sabato 28 febbraio 2015

Chi ha bisogno della giustizia? E chi ha bisogno di indebolirla?

Vaclav Havel ripeteva che "la legalità è il potere dei senza potere". Il forte non ha bisogno del diritto e della giustizia per prevalere sul debole; gli basta esercitare un po' di violenza. Il debole, invece, in assenza di diritto è alla mercé del forte.
Diritto, in termini concreti, non significa altro che la possibilità di ricorrere ad una istanza giurisdizionale indipendente, la quale abbia il potere di tutelare le ragioni del debole anche a scapito dell'arroganza dei forti; e che ponga alla base delle proprie decisioni non l'arbitrio o valutazioni di convenienza, ma un'argomentazione razionale.
Questa possibilità di ricorrere ad un giudice è un diritto costituzionale:

Art. 24
Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.
La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.

La giurisdizione, cioè l'attività di protezione del debole attraverso il diritto, è esercitata nel nostro ordinamento da un ordine indipendente e imparziale. Naturalmente i membri di tale organo non potranno risolvere le controversie secondo il loro orientamento preferito, senza controllo; dovranno partire sempre dal dato legislativo:

Art. 101

La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge.


Art. 104

 La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.

Spiegata per sommi capi cos'è la giustizia, e a chi serve, è facile arrivare alla risposta della seconda domanda: chi ha bisogno di indebolirla? I forti e i potenti.
C'è una strada di sicuro successo per indebolire la giustizia: mettere in scacco i giudici.
Ed è quello che fa, o tenta di fare, la cosidetta riforma della responsabilità civile da errore giudiziario.
Per comprendere il motivo, basta leggere con attenzione questo prezioso intervento.
Senza dimenticare un ultimo dato, che è anche un invito alla riflessione su chi sarà la vera vittima di questa riforma: i giudici sono già tutti assicurati... (C.M.)

martedì 24 febbraio 2015

Non tutti i diritti sono uguali


Proseguendo le riflessioni sul tema “perché la gente non si ribella?” (ne abbiamo parlato, per esempio, qui, qui e qui) oggi vi invito alla lettura di questo articolo di Nicola Lagioia




Mi sembra che Lagioia faccia alcune osservazioni molto interessanti. Lo snodo cruciale del suo discorso  è il collegamento fra tre elementi dello "spirito del tempo": in primo luogo rabbia e aggressività nelle discussioni in internet (e non solo), in secondo luogo distruzione dei diritti sociali e di conseguenza sofferenza e insicurezza, e infine esaltazione della figura della “vittima” come unico status che permetta di vedersi riconosciuti alcuni diritti.
Si può certo discutere delle singole connessioni causali proposte da Lagioia (quale aspetto è causa e quale è effetto? Sono tutti effetti di qualche causa più profonda non individuata?), ma mi sembra che il nesso fra gli elementi sopra indicati sia in effetti uno degli aspetti centrali del panorama ideologico del nostro tempo, ed è molto bravo Lagioia a coglierlo e ad esporlo con chiarezza.
(M.B.)

lunedì 23 febbraio 2015

Tsipras non riuscirà a cambiare il "sistema dell'euro". Ecco perché

È chiaro a tutti che quanto sta accadendo in questi giorni fra il governo greco e le oligarchie euriste
potrebbe rappresentare una novità politica capace di produrre cambiamenti cruciali per il futuro dei popoli europei.
Noi restiamo convinti che la natura dell'UE non sia riformabile nel senso indicato nel programma di Tsipras, e che, di conseguenza, siano solo due gli scenari che potranno concretizzarsi: il cedimento di Syriza oppure la fuoriuscita della Grecia dall'euro. Questa seconda ipotesi aprirebbe la strada alla dissoluzione della moneta unica e probabilmente della stessa UE.

Claudio Martini, qualche giorno fa, ha argomentato un'opinione diversa.
Claudio ha criticato le posizioni simili alle nostre in quanto originate dall'idea che le regole su cui si fonda il “sistema dell'euro” siano immodificabili, e che quindi non esista altra via di salvezza che l'abbandono della moneta unica. Un “There is no alternative” in fondo simile a quello di chi sostiene che tali regole vadano rispettate così come sono oggi.
Tuttavia, per quanto ci riguarda, abbiamo spesso sostenuto che esiste certamente la possibilità di modifiche al “sistema dell'euro” o al funzionamento delle istituzioni europee. Ma riteniamo che tali modifiche, se realizzate, renderanno il quadro europeo ancora più cupo di quanto non sia già.
In concreto, non è affatto impossibile che prima o poi si giunga a forme di mutualizzazione dei debiti sovrani e, soprattutto, alla creazione di “stanze di compensazione” fra i surplus del nord e i deficit del sud. Come ormai tutti sanno, infatti, sono queste le modifiche necessarie a tenere in piedi la moneta unica. E non a caso anche le proposte anticrisi del ministro Varoufakis vanno esattamente in questa direzione.
Senza queste modifiche al “sistema dell'euro”, se anche la Grecia riuscisse a ottenere qualche spazio di manovra per politiche espansive, esse finirebbero per riprodurre gli stessi squilibri che hanno portato alla crisi attuale.

Ma a quali costi politici è possibile pensare che tali modifiche possano trovare realizzazione? Il punto è che introdurle significa rivoluzionare l'intero assetto delle istituzioni europee, e garantire loro piena sovranità nella scelta delle politiche economiche e sociali dei paesi membri, a meno che non si pensi che i paesi economicamente forti si facciano carico dei debiti di quelli deboli, accettando di non metter bocca nelle loro scelte di politica economica e sociale. Difficile.
In estrema sintesi, la posizione tedesca, sposata dalla BCE, è “solvibilità in cambio di sovranità”.
Tutto il contrario di quanto promesso da Tsipras, che si è assunto l'impegno di negoziare con l'eurogruppo senza accettare cessioni di sovranità (tenendosi così le mani libere per porre fine all'austerity in Grecia).
Va riconosciuto che aver ottenuto di discutere su riforme proposte da Atene e non dalla Troika, rappresenta una piccola, ma significativa vittoria. 
Siamo convinti che non basterà. 
Vedremo presto cosa proporrà il governo greco, e cosa effettivamente, alla fine, potrà realizzare. I temi da seguire con particolare attenzione saranno quelli legati al lavoro e alle privatizzazioni. 
Le Istituzioni europee vogliono facilità di licenziamento e privatizzazioni. Tsipras ha promesso di opporsi a entrambi, reintroducendo tutele per i lavoratori, e bloccando le cessioni degli asset statali, come i porti.
Misureremo nel concreto se il governo di Atene proverà davvero a invertire la rotta imposta da Bruxelles, e se vi riuscirà, dimostrando di essere l'effettivo titolare della sovranità.
Non a caso, tutte le mosse dell'UE degli ultimi anni (Fiscal Compact, “six pack”, “Fondo Salva Stati”) vanno nella direzione della spoliazione della sovranità degli Stati, in particolare di quelli in deficit.
Se Tsipras realizzasse quanto promesso, farebbe saltare per aria le stesse fondamenta dell'Unione Europea (e ci sarebbe da essergliene molto grati), ma ci sembra davvero impossibile che ci possa riuscire. Non saranno solo i paesi del nord ad impedirlo, ma anche quelli del sud, sorretti da governi che hanno devastato i propri popoli, e che non vogliono porgere il fianco a possibili forze alternative. In questa situazione, per esempio, si trova la Spagna, che andrà ad elezioni nel prossimo dicembre. E' abbastanza prevedibile che una vittoria di Tsipras sulle istituzioni europee spianerebbe la strada a Podemos.
Vedremo. Una volta spiegate le reciproche ragioni, non ci resta che attendere gli eventi, con l'onestà intellettuale di riconoscere quello che la realtà ci dirà.


(Marino Badiale, Fabrizio Tringali)

domenica 22 febbraio 2015

Siamo mainstream

Nella prima pagina del "Sole24ore" di oggi, Luca Ricolfi discute la situazione attuale dell'eurocrisi, argomentando in sostanza in base alle analisi sulle quali da anni insistiamo in questo blog. Insomma, quel tipo di analisi (nostre e di tanti altri) sembra ormai diventato mainstream. E' un dato di fatto sul quale riflettere.
(M.B.)

sabato 21 febbraio 2015

Un articolo di Michel Husson



In questo blog ho più volte portato all'attenzione dei nostri lettori (per esempio qui e qui) la questione se sia possibile oggi la ripresa delle politiche “keynesiane” del trentennio dorato, collegandola alla questione di dare un'interpretazione ragionevole della crisi del keynesismo negli anni Settanta. Segnalo con molto piacere un testo dell'economista marxista francese Michel Husson, che discute proprio queste tematiche. Al di là delle singole analisi, il suo approccio secondo me può essere davvero utile per avanzare nella comprensione dei problemi che ci attanagliano.
(M.B.)



mercoledì 18 febbraio 2015

Un articolo di Varoufakis

Segnaliamo, sul sito di Sbilanciamoci, la traduzione italiana di un articolo di Varoufakis, comparso sul New York Times del 16 febbraio:


http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Non-e-tempo-di-giochi-28483

martedì 17 febbraio 2015

Storify sulla Grecia e l'uscita dall'euro

Proviamo uno storify artigianale, qui sul blog. La lettura di un tweet e delle successive risposte mi ha suggerito alcune riflessioni. Ho omesso nomi e cognomi.
Ecco il tweet:

tsipras e varoufakis hanno un problema, e no, non è un problema con l'eurogruppo o con la troika.. il problema è con i greci e coi forconi

L'autore allude al fatto che se il governo greco non si decide ad uscire dall'euro, i greci ricorreranno ai forconi. Sollecitato sul punto, il nostro chiarisce il concetto:

o escono dall'euro o si piegano alle leggi dell'euro, scelte dure in entrambi i casi, ma con una c'è il domani, con l'altra no

Annuncio subito che è questo il tweet che ha attirato il mio interesse. Per completezza riporto il resto della conversazione. Ecco la risposta dell'interlocutore: 

no, dimmi per quale geniale motivo devono uscire, perché stampano banconote più colorate?

Replica: 

perché l'euro è ormai una valuta davvero troppo inappropriata per la loro economia, non hanno scelta, è finita

La sottolineatura è mia. 
Naturalmente, ciò a cui allude l'autore è la facoltà di svalutare la neo-dracma e recuperare competitività. La replica finale dell'interlocutore è la seguente: 

il gap competitivo lo hanno già colmato con la svalutazione interna, non ha funzionato, non conta solo il prezzo.

In effetti chi sostiene che alla Grecia converrebbe uscire dall'euro, in modo da ridurre i prezzi delle proprie merci e divenire competitiva, non considera gli effetti del deprezzamento reale che la Grecia ha subito: i prezzi sono già consistentemente calati, e la Grecia è a tutt'oggi in deficit rispetto ai propri partner commerciali. Ricordate la vecchia alternativa o si svaluta la moneta, o si svaluta il salario?  Si può svalutare la moneta o il salario, ma gli effetti, nell'attuale contesto internazionale, sono altrettanto nulli. 
Forse sarebbe ora di mettere in forse la stessa necessità dell'alternativa. E questo ci riporta al secondo tweet: 

o escono dall'euro o si piegano alle leggi dell'euro
 E ancora:
non hanno scelta. è finita

Sembra una versione aggiornata del motto thatcheriano: da There Is No Alternative (TINA) a This Is The Alternative (TITA). Sono petizioni di principio che richiamano alla mente la proverbiale minestra e l'altrettanto proverbiale finestra. Le "leggi dell'euro" qui evocate appaiono eterne, implacabili e immodificabili, tanto che o si accetta di sottostarvi oppure l'alternativa è andarsene dalla moneta unica. 
Ora, si dà il caso che questa sia la posizione di Merkel e Schauble. La posizione tedesca è: le leggi sono queste, non si cambiano, se volete quella è la porta (ma non vi conviene uscire). La posizione anti-euro è: le leggi sono queste, non si cambiano, quella è la porta (e ci conviene uscire).
Come vedete, sono posizioni perfettamente simmetriche e speculari. 
È notorio che la posizione di gran lunga più popolare in tutti i paesi europei, e segnatamente in quelli della "periferia", è quella di tenersi l'euro, ma liberarsi dell'austerità. Sottolineo che questa posizione è quella di SYRIZA e Podemos, ma NON è quella dei vari Rajoy, Samaras, Monti-Letta-Renzi, per i quali l'austerità è una conseguenza logica della permanenza nell'euro, anzi, il "prezzo" del "biglietto" per rimanerci.
Poniamoci una domanda. È più "sovversiva" la posizione di chi dice che le regole sono queste, bisogna rassegnarsi, e l'unica soluzione è uscire: oppure quella di chi afferma che si può rimanere dentro, senza pagare il biglietto?
Si può anche generalizzare il discorso. Cos'è più rivoluzionario, convincersi che l'Europa rimarra sempre così com'è, accettandone il predominio tedesco e austeritario, oppure lavorare per trasformarla? Dichiarare che le leggi dell'euro sono eterne e immutabili, oppure cancellarle e sostituirle?

Mi si obietterà: ma questo è il PiùEuropa, che hai sempre attaccato.
Ottima obiezione.
Tuttavia, la critica del PiùEuropa è sempre stata incentrata su un movimento di intellettuali che, per anni, si sono limitati a esprimere il desiderio che l'Europa cambiasse, senza dare alcun contributo perchè ciò accadesse, e anzi offrendo il destro ad operazioni di ceto politico che hanno finito per soffocare qualsiasi vera alternativa ai partiti euristi. Il mondo della Lista Tsipras, insomma.
Il vero Tsipras è un'altra cosa: egli rappresenta un governo (sovrano!), espressione di un movimento politico realmente radicato fra il popolo greco, che sta realmente incidendo sullo scenario politico europeo. Sta, in pratica, mettendo in discussione l'immodificabilità delle leggi dell'euro; ed è probabile che ci riesca, dato che l'unico modo per fermarlo sarebbe cacciare la Grecia dall'euro, violando così l'altro imprescindibile dogma dell'establishment europeo: l'irreversibilità della moneta unica.
Non fidatevi mai di chi vi dice che non c'è alternativa. L'alternativa c'è sempre. Basta volerlo. (C.M.)







domenica 15 febbraio 2015

Le previsioni di Keynes

In un post di qualche tempo fa ho citato, come esempio di un tipo di analisi che potrebbe entrare in sinergia col pensiero della decrescita, il saggio di Keynes sulle “Possibilità economiche per i nostri nipoti”, originariamente pubblicato nel 1931. Curiosando qua e là, mi sono accorto che in anni recenti quel saggio ha suscitato un certo interesse. Ha avuto varie ristampe ed è stato discusso da un certo numero di autori. Evidentemente, di fronte alla crisi attuale, che appare irrisolvibile, si cercano stimoli intellettuali un po' diversi dai soliti. Fra le altre cose, è stata pubblicata una raccolta di saggi di economisti mainstream ad esso dedicata: "Il ventunesimo secolo di Keynes. Economia e società per le nuove generazioni", a cura di L.Pecchi e G.Piga, LUISS University Press 2011. Vi sono presenti sia autori che in qualche modo possiamo ascrivere ad una specie di “ala sinistra” del mainstream (Stiglitz, per esempio), sia autori di vedute opposte. Si tratta di testi che stimolano molte riflessioni, e che hanno spesso intuizioni notevoli, come quando Fitoussi parla, a proposito del mondo futuro delineato da Keynes, di una sorta di “comunismo delle élite”.

Nonostante le molte cose interessanti che il libro contiene, la mia sensazione generale è stata quella di una certa lontananza rispetto ai temi che personalmente sento importanti, lontananza derivante dalla presenza, nei vari autori, di alcune assunzioni implicite. In sostanza mi è sembrato di ritrovare, in molte delle argomentazioni svolte nel libro, esempi abbastanza evidenti di quello che generalmente si chiama “pensiero unico”. Penso sia utile riflettere su questo, perché forse può aiutarci a capire alcuni aspetti dello "spirito del tempo", e ad articolare meglio le nostre critiche al “pensiero unico”.

Ricordiamo le tesi fondamentali del saggio. Keynes argomenta che la crescita dell'economia capitalistica potrà portare, nell'arco di un secolo, ad un tale aumento della produttività da permettere a tutti un livello di vita decoroso e contemporaneamente la riduzione generalizzata dell'orario di lavoro. Egli ipotizza a questo proposito una settimana lavorativa di 15 ore, e si pone poi il problema di cosa significhi tutto ciò per l'idea di essere umano a cui siamo abituati.

A mio parere l'importanza odierna del saggio sta nel fatto che esso può rappresentare uno stimolo per pensare ad una politica che ponga come obbiettivo la riduzione dell'orario di lavoro, e che cerchi di conciliare questo obiettivo sia col mantenimento di un livello adeguato di benessere, sia con la preservazione degli equilibri ecologici. Mi sembra invece di scarso interesse la questione se Keynes abbia oppure no predetto correttamente gli sviluppi economici successivi all'epoca di pubblicazione del saggio. Ma è proprio questa, in sostanza, la questione di cui si occupano molti degli interventi del libro, rilevando che Keynes ha centrato la previsione sull'aumento della produttività ma ha sbagliato quella sulla diminuzione del tempo di lavoro. Spero sia comprensibile il fatto che, dal punto di visto che ho sopra fatto mio, questo tipo di considerazioni appare poco interessante. A me sembra ovvio che se questo saggio ha un qualche interesse al di fuori dell'accademia non è perché Keynes ha fatto delle previsioni (giusto o sbagliate), ma perché la sua è una proposta politica. Keynes ci prospetta una possibilità: quella di usare gli aumenti di produttività per diminuire l'orario di lavoro. E poiché oggi il lavoro è essenzialmente lavoro salariato, la proposta è ovviamente quella della riduzione del tempo del lavoro salariato, mantenendo per tutti livelli di benessere accettabili. È con questa possibilità che dobbiamo confrontarci. È vero però che, ad una lettura più attenta, risulta chiaramente che questo confronto, nei vari saggi, è presente, anche se non esplicitamente tematizzato. Molti autori discutono infatti le ragioni del “fallimento di Keynes” riguardo alla previsione della diminuzione dell'orario di lavoro. E questo è in realtà un modo di rifiutare la possibilità suggerita da Keynes, argomentando questo rifiuto. Quindi queste discussioni, che presentate come spiegazioni del “perché Keynes si è sbagliato” sarebbero, a mio avviso, poco interessanti, acquistano il loro valore se le leggiamo come spiegazioni del perché l'economia mainstream ritiene impraticabile una politica di diminuzione dell'orario di lavoro.

Vediamo allora, perché, secondo alcuni importanti economisti mainstream, Keynes “si è sbagliato”. Perché continuiamo a lavorare molto? Citiamo un po' dai vari interventi. I curatori del volume (L.Pecchi e G.Piga) ci dicono che “l'aspirazione al miglioramento esiste sempre, indipendentemente da quale livello standard di vita sia stato raggiunto, e con essa la necessità di mantenere, risparmiare, accumulare e lavorare” (pag.24). Ma, si potrebbe obiettare, perché mai il “miglioramento” deve per forza essere connesso ad una maggiore produzione materiale? Non sarebbe un bel “miglioramento” poter mantenere un livello di vita “normale” lavorando la metà o un quarto del tempo?

E.Phelps (Premio Nobel per l'economia 2006) ci dice che il punto cruciale è che Keynes ha trascurato il dato di fatto che “gli esseri umani hanno bisogno di esercitare l'intelletto su nuove sfide, su problemi nuovi da risolvere, su nuovi talenti da coltivare” (pag.101). E l'obiezione ovvia è che non si capisce perché questo implichi il rapporto di lavoro salariato: perché mai non si potrebbero fare tutte queste bellissime cose dedicando la metà o un quarto del tempo attuale al lavoro salariato, dedicandosi alle “nuove sfide” nel resto del tempo? Se questa necessità di dedicarsi a “nuove sfide” fa parte della natura umana, come sembra dire Phelps, perché mai dovrebbe avere bisogno del rapporto di lavoro salariato per esprimersi?

B.M.Friedman ci parla di una continua “aspirazione al miglioramento” che dà per scontato il livello di vita al quale si è arrivati e chiede quindi di più (“dato che le abitudini di vita si adeguano ai tenori di vita diventati consuetudinari, l'aspirazione al miglioramento inizia sempre da quel punto” pag.126), ma di nuovo, perché mai il “miglioramento” deve essere inteso come aumento del consumo di merci? Perché una vita in cui i bisogni primari siano assicurati e che preveda la diminuzione del tempo del lavoro salariato non dovrebbe essere considerata un “miglioramento”?

Particolarmente sorprendenti sono alcune formulazioni di R.B.Freeman. In primo luogo, egli sintetizza la posizione di Keynes in questo modo: “Keynes però si è sbagliato nel pensare che questo miglioramento nel tenore di vita ci avrebbe portato a ridurre notevolmente le ore di lavoro e a dedicare più tempo ai lavoretti di casa o ad attività di svago” (pag.131), ed è davvero notevole rendersi conto di come l'autore sia del tutto incapace anche solo di pensare ad altri modi possibili di “uso della vita”: poiché oggi l'uomo medio usa il tempo libero dal lavoro appunto per qualche svago o per i lavoretti in casa, allora una eventuale riduzione dell'orario di lavoro si tradurrà in maggior tempo per quel tipo di attività, e nient'altro. L'essere umano coincide con l'impiegato medio, e nessun altro modo di vivere la propria vita è concepibile. Ma il punto più sorprendente del suo contributo è il seguente. Freeman vuole argomentare che l'orario di lavoro non diminuisce anche perché il lavoro è attraente di per sé, indipendentemente dal salario. Fra i vari argomenti a favore di questa tesi, egli porta il seguente: “Negli Stati Uniti, e in misura minore nel Regno Unito, molte persone lavorano come volontari per cause filantropiche pur di non stare in panciolle in casa come facevano i ricchi oziosi dell'era di Keynes” (p.136). Questa mi sembra una incomprensione davvero notevole del senso profondo della tesi di Keynes: il lavoro volontario per cause filantropiche non è lavoro salariato, e rappresenta appunto un esempio di quello che si potrebbe fare diminuendo l'orario di lavoro salariato. Anche in Freeman si vede chiaramente come la confusione fra “attività umana” e “lavoro salariato” impedisca la comprensione della proposta politica implicita nel testo di Keynes.

Si potrebbero fare altri esempi, ma mi fermo qui, penso che l'essenza del discorso sia chiara: nel pensiero degli economisti mainstream c'è un assioma indiscutibile, cioè il fatto che “attività”, “impegno”, “creatività” e concetti simili, si identificano con “lavoro per guadagnarsi da vivere” e quindi, nella nostra organizzazione sociale, essenzialmente con "lavoro salariato". Per cui l'idea di ridurre il tempo del lavoro salariato coincide in sostanza con la proposta di una vita inattiva. Siamo cioè di fronte a un caso da manuale di come l'economia assuma come dato naturale i rapporti sociali tipici della nostra società capitalistica, per cui risulta incomprensibile una qualsiasi proposta politica che metta in discussione una tale identificazione.

Con questo ovviamente non scopriamo niente di nuovo rispetto a quanto Marx ha detto a suo tempo con tutta la chiarezza necessaria: non facciamo che confermare una volta di più la necessità di riprendere le fila di un pensiero critico, di una rinnovata “critica dell'ideologia”.
(M.B.)






mercoledì 11 febbraio 2015

Citazioni/4


“C'è stata una trasformazione dei rapporti di forza a vantaggio della borghesia e a spese dei lavoratori per tutto il periodo di avviamento del Mercato Comune.
Questo cambiamento dei rapporti di forza deriva da tutta una serie di cause (…). Non ci soffermeremo ad esaminarle una per una, ma ci limiteremo ad illustrare un fatto fondamentale: l'internazionalismo dei padroni e delle loro organizzazioni è risultato molto più concreto ed efficace di quello dei lavoratori e delle loro organizzazioni.
D'altra parte, era facile prevederlo, e chi, nel movimento operaio, ha cercato di tapparsi gli occhi e ha predetto che la realizzazione del Mercato Comune avrebbe favorito la lotta operaia e persino la lotta socialista contro il padronato non ha fatto che nutrire pie illusioni. Era inevitabile che la borghesia e il padronato, per la loro stessa tradizione, per il loro modo di vivere, per l'ambiente in cui si muovono e i mezzi di cui dispongono, fossero molto più pronti ad un'azione su scala europea che non la classe operaia (…).
In proposito, possiamo esprimere un moderato ottimismo. È innegabile che, a lungo andare, la realtà riuscirà a spuntarla sul pregiudizio, la lezione dell'esperienza insegnerà a tutti i settori sindacali che ancora non lo capiscono, che è indispensabile un'unità d'azione in seno al Mercato Comune.”
(E.Mandel, Neocapitalismo e crisi del dollaro, Laterza 1973, pagg.92-93).


Ernest Mandel è stato un economista marxista e dirigente politico trotskista. La citazione è tratta dalla relazione ad un convegno, originariamente pubblicata nel 1964. Cinquant'anni fa, era chiarissimo ad una persona intelligente come Mandel il succo del processo di integrazione europea, che in quel momento si condensava nel Mercato Comune: i ceti dirigenti si unificano, i ceti subalterni restano divisi, quindi i primi sono più forti e simmetricamente i secondi sono più deboli. Cinquant'anni fa, era certo ragionevole, o almeno non assurda, la speranza che questa situazione potesse essere superata con una parallela unificazione dei ceti subalterni. Cinquant'anni più tardi, queste illusioni non sono più possibili, e chi ripete, parlando di euro e UE, le illusioni di Mandel, non ha più nessuna scusante. Cinquant'anni non sono uno scherzo. Se una visione strategica resta per cinquant'anni un semplice slogan senza effetti, un flatus vocis, forse è il caso di abbandonarla e di pensare strategie migliori.
(M.B.)

domenica 8 febbraio 2015

Cosa ha davvero in mente Varoufakis


Poco dopo l'uscita del nostro libro sull'euro, l'editore ci regalò alcune copie di un recente testo sulla crisi: Y.Varoufakis, Il Minotauro globale, Asterios 2012.
L'autore era un professore greco, proprio colui che oggi è sulle prime pagine di tutti i giornali, in quanto nuovo ministro delle finanze del paese ellenico.
Scoprimmo poi che “Il minotauro globale” è la versione rivista di una parte di un grosso volume che Varoufakis ha scritto assieme a J.Halevi e N.J.Theocarakis: Modern Political Economics, Routledge 2011.
Nella prima parte esso ripercorre criticamente l'intera storia del pensiero economico, cercando di individuare le acquisizioni conoscitive che possono ancora essere utili (e che talvolta gli sviluppi successivi mettono da parte), senza però tacere gli ostacoli e le contraddizioni inevitabili che emergono ogni qual volta si tenti di costringere la complessa dinamica sociale nel letto di Procuste di una sistema formalizzato.
Nella seconda parte, quella che appunto diventerà “Il minotauro globale”, l'impianto analitico sviluppato nella pagine precedenti viene utilizzato come strumento di analisi degli sviluppi socioeconomici delle società occidentali, a partire dal secondo dopoguerra.

La lettura del “Minotauro globale” risultò molto interessante per noi, ma lo è ancora di più risfogliarlo adesso. Per capire cosa potrebbe avere davvero in mente Varoufakis, possiamo esaminare quali soluzioni per l'uscita dalla crisi egli indica nel suo testo.
A pagina 229 l'attuale ministro sostiene che la crisi dell'eurozona potrebbe essere risolta in modo semplice e rapido, in tre mosse:
- La BCE dovrebbe subordinare l'assistenza alle banche alla condizione che queste ultime cancellino una quota consistenti di crediti verso i paesi deficitari
- La BCE dovrebbe emettere propri bond e contestualmente incamerare una quota del debito pubblico di tutti gli Stati, pari al valore nominale del debito consentito dai trattati (cioè fino al 60% del PIL). I bond dovrebbero essere garantiti direttamente dalla BCE e non dai singoli Stati.
- La BEI (Banca Europea degli Investimenti), con l'assistenza della BCE, dovrebbe assumere il ruolo di riequilibratore fra i surplus e i deficit dei vari Stati. La BEI ha buone capacità di finanziare investimenti redditizi, ma le sue potenzialità non sono sfruttate. Il motivo è che per attivare i finanziamenti, gli Stati devono anticiparne una parte, ma non hanno il denaro per farlo (soprattutto quelli che hanno più bisogno dei finanziamenti). L'autore propone che gli Stati possano utilizzare a questo scopo risorse derivate dall'emissione di bond della BCE, la quale, in pratica, rastrellerebbe le eccedenze dei paesi in surplus (dando loro i bond) reinvestendole in quelli in deficit.
In estrema sintesi, quindi, le tre mosse sono: la cancellazione di una parte del debito pubblico; la copertura della BCE su una ampia quota della restante parte (fino al 60% del PIL); l'introduzione di un meccanismo di riequilibro fra le economie, che trasformi le eccedenze dei paesi in surplus in investimenti nei paesi in deficit.

Questi sono, probabilmente, i veri obiettivi del governo greco, i quali vanno ben al di là di una serie di richieste relative al debito o alle riforme. Perché è fin troppo chiaro che un taglio del debito di Atene, o un allentamento dell'austerity in quel paese, di per sè costituirebbero certamente  una boccata di ossigeno per il sofferente popolo ellenico, ma non risolverebbero assolutamente nulla senza una serie di cambiamenti nel "sistema dell'euro", in particolare volti a riequilibrare le diverse economie. Cosa che sul piano economico equivale a chiedere alla Germania di smettere di essere la Germania. Mentre sul piano politico, come lo stesso autore afferma, significherebbe privare la nazione tedesca del suo enorme potere contrattuale nei confronti degli altri membri dell'eurozona.
E' su questo terreno che si gioca la vera partita a livello europeo.
(M.B., F.T.)

giovedì 5 febbraio 2015

Un libro di Massimo Bontempelli



M.Bontempelli, Un pensiero presente, Indipendenza-Editore Francesco Labonia, 2014



Il gruppo di intellettuali e militanti che pubblica la rivista “Indipendenza” ha fatto un'opera meritoria, raccogliendo in volume gli scritti che Massimo Bontempelli pubblicò sulla rivista nel periodo 1999-2010. Si tratta di un volume di grande ricchezza e spessore intellettuale, che riesce difficile riassumere in una recensione. Bontempelli infatti affronta in questi articoli i temi più diversi, dalla non violenza alla fecondazione assistita, dalla distruzione della scuola pubblica all'origine dello Stato nazionale italiano, dalla decrescita alla “personalità narcisistica”. Per chi non conoscesse Bontempelli, questo semplice elenco (neppure esaustivo!) potrebbe certamente indurre l'opinione che un libro come questo sia una raccolta di scritti estemporanei, magari brillanti e stimolanti, ma certamente poco organici. Sarebbe questa un'opinione del tutto erronea. Le analisi di singoli problemi, spesso indotti dall'attualità della cronaca, sono infatti in Bontempelli sempre ricondotte all'intelaiatura fondamentale del suo pensiero, che è un pensiero “forte”, radicato nella tradizione filosofica occidentale (con il platonismo ad un estremo, e l'idealismo classico tedesco all'altro), nella critica marxiana dell'economia politica, nella capacità di ricostruzione storica della realtà sotto esame.

Come si è detto, il volume affronta molti temi diversi, che non è ovviamente possibile discutere in breve. Mi limito dunque ad un breve accenno a due ordini di problemi, che ricorrono in vari punti del libro, e che penso possano essere di particolare interesse per i nostri lettori.

In primo luogo, uno dei fili conduttori dell'analisi, da parte di Bontempelli, di problemi anche diversi fra loro (dalla crisi della scuola alla riflessione sull'11 settembre), è la necessità di una riconquista della dimensione dello Stato-nazione da parte delle forze che intendono difendere la civiltà sociale del nostro paese assieme ai diritti e ai livelli di vita dei ceti subalterni. Si tratta di un tema la cui importanza spinge Bontempelli a scrivere, fra gli altri, due articoli molto interessanti sull'origine dello Stato-nazione italiano, a partire dalle invasioni napoleoniche. Ovviamente, la tesi della necessaria riconquista della sovranità nazionale implica una forte critica nei confronti della costruzione dell'UE. Le critiche di Bontempelli all'UE riprendono la tesi, da molti ribadita, sull'inesistenza di un popolo europeo, e la approfondiscono, spiegando come i vari presupposti (culturali, economici, linguistici ecc.) che rappresentano la base di una costruzione nazionale “hanno bisogno, per diventare elementi di una vera nazione, di una sintesi politica che ne progetti lo sviluppo nel futuro” (pag.308). Il punto fondamentale è che “le nazioni (…) si attualizzano sempre in connessione con qualche nuova grande idealità emergente nella storia che esse vanno ad incarnare”(ibidem). Le nazioni dell'Ottocento incarnano infatti l'ideale del costituzionalismo liberale. Ma per quanto riguarda l'Europa, prosegue Bontempelli, essa “non può essere uno Stato-nazione, anche perché in sé non è espressione di alcun nuovo ideale storico che possa unificare le sue divaricazioni interne. La vacuità unitaria culturale si conferma pure nella sua versione odierna, in cui è soltanto una moneta, una Banca centrale ed una regolamentazione di pura mediazione tra i diversi egoismi economici” (ibidem).

In secondo luogo, Bontempelli analizza, in molti degli articoli raccolti nel libro, il modo in cui l'attuale “capitalismo assoluto” influisce sulla dimensione della personalità. Si tratta di una analisi che rimanda alla teorizzazione filosofica, antropologica e psicologica che Bontempelli ha sviluppato in vari testi e in particolare in “Filosofia e realtà” (edizioni CRT 2000). Per Bontempelli il capitalismo diviene “assoluto” quando la sua logica riesce a informare di sé non solo l'ambito della produzione ma l'insieme della società. Gli effetti di questa nuova situazione, che Bontempelli data a partire dall'ultimo quarto del Novecento, sono, per quanto riguarda il tema in questione, la creazione e la diffusione di nuove forme di personalità: in particolare la personalità narcisistica, che in epoche precedenti era sì presente ma minoritaria, diviene oggi il tipo umano “di riferimento”. Queste innovazioni psicologiche e antropologiche sono la radice ultima, secondo Bontempelli, dell'impotenza in cui si dibattono i vari movimenti antisistemici, che continuano a combattere alcuni aspetti del capitalismo senza capire come la pervasività della logica capitalistica abbia oggi radicalmente spostato il fronte della lotta. Tale impotenza rende purtroppo altamente probabile un esito fortemente drammatico della crisi del capitalismo, che secondo Bontempelli è destinata ad avvitarsi su se stessa: in sostanza il capitalismo crollerà per le sue contraddizioni senza che nasca al suo interno una forza storica capace di guidare il suo superamento in modo da minimizzarne la distruttività. Su questo punto credo convenga lasciare la parola allo stesso Bontempelli, con una lunga citazione che spero possa dare al lettore un'idea dello spessore e della densità del suo argomentare: “ogni sistema sociale stabilmente strutturato, per quanto oppressivo, in quanto stabilmente strutturato esprime sul piano empirico qualche sia pur empiricamente deformato significato trascendentale. Il capitalismo è invece l'unico sistema il cui funzionamento è in contraddizione con la natura trascendentale umana. Se è tale, però, come ha fatto a nascere e svilupparsi? È nato perché è stato lo strumento indiretto dell'emersione storica di due significati trascendentali, il valore dell'individualità e quello dell'appartenenza nazionale, di cui sono state levatrici storiche le classi borghesi proprio attraverso la forza tratta dalla nuova economia del plusvalore di cui erano attrici e profittatrici. Si è sviluppato perché ha utilizzato per il suo funzionamento risorse non sue: le risorse politiche e spiritualmente coesive della nazionalità, le risorse psichiche e comportamentalmente disciplinatrici della famiglia e della scuola borghesi, le risorse produttive dell'etica religiosa e corporativa del lavoro, le risorse socialmente regolatrici dei codici d'onore aristocratici. Ma l'utilizzazione di queste risorse presupponeva l'autonomia funzionale delle sfere in cui si formavano, e la parzialità sociale, per quanto determinatrice in ultima istanza degli indirizzi generali, del modo di produzione capitalistico. Una volta però che il modo di produzione capitalistico è diventato totalitario, sottomettendo direttamente alla sua logica di funzionamento tutte le sfere sociali, questa sua potenza storicamente assoluta avvelena le stesse risorse antropologiche di cui avrebbe bisogno. All'altezza del nostro tempo storico si rivela così come la vera contraddizione distruttiva da cui il capitalismo è segnato non sia una di quelle tematizzate dalla tradizione marxista (tra capitale e lavoro, tra borghesia e proletariato, tra forze produttive e rapporti di produzione), ma quella tra esso e la natura umana. La potenza che distruggerà il capitalismo sarà dunque la potenza stessa del capitalismo, dato che in futuro i suoi effetti universalmente destrutturanti non saranno più contenuti da forme organizzative precapitalistiche.” (pag.160).
(M.B.)


Questo post è pubblicato anche su "Appello al popolo": http://www.appelloalpopolo.it/?p=12993


Il gioco si fa duro

La BCE comincia a usare le sue armi per convincere il governo greco a cedere:


http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2015/02/04/accoglienza-calorosa-per-tsipras-juncker-lo-prende-per-mano-_011a4af7-522c-4f70-ae98-8e453efaa09c.html




Qualche commento lo trovate qui, qui e qui.


(M.B.)

lunedì 2 febbraio 2015

La potenza del nemico/2

Proseguo le riflessioni di qualche tempo fa. Lo spunto questa volta è la lettera di un lettore riportata in un post di Goofynomics. Il lettore riporta una discussione con una ragazza che lavora in un bar:


“scherzava sul fatto che se le dovesse prendere l'influenza non potrebbe mettersi in malattia visto la carenza di personale. Carenza dovuta, a suo dire, alla mancanza di voglia e serietà delle persone che non vogliono fare quegli orari. 'Ste ragazze lavorano 8-10 ore al giorno per 6 giorni a settimana. Il turno la mattina inizia alle 5. La sera finisce alle 22-23. Quando faccio notare che forse 800 euro al mese (perché questo è il loro stipendio!) non sono adeguati al carico di lavoro che viene svolto, la barista ha aggredito me, me!, dicendo che se lei può fare questi orari con questi soldi, allora non vede perché gli altri se ne debbano lamentare. Sono semplicemente svogliati.”


Mi ha colpito questo passo perché a me è successa una cosa simile, e in questi giorni stavo giusto pensando di scriverci un post. Ero seduto nell'autobus e dietro di me due signore discutevano del loro lavoro. Non ho capito quale fosse, ma sembrava avesse a che fare con l'assistenza sanitaria, non so se in una struttura pubblica o privata. Comunque, una delle due si lamentava del fatto che alcuni colleghi (o colleghe) abusavano della mutua per malattia, e concludeva con questa asserzione di valore generale “se uno ha l'influenza non ha il diritto di stare a casa”. Concedeva, bontà sua, che in caso di malattie più gravi il diritto a stare a casa poteva essere mantenuto. Questo dialogo mi lasciò abbastanza sbalordito. Posso capire che, non rendendosi esattamente di cosa succede, e dato il bombardamento mediatico cui si è sottoposti, molta gente si rassegni alla perdita dei diritti,
alla erosione dei redditi, al generale abbassamento delle condizioni di vita. Ma che tutto questo venga rivendicato come qualcosa di giusto, che si affermi con fierezza e convinzione “non voglio avere diritti!”, questo lo trovo abbastanza sorprendente. Gli oppressi hanno sempre dovuto accettare una situazione di oppressione, e ci sono sempre stati solerti ideologi che hanno inculcato loro opportune elaborazioni intellettuali giustificative dell'esistente. Ma penso sia piuttosto raro che gli oppressi approvino un inasprimento dell'oppressione stessa, che si convincano che è giusto perdere alcuni dei pochi diritti di cui potevano fruire.  Almeno, non mi vengono in mente esempi. Oggi invece succede proprio questo. Certo, due indizi non fanno una prova, e ci sarebbe bisogno di approfondite ricerche empiriche per sapere se e quanto questi due esempi rispecchino il comune sentire. Ma il fatto che sei o sette anni della più grave crisi economica del dopoguerra, con il suo seguito di disoccupazione, impoverimento e disperazione, non abbiano ancora portato al coagularsi di una seria forza di opposizione politica, sembra indicare che le difficoltà ideologiche da superare sono assai serie. La cosa più inquietante è la considerazione che, se lo stato d'animo esemplificato dai due casi riportati fosse davvero quello comune, allora la crisi economica non porterebbe in nessun modo ad una sollevazione antisistemica. Se davvero la maggioranza dei cittadini condivide le opinioni nelle quali siamo incappati io e il lettore di Bagnai, il peggioramento economico, individuale e collettivo, si tradurrà in violenza reciproca, non certo in solidarietà di classe o di gruppo. Ci sbraneremo gli uni con gli altri, mentre i Caini che ci governano continueranno a rilasciare interviste.
(M.B.)