse.
In conclusione:
a) non esiste un esempio di processo federativo di successo che non sia caratterizzato dalla presenza di un'etnia dominante;
b) esistono vari esempi di stati falliti le cui disgrazie sono dovute all'assenza di un'etnia dominante;
c) gli europeisti, se vogliono avanzare delle propose politicamente responsabili non possono limitarsi a ignorare questi argomenti;
d) spesso la svalutazione di questi argomenti da parte degli europeisti rivela un retropensiero identitario che non hanno il coraggio di confessare.
Il titolo originale definiva il progetto anche come "improbabile". Ciò voleva riflettere lo scetticismo verso un progetto federativo che non individua un popolo che dovrebbe animarlo, o almeno un'etnia dominante. Fabrizio mi ha fatto notare che definendolo così pareva quasi che a noi il progetto piacesse, e che suggerissimo di rinunciarvi, a malincuore, perché difficilissimo da realizzare. Lungi da me una simile idea! Ho pensato che il primo aggettivo, "pericoloso", fosse più che sufficiente per riassumere il concetto. Un'unione che trascura il demos è un'unione gravida di guerre civili.
RispondiEliminaL'esempio degli Usa è poco calzante per l'Europa, in quel caso il fattore decisivo, più che un'etnia dominante, mi pare che sia l'azzeramento della cultura precedente (stiamo parlando di un popolo di emigrati, non mi pare che nel nuovo corso i nativi americani si siano proprio trovati a loro agio, per usare un eufemismo) a favore di una cultura nuova di zecca che mescolava elementi delle precedenti (con quella wasp dominante). Insomma, l'invenzione di una nuova mitologia nazionale che potesse unire tutti gli emigrati sotto un sentire comune. Lo stesso vale per l'Argentina. Un mio amico argentino mi ha detto che fu Peron a inventare una comune coscienza nazionale, prima di lui ogni gruppo etnico faceva vita separata e occupava un preciso posto nella società, e nonostante gli italiani fosserò i più numerosi occupavano una posizione non dominante nella gerarchia.
RispondiEliminaSaluti.
Ci sono casi nella storia in cui popolazioni autoctone hanno smesso di parlare la loro lingua materna e di praticare i loro costumi ancestrali per comunicare in una lingua straniera. Ma ciò è avvenuto, dal latino allo spagnolo,con le Conquiste militari. Ora, speriamo che gli eurocrati non ci mandino a scuola di esperanto dopo che le panzer-division ci avranno occupati.
RispondiEliminaNon ti preoccupare, ci impartiranno direttamente il tedesco (anzi, il dialetto della Carinzia)
Eliminal'Inghilterra la dimentichiamo? Ma sì dai i tedeschi svolgono bene il ruolo di parafulmini di ieri oggi e domani. Anzi, proponiamo una deportazione direttamente così dimostriamo di essere "migliori".
RispondiEliminaNon ho ben capito perché sfugga il diktat del WASP CHURCHILL amatissimo fondatore della UE che in una sua opera degli anni '50, la "Storia dei Popoli di Lingua Inglese" sosteneva che la comunità internazionale di lingua inglese aveva "onere" di reggere le sorti del mondo. (vedi qui http://www.comidad.org/dblog/articolo.asp?articolo=504)
A proposito di chi si scandalizza per la supremazia razziale di qualsiasi popolo rispetto ad un altro. Evidentemente, alcuni possono farlo ed essere anche venerati per questo.
In un articolo recente comparso sulla Tageszeitung, il giornalista faceva notare come degli oltre 128 miliardi di Euro trasferiti a partire dal 1990 dalla Germania ai territori dell’ex DDR, un terzo siano finiti alla capitale Berlino, città che però, al di là un certo fascino ritrovato, non è mai decollata in termini di sviluppo economico. Molti giornali tedeschi definiscono questi trasferimenti diretti (e a quanto pare improduttivi almeno termini di ritorno economico come dimostrerebbe l’impasse del nuovo aeroporto) alla capitale uno scandalo intollerabile che deve cessare immediatamente e fanno l’elenco dei Länder che hanno sborsato di più (Hessen e Baviera 38 miliardi, Baden-Württemberg 36 miliardi etc.). Questa polemica dimostra che la critica esposta più volte su questo sito ha centrato il punto. E cioè quanto uno Stato federale europeo che utilizzi meccanismi di solidarietà economica per cui le zone ricche e più avvantaggiate sostengono lo sviluppo economico di quelle meno fortunate con trasferimenti diretti, sia improponibile. Potete immaginare come reagirebbero in Germania se al posto di Berlino nell’articolo citato ci fosse scritto Madrid, o Roma. Nascerebbe solo odio nei confronti dell’Europa meridionale.
RispondiEliminaTuttavia, il fatto di aver segnato un punto importante non da automaticamente ragione su tutto. Per esempio non sono d’accordo con Claudio Martini quando dice che sostenere l’europeismo ignorando certi paradossi della costruzione europea (mancanza di un’etnia e/o cultura dominante, assenza di una lingua comune, fallimento di alcuni Stati che hanno provato a unirsi nonostante queste mancanze), significhi avere un retropensiero identitario alla Breverik.
Non bisognerebbe dimenticare che l’impulso originario e l’idea che ispirò il processo d’integrazione europea fu il detto: nie wieder Krieg, mai più guerra nel cuore dell’Europa. Non un mercato comune, non una moneta comune e nemmeno una difesa della razza bianca e cristiana quindi, ma una precisa volontà politica d’impedire il ripetersi di certe catastrofi. La frontiera franco-tedesca è stata per secoli la camera di combustione di conflitti che per due volte hanno incendiato il mondo. Non capisco come si possa tranquillamente dimenticare che il progetto europeo nasce innanzitutto dalla volontà di aprire quella e molte altre frontiere, costruendoci attorno una struttura politica in grado di garantire tali aperture nel tempo. Un progetto per molti versi mai tentato prima, sono d’accordo, ma che andrebbe valutato e criticato considerando tutti gli aspetti. La crisi valutaria ci ha fatto capire che è un progetto senza senso? Che è diventato inutile? Forse. Ricordo solo che questa Europa nasce sulle macerie dei vari nazionalismi portati avanti dagli Stati nazione europei, alcuni dei quali si trasformarono in regimi nazisti e fascisti sotto la spinta della crisi economica del 29, come spiegò Karl Polanyi.
In passato lo Stato nazione è spesso stato autoritario, antidemocratico, violento e ha finito per avvantaggiare una classe, con l’aiuto di militari e gendarmi, a discapito del resto dei cittadini. Non che oggi le cose vadano molto meglio, però sarei più cauto a gettare via una prospettiva internazionale.
Saluti
Edoardo Laudisi
intanto per scrostare qualche luogo comune:
EliminaLuciana Castellina - http://www.youtube.com/watch?v=UBxl7SAt2zM
Certo, sono opinioni stranote. Ma la Realpolitik del blocco atlantico avrebbe prodotto un castello di carte se, il concetto di un Europa unita in una qualche forma, non fosse stato pensato e sentito da molti molto tempo prima.
EliminaPer Edoardo
RispondiEliminasono contento della sintonia che c'è tra noi. Il suo commento mi dà anche l'opportunità di chiarire meglio il mio pensiero. Vede, il primo libro di Fabrizio e Marino si intitola "Liberiamoci dall'Euro- per un'altra Europa". Noi di solito non parliamo volentieri delle prospettive europeiste che vediamo con favore, perché correremmo il rischio di confonderci con gli infiniti cantori del "piùeuropa" (rigorosamente tutto attaccato). Ma la prego di credere che noi desidereremmo davvero un'avvenire di pace, collaborazione e solidarietà tra i popoli europei; constatiamo come il presente sia caratterizzato dalla competizione e dalla diffidenza reciproca, e crediamo che quella competizione e quella diffidenza, prodromi di un futuro conflitto, siano i presupposti e il risultato dell'organizzazione politica chiamata "Unione Europea". Si potrebbe pensare alla classica eterogenesi dei fini. Oppure convenire, con noi, che sulle basi su cui è stato costruito il progetto europeista non si può costruire nulla di favorevole alle classi subalterne europee. La ratio dell'integrazione europea era negli anni 50 l'anticomunismo, a partire dai 70 la compressione dei salari, e oggi sembra essere un'annessione non dichiarata. Ci troviamo di fronte ad un progetto complesso ma coerente, un progetto che va combattuto pena la perdita dell'intero nostro patrimonio democratico (anzi, del patrimonio tout court).
Una cosa sul nazionalismo e europeo e sulla prospettiva internazionale. In primo luogo, che questo nazionalismo esista e voglia imporsi è dimostrato dalle continue dichiarazioni riguardo la necessità di unire gli europei per contrastare i popoli dell'ex terzo mondo, senza contare i continui richiami alla necessità di "contare" sulla scena globale, espressioni che richiamano l'idea, funesta e reazionaria, di un'"Europa potenza".
Infine, assicuro Edoardo che la visione internazionalista non ci manca. Ma ci sfugge perché tante persone, che spesso parlano della fine dell'idea stessa di stato nazione, non riescano a immaginare la solidarietà e l'unione tra i popoli se non in termini rigidamente statuali; per cui l'unica maniera per avere la pace con i tedeschi, per esempio, è federarci con loro. Questo fa sorridere: ma la funzione degli stati non si era ormai esaurita? E soprattutto: ma per immaginare uno scenario di collaborazione e amicizia dai popoli bisogna passare necessariamente per i super-stati? Non basta evitare di farsi la guerra, come quella che ci fa la Germania da anni? Esistono infiniti strumenti di collaborazione tra popoli, diversi dall'annessione. Separiamo i fatti dalle opinioni, e sopratutto l'idea di pace e fratellanza da quella degli Stati Uniti d'Europa.
Alle considerazioni di Claudio, che condivido, aggiungo un'osservazione che riprendo dal libro: ma perché mai l'Unione Europea dovrebbe essere foriera di pace? Chi ci assicura che un superstato europeo non farà la guerra alla Cina o alla Russia? E se si pensa che un superstato europeo possa convivere in pace con Cina e Russia, perché mai invece la Francia non può convivere in pace con la Germania? L'argomento che l'Unione Europa porta la pace sembra reggersi sulla premessa implicita che il fatto di fare la pace o la guerra dipenda dalle dimensioni di uno Stato. Assunzione ovviamente priva di fondamento.
EliminaCiao Claudio,
Eliminagrazie per la tua risposta che mi da modo di conoscere meglio il tuo pensiero. Dopo anni di sonnolenza e appiattimento intellettuale su questi temi, la critica che fate qui è una ventata di aria fresca. Solo un accenno al motivo del mio dubbio di fronte a una scelta radicale, com’è quella che proponete qui. In un certo senso percepisco l’unione europea come una specie di piede infilato in una porta dietro alla quale potrebbe anche esserci una svolta storica positiva, e tirarlo indietro prima di averla aperta del tutto quella porta, mi sembra un azzardo. Non penso a un superstato ma a un passaggio che apra finalmente il conflitto sociale come accadde al sorgere degli alcuni Stati nazionali. Mi spiego meglio; uno dei motori principali, spesso sottovalutato, dell’unificazione tedesca ad esempio, oltre alla lingua, la cultura, l’immaginario e soprattutto l’esercito prussiano, furono le rivendicazioni sociali delle classi subalterne che, prima soffocate e disperse da principati, principi e vari staterelli sovrani, trovarono una forza collettiva nazionale e sfociarono in movimenti che “impastarono” il popolo meglio di tanti appelli patriottici. Paradossalmente, fu proprio una costruzione reazionaria come la nascente nazione tedesca che diede forza al conflitto sociale e consentì alcune conquiste che forse, nello scenario frazionato di prima, non sarebbero mai state raggiunte. Certo, poi il Kaiser usò quell’energia per costruire un impero ma questa è un'altra storia. A me interessava questo punto, e cioè: siamo sicuri che dentro questa unione europea, che come giustamente fate notare qui è il frutto di un progetto di Realpolitik reazionaria (sebbene al suo interno contenga anime e spinte che reazionarie non lo sono mai state), non possa essere rilanciato un confronto sociale e politico vasto e reale? Voi dite, a ragione, che non essendoci un popolo europeo, una cosa del genere non è possibile. Certo, se si ragiona in termini di nazionalità, lingua o etnia no, ma se invece si riattualizzasse (in senso contemporaneo) il concetto di sfruttamento di classe (che poi è diventato lo sfruttamento del 90% della popolazione indipendentemente dalla sua nazionalità, lingua, etnia o appartenenza sociale), visto che oggi sono proprio i governi a porla in questi termini, la cosa cambierebbe. Insomma, incominciare a fare quel discorso che la sinistra europea, per una serie di motivi anche storicamente comprensibili, non ha mai neanche incominciato, salvo riempirsi la bocca oggi con lo slogan vuoto del più Europa.
Sulla questione della pace posta da Marino Badiale beh diciamo che fino ad oggi ha funzionato, mi sembra. Almeno tra i paesi aderenti. Per quel che conta i risultati ci sono stati, se si tiene conto che era dai tempi della Pax romana che questa parte del mondo non viveva così a lungo senza guerre…
Cordiali saluti
Quando si vuole distruggere un'idea ci si accapiglia e le argomentazioni si trovano sempre. Nulla di positivo in tutto ciò, se non ci sono dei valori e degli ideali che fanno vedere l'obiettivo che si vuole raggiungere sotto un'altra luce. Gli europei hano innanzitutto dei valori da condividere e portare avanti: "la pace, la solidarietà, le radici cristiane, la loro cultura, ecc.. In questi momenti di difficoltà economiche, la solidarietà è messa in discussione, ma ci si dimentica che i problemi che viviamo sono stati esportati da quel grande Paese (USA), per l'avidità delinguenziale di pochi. L'Europa sta combattendo anche contro questo "mostro" e dovrà continuare a farlo se vorrà sopravvivere, non solo come Europa, ma come singole nazioni. Lino Matt.
RispondiEliminaE quindi alla base del progetto europeista c'è l'elemento identitario (le radici cristiane...), esattamente come per il progetto di Marine Le Pen. Ma non ho capito cosa sarebbe il "mostro". Gli USA?
EliminaGent.le Claudio, il "mostro" è la "speculazione finanziaria creativa" che ha arricchito pochi esseri immondi, mettendo in circolo titoli spazzatura 10 volte il PIL mondiale. Chissà quanti altri casi simili a MPS (Monte dei Paschi), anche fuori dall'Italia e dall'Europa, sentiremo negli anni a venire e prima che questo "mostro", che sta condizionando il futuro di interi popoli, sia riassorbito con i sacrificio soprattutto di tutti noi popoli europei (e della Terra)! Le radici cristiane, fanno parte della nostra storia e nulla hanno a che vedere con "Le Pen" che le cavalca a fini elettorali. Il grande Papa, Carol Woitiła, ha insisto molto perchè nel trattato di Lisbona si facesse riferimento alla "radici cristiane" dell'Europa, ma nessuno lo ha ascoltato! Saluti, Lino M.
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