venerdì 31 gennaio 2014

Il Grande Balzo in Avanti

Ci si può indignare ma non stupire della proposta di diminuzione del salario in cambio del mantenimento del posto di lavoro, fatte dalla dirigenza Electrolux ai sindacati, secondo quanto riportano i giornali. Si tratta delle conseguenze ovvie della realtà del capitalismo globalizzato, che nel caso europeo vengono rafforzate dai meccanismi istituzionali di euro e UE. In Spagna sta succedendo la stessa cosa. Tutto questo succede mentre il ceto politico fa strani giochi contabili a favore delle banche private e si prepara a ulteriori drastici colpi alla democrazia, mascherati da “nuova legge elettorale”. Si veda la sintesi contenuta in questo articolo di Mazzei.
Tutto quanto sta avvenendo è logica conseguenza del dato di fondo: nel capitalismo attuale non vi è più nessuno spazio per una crescita di diritti e redditi dei ceti subalterni. Se in passato all'interno della società capitalistica erano possibili conquiste di civiltà (contraddittorie, sempre revocabili, ottenute solo con dure lotte: ma in ogni caso effettive conquiste di civiltà), da qualche decennio a questa parte i ceti dirigenti delle società capitalistiche hanno avviato un grande processo di distruzione di tutte le conquiste ottenute dai ceti subalterni. Tutto si tiene, ovviamente: l'attacco ai salari va assieme al rafforzamento delle banche a spese dello Stato, e se questo è lo sporco lavoro che va fatto comunque, ovviamente è bene ridurre le possibilità di protesta democratica con leggi elettorali ad hoc.
Ci stiamo preparando al Grande Balzo in Avanti del capitalismo italiano: il grande balzo verso il Bangladesh.
Non c'è da stupirsi di nulla, se non della passività delle vittime.
(M.B.)




mercoledì 29 gennaio 2014

I 5 Stelle e le banche

Una settimana fa Mario Draghi ha chiarito ciò che già Emiliano Brancaccio ci aveva spiegato: e cioè che l'Unione Bancaria porterà alla chiusura delle banche deboli, cioè quelle del Sud Europa. La centralizzazione in capo alla BCE dei poteri di vigilanza e controllo ora nelle mani delle BC nazionali favorirà un processo di centralizzazione dei capitali, portando così al completo predominio delle grandi banche del nord.
Dato che la classe dirigente italiana queste cose le sa, ed ha a disposizione "ingegneri contabili" di grande livello, a Roma hanno pensato immediatamente alla contromisura: la rivalutazione delle quote di partecipazione in Bankitalia.
Questa mossa dimostra come il ceto politico (e tecnocratico) italiano non abbia alcuna intenzione di "subire" il grande gioco europeo: esso anzi vede l'Unione Europea come un terreno di espansione del proprio dominio e del proprio prestigio. Non può dunque rinunciare alla prospettiva del "piùeuropa", compresa l'Unione Bancaria, ma non può nemmeno accettare di farsi espropriare del tutto dai capitali del nord. E quindi ricorre ai trucchi contabili, per il cui approfondimento sono caldamente consigliate queste letture.
Non sappiamo se questo disegno avrà successo; di sicuro rischia di non partire nemmeno, grazie alla feroce opposizione del Movimento 5 Stelle.
La linea del contrasto alla "regalia" alle banche non è sbagliata, ma rischia di risultare un po' miope. Andrebbe ricollegata ad un giudizio sulle strategie del capitale italiano per sopravvivere e ritagliarsi la leadership europea, nonché alla possibilità concreta che, impedendo che la rivalutazione abbia luogo, le banche italiane si ritrovino in una posizione di debolezza tale da favorire la loro fagocitazione da parte degli istituti del Nord Europa.
Non si tratta di rinunciare alla lotta, né tantomeno di cedere alle lusinghe di Matteo Renzi. Si tratta di porre in primo piano l'opzione della nazionalizzazione degli istituti di credito, l'unico modo che permetta di impedire la colonizzazione finanziaria del nostro paese senza regalare nulla a nessun banchiere. Anzi. (C.M.)

martedì 28 gennaio 2014

Solidarietà coi No Tav

Segnaliamo la raccolta di fondi per pagare le spese alle quali sono stati condannati i leader No Tav. Sono dell'opinione che si tratti di situazioni di fronte alle quali i movimenti di lotta si troveranno sempre più spesso. Oltre che con la repressione "classica", il sistema di potere reagirà con le richieste di danni. Anche per questo occorre una forza politica nazionale antisistemica. I movimenti da soli non ce la possono fare, a mio modesto avviso.
(M.B.)

lunedì 27 gennaio 2014

Elezioni europee/3

Ci sono diversi buontemponi che, negli ultimi mesi, hanno spesso associato il Front National di Marine Le Pen e il Movimento Cinque Stelle, sussumendo entrambi sotto la categoria di "populismo anti-europeo". Quasi altrettanti sono quelli che hanno fatto proprio l'auspicio che si formi, nel prossimo parlamento europeo, un "fronte comune anti-euro" che riesca a tenere insieme, tra gli altri, FN e M5S.

Chi poteva aspettarsi che la regina del FN disprezzasse in maniera così implacabile  Beppe Grillo e il M5S, tanto da definire quest'ultimo

non un partito ma un’eruzione cutanea, un’allergia alla vita politica*

E che invece il campione del centro-sinistra italiano, la forza più europeista di tutto il continente, si sarebbe guadagnato tanti apprezzamenti? Nemmeno Berlusconi esce male nella "pagella" di Le Pen. Sembra quasi che per la signora conti di più l'approccio "metodologico" alle decisioni politiche, piuttosto che il merito delle stesse; perciò un duce** capace di prendere decisioni in tempi rapidi e di imporle agli altri è più vicino alla sensibilità del FN di quanto non lo possa essere un movimento che, in fin dei conti, è schierato tra i critici dell'euro. Se così fosse, sarebbe prova della di lei intelligenza: il come vengono prese le decisioni è l'elemento decisivo al fine di un giudizio su una forza politica. Infatti tra le principali ragioni che ci permettono di considerare il FN come una forza reazionaria e anti-democratica c'è proprio il dominio assoluto esercitato dalla signora Le Pen sul suo partito, il fatto che tutta la comunicazione politica sia concentrata sulla sua figura personale, e che essa debba il proprio potere essenzialmente ai propri natali.

Probabilmente il M5S non se ne avrà troppo a male per questa stroncatura. Dopotutto, essa rappresenta la prova di come il movimento stia riuscendo ad essere davvero al di là della destra e della sinistra. È proprio vero che certi insulti sono altrettante medaglie. (C.M.)



* Spesso il linguaggio che si usa è sintomatico del proprio orientamento ideologico.

** È l'esatta traduzione del termine "leader".

domenica 26 gennaio 2014

Elezioni europee/2

numero precedente

Consigliamo a tutti di leggere con attenzione questo intervento di Aldo Giannuli. Sono parole di un intellettuale, di quelli veri. 

 Lista Tsipras: pensandoci su

Come si sa, un gruppo di intellettuali (Camilleri, Spinelli, Flores D’Arcais, Gallino, Revelli, Viale) ha proposto di dar vita ad una lista in appoggio alla candidatura di Alexis Tsipras alla Presidenza della Commissione Europea ed ispirata all’esperienza unitaria della sinistra greca espressa dalla lista di Siriza. L’appello propone un impegno per un’Europa diversa che, pur mantenendo la moneta unica, respinga le politiche di austerità ed il fiscal compact perché: “È nostra convinzione che l’Europa debba restare l’orizzonte, perché gli Stati da soli non sono in grado di esercitare sovranità, a meno di chiudere le frontiere, far finta che l’economia-mondo non esista, impoverirsi sempre più.”
Si propone un  “piano Marshall dell’Unione, che crei posti di lavoro con comuni piani di investimento e (che) colmi il divario tra l’Europa che ce la fa e l’Europa che non ce la fa”. Inoltre si propone che l’Europa divenga unione politica dandosi una Costituzione scritta dal suo Parlamento in sede costituente. Si chiede cha la Bce abbia poteri simili a quelli della Fed (essenzialmente di emettere liquidità a discrezione e comperare titoli di debito dei paesi membri).
Per questo si auspica di “rimettere in questione due patti-capestro. Primo, il fiscal compact e il patto di complicità che lega il nostro sistema politico cleptocratico alle domande dei mercati”.
A questi fini si propone di dar vita ad “una lista promossa da movimenti e personalità della società civile, autonoma dagli apparati partitici, che candidi persone, anche con appartenenze partitiche, che non abbiano avuto incarichi elettivi e responsabilità di rilievo nell’ultimo decennio, che sostiene Tsipras ma non fa parte del Partito della Sinistra Europea che lo ha espresso come candidato”.
Devo dire che la proposta ha molti aspetti condivisibili: l’aperta collocazione di sinistra, il sostegno dato al leader della sinistra greca dopo il vergognoso isolamento in cui è stata lasciata la Grecia di fronte all’aggressione della “troika”, l’invito a superare la frammentazione della sinistra, il richiamo alla lotta in difesa dell’ambiente e contro la Mafia. Ed ho anche apprezzato il richiamo ai centri sociali riconosciuti come soggetto politico con cui dialogare. Dunque, non mancano i motivi che ispirano simpatia. Detto questo, è il caso di fare qualche rilievo critico.
In primo luogo non convince affatto l’impostazione politica che riprende l’abusata litania europeista, per cui è impensabile il ritorno alla sovranità monetaria nazionale perché “gli Stati da soli non sono in grado di esercitare sovranità, a meno di chiudere le frontiere, far finta che l’economia-mondo non esista”. E infatti, tutto il resto del Mondo (dagli Usa alla Cina, dal Brasile all’Inghilterra, dal Sudafrica al Giappone, dal Vietnam al Canada) ha monete nazionali e l’Europa è l’unica ad avere una moneta sovranazionale.
Perché un autorevole sociologo come Gallino, che ha scritto libri molto importanti sulla crisi in atto, sottoscrive una sciocchezza del genere? Si può preferire una moneta come l’Euro ad una moneta nazionale, ma non si può ragionare come se la moneta sovranazionale fosse la norma e quelle nazionali l’eccezione, quando la realtà concreta è esattamente l’opposto.
Veniamo al sodo: le prossime elezioni europee saranno un referendum su questa Europa e sulla sua moneta, ripeto: su “questa Europa”, non su un ideale astratto di unità europea che potremmo anche condividere, ma che non è il tema all’ordine del giorno. La proposta parla di cose che non stanno né in cielo né in terra (Piano Marshall per l’Europa debole, Unione politica, Assemblea Costituente…) ed, in nome di questi sogni, chiama a non rimettere in discussione QUESTA Europa. L’Euro non è una qualsiasi moneta che può essere utilizzata per politiche economiche differenti. E’ una precisa operazione politica funzionale a certi rapporti di forza ed a determinate politiche economiche, e non è piegabile a piacimento: se vuoi l’Euro ti devi tenere le politiche di austerità, il fiscal compact, il veto berlinese alla Bce, e tutto il resto.
Torneremo a parlarne presto su questo blog. Unione politica di Europa, Assemblea Costituente ecc? Ma di che state parlando, della Luna? Oggi non ci sono neppure le più lontane premesse di tutto questo ed i motivi per cui in sessanta anni (dico sessanta) l’unione politica non si è fatta sono ancora tutti presenti ed, anzi, sono aumentati. O pensate che domani Francia, Germania, Olanda, Inghilterra, Spagna ecc. siano disposte a sciogliere i propri stati nazionali per confluire gioiosamente in uno stato comune europeo? Dove si vede questo film?
Dunque, tutto questo è fumo e la scelta è tenersi la Ue e l’Euro così come sono o bocciarli, trovare una via d’uscita. Il resto è fumo negli occhi. La stessa fumosa astrattezza la trovo nella proposta di lista “della società civile” disposta ad ospitare partiti ed organizzazioni esistenti, ma con candidati scelti dal comitato dei saggi, che non si candideranno in prima persona. Anche qui, basta con i sogni e siamo concreti:
a- per presentare la lista occorrono 30.000 firme per ciascuna circoscrizione, e di queste almeno 3.000 devono essere iscritti in ciascuna regione della circoscrizione (e vi voglio a raccoglierle in Val d’Aosta, pena l’esclusione della lista nell’Italia nord ovest). Dunque, occorre avere un’ organizzazione capillarmente presente in ogni regione. C’è già una rete del genere che prescinda dai pur piccoli partitini della sinistra radicale?
b- Poi occorre preparare le candidature e corredarle con la documentazione necessaria;
c- Poi bisogna fare la campagna elettorale e far conoscere un simbolo ed una sigla nuovi nel giro di una manciata di settimane;
d- Infine, occorre raccogliere il 4% per entrare nel Parlamento Europeo;
Vale la pena di ricordare che siamo al 23 gennaio, si vota esattamente fra 4 mesi e 4 giorni ed ancora non sappiamo se ci sarà questa lista e che simbolo avrà, poi occorrerà scegliere i candidati, raccogliere le firme, fare la campagna elettorale. Sapete come andrà a finire? Con l’ennesima riedizione di Rivoluzione Civile, sinistra Arcobaleno, Nuova sinistra Unita… Un film visto troppe volte. I partitini, in ragione della loro presenza territoriale, si imporranno e faranno le liste a modo loro (ed il limite del non aver rivestito cariche istituzionali negli ultimi 10 anni, sempre che sia rispettato, produrrà al massimo che non candiderete il segretario del tale partitino, ma la fidanzata, l’amico del cuore o il portaborse). Verranno fuori liste indecenti, come fu l’anno scorso, ci sarà pochissimo tempo per far conoscere il nuovo simbolo (a meno che non pensiate che basti il richiamo al magico nome di Tsipras per fare il miracolo) e, manco a dirlo, l’obbiettivo sarà bucato per l’ennesima volta. Abbiamo già dato.
Questa operazione politica ha due punti deboli che la condannano sin d’ora: nasce troppo tardi ed è politicamente non significativa, perché non coglie il punto di fondo: mettere fine all’esperienza fallimentare dell’Euro. Per di più siamo in un momento di forte polarizzazione anche maggiore dell’anno scorso. A fine dicembre 2012 scrissi che lo spazio della “sinistra di sistema” era occupato dal Pd, quello dell’opposizione antisistema dal M5s e non c’era spazio intermedio. Mi pare di aver avuto ragione: Sel è andata sotto il 4 e se l’è cavata solo perché era sotto l’ombrello del Pd, Rivoluzione civile è impietosamente affondata. Ora le cose stanno messe anche peggio, sia perché al governo c’è il Pd, sia per la questione della legge elettorale: lo scontro si è radicalizzato, Sel si sta frantumando, e la cosa si pone come una conta diretta fra Pd e M5s, per gli altri c’è meno spazio di un anno fa.
Non è che in assoluto non ci sia spazio per un partito di sinistra classista in questo paese, soprattutto con la crisi che infuria, ma queste cose non si fanno in quattro e quatt’otto, come se fossero una pizza capricciosa.  Oggi, se proprio vogliamo, dovremmo stare preparando le liste per le amministrative del 2015 ed il tempo sarebbe già scarso. Per le europee i giochi sono già fatti.
Per cui, auguri compagni ed amici, vi auguro il migliore successo possibile, ma, stanti così le cose, io non ci credo.
Aldo Giannuli

giovedì 23 gennaio 2014

Un intervento di Mauro Bonaiuti


(riceviamo e pubblichiamo volentieri)
M.B.

Ecco la fine della crescita

ovvero: tecnocrazia stadio supremo del capitalismo?

Mauro Bonaiuti

Il fatto

Il 14 novembre scorso - davanti alla platea degli esperti del Fondo Monetario Internazionale, riunito per la sua 14 riunione annuale, – Larry Summers, uno dei più scaltri e influenti economisti americani, ex Segretario del Tesoro, ha pronunciato un discorso per molti versi eccezionale in cui, per la prima volta in contesto ufficiale, si è parlato esplicitamente di "stagnazione secolare" o come qualcuno l'ha ribattezzata di “Grande stagnazione": a cinque anni dalla Grande Recessione - dice Summers - nonostante il panico si sia dissolto e i mercati finanziari abbiano ripreso a salire, non c'è alcuna evidenza di una ripresa della crescita in Occidente. Il discorso di Summers è stato ripreso da varie testate economiche (Financial Times, Forbs, e in Italia da Micromega e la Repubblica) oltre che dal premio Nobel Paul Krugman, che già da qualche tempo andava sostenendo tesi assai simili dal suo blog sul New York Times.

Nonostante il discorso di Summers e la conferma di Krugman abbiano ovviamente provocato molte reazioni, le loro affermazioni non hanno ricevuto sostanziali smentite, soprattutto da parte dei responsabili delle istituzioni economiche americane e occidentali. Insomma, la notizia è ufficiale: l'età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia. Come ex-eretico, dunque, sento l'urgenza di intervenire su un tema che avevo anticipato nel mio ultimo libro La grande transizione seppure partendo da premesse molto diverse da quelle di Summers e Krugman.

L'analisi del problema

Chiariamo per cominciare come Summers e Krugman giungono alle loro conclusioni. Va detto innanzitutto che, nonostante qualche cenno al rallentamento dell'innovazione e della crescita demografica, le ragioni profonde del declino delle economie occidentali avanzate restano sullo sfondo. Il punto di partenza di Summers è pragmatico. Poichè i flussi finanziari rappresentano ormai le interconnessioni indispensabili al funzionamento del sistema economico, il collasso della finanza del 2007 ha comportato una sostanziale paralisi del sistema. È un po come se, argomenta Summers, in un sistema urbano venisse d'improvviso a mancare l'80% della corrente elettrica. Tutte le attività ne risulterebbero paralizzate. Quando tuttavia la corrente elettrica viene ripristinata, ci si aspetterebbe un ripresa dell'attività economica su livelli maggiori di quelli anteriori alla crisi: questa ripresa non c'è stata. Come si spiega questa ripresa deludente? Secondo Summers e Krugman, le trasformazioni strutturali del sistema hanno portato il tasso di interesse naturale, cioè il tasso che mantiene in equilibrio i mercati finanziari e garantisce condizioni prossime alla piena occupazione, a divenire stabilmente negativo. Per quanto incredibile possa sembrare, i due grandi economisti ci stanno dicendo che, per convincere le imprese ad investire in misura sufficiente da garantire la piena occupazione, bisognerà non solo offrire loro denaro a costo zero, ma addirittura far sì che possano renderne meno di quanto è stato prestato.

In altre parole, dunque, Summers e Krugman ci stanno dicendo che le condizioni strutturali del sistema economico sono tali per cui le imprese si aspettano mediamente che il valore di ciò che viene prodotto e venduto sia inferiore al costo di produzione (una volta dedotto una sorta di profitto normale). Naturalmente questo potrebbe sembrare un problema innanzitutto delle imprese, se non fosse che viviamo ormai in una “società di mercato” e dunque i redditi nelle loro diverse forme, e con essi la nostra vita materiale in quasi ogni sua forma, dipendono ormai interamente dalla possibilità che la macchina economica continui a funzionare.

mercoledì 22 gennaio 2014

I carri armati nelle banlieues


Ha fatto molto bene Moreno Pasquinelli a prendersi la briga di leggere e esaminare il programma elettorale del Fronte Nazionale francese. Credo ci dia la possibilità di renderci conto di cosa abbiamo a che fare. In questo post avanzerò un'ipotesi su quale siano gli autentici obiettivi di questa forza politica. Come ogni congettura è chiaramente opinabile, e inviatiamo tutti a opinarla nei commenti.

Ai miei occhi è abbastanza evidente una cosa: il cuore del programma di Marine Le Pen non è l'economia, e di conseguenza non è l'euro. Questo potrà apparire piuttosto azzardato a molti lettori. Dopotutto, nel nostro angolo di blogosfera si sta sviluppando, da mesi, un acceso dibattito sull'opportunità o meno di sostenere questa forza politica. Trattandosi di un dibattito tra elettori italiani la discussione ha come oggetto, in pratica, l'espressione di un moto di simpatia (o di avversione). Nell'ambito di tale discussione, e nella stragrande maggioranza dei casi, le simpatie al FN sono determinate dalla dichiarata ostilità all'euro e alla UE tipiche di questo partito. Anche persone con un trascorso di sinistra, convinte che l'euro sia la questione essenziale e dirimente dei nostri tempi, sono ora pronti a “sostenere” (virtualmente) Le Pen in virtù delle sue posizioni economiche. Ora, la mia ipotesi parte dall'assunzione che, tra i veri elettori potenziali del FN, e cioè tra i cittadini francesi, che parlano il francese e che seguono quotidiniamente la vita politica di quel paese, non sia la posizione sull'euro quella che genera consenso, e che la stessa Marine Le Pen non si aspetti di essere votata principalmente in virtù di tale posizione. 

Facciamo per un attimo astrazione dalla questione dell'euro. L'insieme del programma economico che stiamo esaminando è correttamente inserito da Pasquinelli nel filone del keynesismo moderato. Esso non implica scelte molto rivoluzionarie, specie se teniamo presente il contesto sociale nel quale è calato: in Francia l'intervento dello Stato nell'economia è una realtà ben viva e operante, lo stato sociale francese è con tutta probabilità il più avanzato tra quelli dei grandi paesi europei, e le misure protezionistiche non sono certo un fenomeno inedito nel panorama politico d'Oltralpe (basta pensare al complesso di tutele di cui gode in Francia il settore agricolo). A colpo d'occhio, buona parte di queste misure sono attuabili già oggi, a Trattati vigenti. Nulla di sensazionale, e sopratutto nulla che possa scatenare ondate di consenso.

A mio avviso il vero fulcro della proposta politica del FN, il motivo per cui i francesi lo votano, si ritrova nella seconda parte dell'articolo di Pasquinelli, quando il nostro passa in rassegna le proposte di riforma nell'ambito del diritto penale. Mi spiego meglio.
Cio che rende popolare l'opzione FN nell'elettorato francese è il richiamo all'identità nazionale. In un mondo in cui si sono smarriti molti dei tradizionali punti di riferimento, l'Idea di Francia può rappresentare un valido “ancoraggio” per molte persone.
Come si realizza l'Idea? Con scelte concrete che riaffermino il potere dell'ente che la incarna, lo Stato. Lo Stato riafferma la sua sovranità in primo luogo mostrando la sua efficiacia punitiva. Se il tipico programma liberista consiste nel sostituire lo Stato Sociale con quello Penale, Le Pen vuole tener fermo il primo ed espandere enormemente il secondo. Non è contraddittorio: è la tradizione dei fascismi1.

martedì 21 gennaio 2014

Repetita iuvant

Ci sarebbero ovviamente molte cose da dire sull'accordo Renzi-Berlusconi. Per cominciare vi proponiamo l'analisi di Mazzei. Aggiungo solo un'osservazione, che probabilmente è una banalità per  i lettori di questo blog. Ma a volte è bene ripetere le banalità. La vicenda dimostra infatti, per l'ennesima volta, la totale insensatezza del pensare la politica italiana nei termini dello scontro berlusconiani/antiberlusconiani, con i correlati deliri tipici dei fan dell'uno o dell'altro campo (gli uni che insorgono contro il pericolo reazionario di Berlusconi, gli altri che chiedono la "pacificazione", come se fosse in corso chissà quale guerra). Se si pensasse in quei termini, infatti, la mossa di Renzi sarebbe incomprensibile: egli affronta il pericolo di spaccature nel suo partito, e di disaffezione almeno di una parte del suo elettorato, per cercare un accordo la cui conseguenza politica, compresa da tutti, è la rilegittimazione di Berlusconi come polo fondamentale della politica italiana. Renzi, che sarebbe il rappresentante degli antiberlusconiani, ha cioè compiuto il miracolo politico di trasformare un pregiudicato in uno statista. Tutto questo sarebbe assurdo e incomprensibile se fosse vero quello che da vent'anni ci raccontano a proposito della politica italiana: lo scontro frontale fra destra e sinistra, le profonde contrapposizioni ideologiche e via favoleggiando. Ovviamente è tutto falso, e la verità della politica italiana è quella di una ininterrotta guerra di bande di gangster intenti a depredare il paese e a scontrarsi o accordarsi a seconda delle convenienze immediate. Queste bande di gangster non possono dire, ovviamente, come stanno le cose, e allora nascondono i loro scontri per il potere e i soldi dietro a lontane genealogie ideali, dietro a tradizioni (la destra, la sinistra, il fascismo, l'antifascismo) delle quali nulla capiscono.
Tutto questo lo sapevamo già, ma è bene ribadirlo di fronte a conferme così evidenti.
(M.B.)













domenica 19 gennaio 2014

Il Trattato transatlantico

Mi sembra si discuta poco delle trattative attualmente in corso per la creazione di una zona di libero scambio USA-UE. Sull'argomento segnalo questo articolo di Lori Wallach, dall'edizione italiana di "Le Monde Diplomatique".
(M.B.)





giovedì 16 gennaio 2014

Al voto, al voto!

Attraversiamo una situazione paradossale, nella quale il parlamento eletto con una legge incostituzionale vuole intervenire sulla legge divenuta (dopo l'intervento della Consulta) costituzionalmente compatibile; e lo vuol fare aggiungendo meccanismi distorsivi del voto dei cittadini, del tutto analoghi a quelli censurati dalla Corte costituzionale. Distorsivi al punto tale da poter predeterminare l'esito delle votazioni, a seconda di quale sistema si adotta: ammirate lo sfacelo.
Bisogna opporsi a tutto questo, e mandare all'aria il progetto di tornare a una qualche forma di maggioritario, manovra che spiana la strada all'attacco finale contro la Carta Costituzionale. Le camere devono essere sciolte al più presto, restituendo voce ai cittadini, che si potranno finalmente esprimere attraverso una legge decente. In questo senso vi invitiamo alla lettura di un ottimo pezzo di Leonardo Mazzei.

LA LEGGE C'È: AL VOTO SUBITO COL PROPORZIONALE (rivolto in particolare agli amici di M5S)

 

Leonardo Mazzei- 15 gennaio. Il Porcellum non c'è più. Al suo posto abbiamo una legge proporzionale, senza premio di maggioranza. 

Si può dunque andare al voto subito con una legge che, sebbene non perfetta (restano infatti le soglie di sbarramento), è comunque la più democratica in vigore dal 1993. 

Se il ritorno ad un sistema proporzionale terrorizza i partiti del sistema, non si capisce perché chi vi si oppone non impugni da subito quest'arma potentissima consegnataci dalla sentenza della Corte Costituzionale (nella foto), le cui motivazioni sono state rese pubbliche ieri.

Non torneremo qui nei particolari dei vari sistemi elettorali, limitandoci invece ad un breve ragionamento politico. In sostanza la Consulta ha bocciato l'idea maggioritaria su cui si è fondato per vent'anni il bipolarismo. Secondo questa concezione il voto deve produrre "governabilità" non rappresentanza. La Corte ha invece stabilito che non può esservi distorsione - o perlomeno "distorsione eccessiva" - del principio democratico della rappresentanza.

Certo, le motivazioni di questa sentenza lasciano aperta la porta a nuove distorsioni di quel principio, purché meglio architettate (sistema spagnolo, eccetera). Ma la centralità del concetto di rappresentanza è stata ripristinata.

Naturalmente i principali partiti, il sistema castale dell'attuale nomenclatura, i mezzi di comunicazione al loro servizio con i relativi opinion maker, si sgolano per dire tre cose: che bisogna fare al più presto una nuova legge elettorale, che questa dovrà essere in ogni caso maggioritaria e bipolare, che è proprio questo l'auspicio della Consulta.

Affermazioni non si sa se più arroganti o più false. La falsità sta nel voler ignorare che una legge c'è, ma anche nel forzare a più non posso le argomentazioni della sentenza. Argomentazioni dal nostro punto di vista assai discutibili in alcuni passaggi, ma comunque non forzabili al punto da rendere ora legittimo un nuovo premio di maggioranza che sostituisca quello vecchio (e dichiarato illegittimo) della legge calderoliana.

L'arroganza, sia politica che giuridica, sta nel voler riproporre - addirittura in forma ancor più accentuata - quel sistema maggioritario che ha prodotto un bipolarismo in cui ormai si riconosce soltanto una minoranza degli elettori. Un sistema bocciato clamorosamente alle elezioni del febbraio 2013.

In questa fiera della sfrontatezza, cui partecipano tutte le forze di governo, ma anche il partito berlusconiano, il primo premio va certamente a Matteo Renzi, di cui ci siamo già occupati in un altro articolo.

Ora, però, è il momento di venire all'opposizione. E cioè al M5S, visto che non possiamo considerare opposizione quella di Sel, un piccolo partito personale dell'amico di Archinà, che da sempre si muove come corrente (per adesso) esterna del Pd.

E' il momento che M5S prenda una posizione chiara. Ci è infatti capitato di sentir dire, ad alcuni suoi esponenti, che solo il ritorno al Mattarellum sarebbe legittimo, in quanto ultima legge elettorale fatta da un parlamento legittimo. E' questo un ragionamento che fa acqua da tutte le parti.

Intanto, come abbiamo tante volte dimostrato, quello del Mattarellum è un sistema potenzialmente ancor più distorsivo del principio della rappresentanza democratica. In secondo luogo, il criterio della legittimità di questo o quel parlamento ci porterebbe in un ginepraio inestricabile, altro non fosse che per la banale considerazione che anche il Porcellum è stato varato da un parlamento eletto col Mattarellum...

D'altronde, il ritorno al Mattarellum potrebbe avvenire solo ad opera di questo parlamento, che M5S considera illegittimo. Come afferma giustamente Aldo Giannuli sul blog di Beppe Grillo, ogni ipotesi di "reviviscenza" del Mattarellum è infatti esclusa dalla sentenza della Corte, ma non poteva essere altrimenti dato che «la categoria di "reviviscenza" da un punto di vista giuridico non esiste».

Dunque di che parliamo? Da un punto di vista democratico il Mattarellum è anche peggio del Porcellum appena cassato dalla Consulta, la sua reintroduzione potrebbe avvenire solo con l'ennesimo pastrocchio delle forze sistemiche, ed in particolare con un accordo Renzi-Berlusconi. Se reintrodotto, quel sistema - data la forte personalizzazione del voto che comporta - avrebbe il sicuro effetto di falcidiare proprio la rappresentanza parlamentare di M5S. Inoltre, la nuova legge richiederebbe comunque tempo, mentre invece M5S dice giustamente che bisogna mandare a casa questo parlamento il prima possibile.

Occorre allora una posizione chiara e conseguente: tornare a votare subito con la legge appena ridisegnata dalla Corte Costituzionale. Questo intanto toglierebbe di mezzo i parlamentari abusivi, quelli entrati alla Camera ed al Senato solo grazie al premio di maggioranza. Poi costringerebbe le forze politiche a fare i conti con la loro forza reale, non con quella gonfiata dai meccanismi truffaldini del maggioritario.

Sarebbe la vera fine del bipolarismo e l'apertura di una nuova stagione politica, che è poi quel che teme la casta che M5S dice di voler abbattere. L'unica strada per sbaragliare l'attuale classe politica è dunque quella di fare propria la legge così come uscita dalla Consulta, quella legge proporzionale che Renzi, Letta, Berlusconi e Napolitano proprio non vogliono. E non per caso.

martedì 14 gennaio 2014

Il maggioritario è incostituzionale?

Sono state finalmente depositate le motivazioni della sentenza con cui la Corte Costituzionale ha stravolto l'impianto della legge elettorale comunemente conosciuta come "Porcellum". Esse contengono molti spunti interessanti, anche sotto il profilo tecnico. Ma concentriamoci sul quel che è più importante. L'Italia è in questo momento dotata di una legge elettorale compatibile con la Costituzione. La normativa che resta in vigore per effetto della dichiarata illegittimità costituzionale delle disposizioni oggetto delle questioni sollevate dalla Corte di cassazione è «complessivamente idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo, afferma il testo. A giudizio di chi scrive è la migliore legge in vigore dai tempi del '93, ma soprassediamo. Nelle prossime consultazioni elettorali, non ci sarà una forza politica con il 29% che prende il 55% dei seggi della Camera; né si creerà più il caos inverecondo che ha caratterizzato la composizione del Senato degli ultimi anni, con l'incrocio di venti diversi premi regionali. Inoltre, sarà possibile per gli elettori esprimere almeno una preferenza personale per i candidati presenti nelle liste elettorali, con tutte le complesse questioni che tale fenomeno pone.

È molto interessante osservare quali siano i principi che la Corte pone alla base del proprio giudizio: quello dell'eguaglianza, riconosciuto dall'art. 3 della Costituzione, e quello di sovranità popolare, contenuto nell'art. 1 Cost. Tali principi conoscono dei logici corollari all'art. 48 e 67: il voto deve essere personale, libero ed eguale, e il parlamento deve rappresentare la nazione. I voti della lista che conquista la maggioranza assoluta dei seggi dell'assemblea, semplicemente prendendo un suffragio in più delle altre, non sono uguali ai voti che vanno alle liste che vedono ridimensionate le proprie quote di assemblea al fine di formare il premio di maggioranza per la vincente. Inoltre, un'assemblea la cui composizione non riflette in maniera fedele quella dell'elettorato non può certo dirsi effettivamente rappresentativa della nazione.

Tutte considerazioni ampiamente condivisibili, ovviamente. Se si dovesse individuare un limite della decisione, lo si dovrebbe individuare nel concetto di "soglia minima" elaborato dalla Corte per "salvare" la discrezionalità del legislatore. 
 Spiego meglio: la discrezionalità del legislatore, sulla quale la Corte non può incidere più di tanto perché non è un organo democratico rappresentativo, può anche produrre situazioni che non rispettano in maniera rigorosa il principio di eguaglianza di cui all'art. 3. Ci potrebbero tuttavia essere delle ragioni serie dietro a quel mancato rispetto: è il caso ad esempio delle discriminazioni positive, che istituiscono delle diseguaglianze nell'interesse di soggetti deboli (ad esempio: trattamenti di favore per i membri di minoranze etnico-linguistiche). In materia elettorale: si potrebbe pensare di sacrificare parte dell'eguaglianza nel voto per acquisire maggiore governabilità. La Corte ammette tali discriminazioni, purché siano ragionevoli: finalizzate alla tutela di un valore fondamentale, e non sproporzionate.
Il principio di ragionevolezza nella materia elettorale trova una concretizzazione nel concetto di soglia minima. Se vi è la soglia minima è ragionevole attribuire un premio di maggioranza ad una lista.
Si pongono allora tre questioni:

1) mentre i principi dell'eguaglianza del voto e della corretta rappresentanza nazionale sono esplicitamente riconosciuti dalla Costituzione, analogo trattamento non è riservato al fumoso concetto di "governabilità". In qualsiasi giudizio di bilanciamento tra i diversi principi, quest'ultimo non dovrebbe mai "pesare" nella stessa misura degli altri due;

2) il problema del rispetto della discrezionalità del legislatore è accentuato, e non risolto, nella indicazione della necessità della soglia minima. Tale soglia dovrebbe essere stabilita dal legislatore. Ma se viene stabilita in misura irragionevole? È probabile che una soglia del 40% (non molto incisiva, dunque) supererebbe lo scrutinio di ragionevolezza. Ma una del 25? L'indicazione di una soglia costringerebbe la Corte, un domani, a ragionare sui numeri posti dal legislatore, dando luogo a una situazione di tensione istituzionale. 

3) Se si segue il ragionamento della Corte, si arriva a dire che il sistema maggioritario articolato in collegi uninominali (siano essi a doppio turno o meno) è del tutto incompatibile con la Costituzione. Esso produce il massimo della distorsione, non garantisce la rappresentanza delle minoranze, e non può essere corretto nemmeno con l'indicazione di una soglia minima (come qui dimostrato).

Ci auguriamo che su queste cose riflettano gli ingenui (?) nostalgici del Mattarellum. (C.M.)

lunedì 13 gennaio 2014

Favilli su Rifondazione

La situazione in cui si trova il nostra paese pone con forza  quello che ci appare come un compito fondamentale: la creazione di una forza politica che sappia contrastare il degrado cui l’intera storia recente ha portato il nostro paese, combattendo in modo intransigente la casta politica che di questo degrado è responsabile e garante. La crisi attuale è drammatica per tanti motivi, ma uno dei principali è proprio la mancanza di una tale forza. I tentativi in questa direzione si sono succeduti all’infinito, negli ultimi anni (e anzi negli ultimi decenni). I risultati sono sempre stati deludenti. Il Movimento di Grillo è riuscito a raccogliere un successo elettorale eccezionale, ma la sua azione non sembra per il momento all'altezza dei problemi che abbiamo di fronte.
E’ evidente che c’è bisogno di riflettere sui motivi dell'incapacità, da parte degli oppositori allo stato di cose presenti, di trasformare il disagio e la rabbia, che sempre più chiaramente bruciano le fondamenta del paese, in azione politica capace di incidere sulla realtà. Per questa riflessione occorre naturalmente comprendere meglio la natura del Movimento 5 Stelle o fenomeni come quello del "movimento dei forconi", ma occorre anche approfondire la storia di altre formazioni politiche che avevano, almeno potenzialmente, la capacità di costituire poli di aggregazione del disagio e dell’opposizione nei confronti dell’attuale realtà economica e sociale. Il primo esempio che viene in mente è naturalmente quello del Partito della Rifondazione Comunista, un Partito nato circa vent’anni fa con grandi ambizioni, che è riuscito in certe fasi della storia recente ad avere un seguito e un peso politico non trascurabili, e che però negli ultimi anni è entrato in una crisi molto seria, perdendo consenso, visibilità e rilevanza politica.
Una buona occasione per riflettere su questa storia è data dal libro che Paolo Favilli, studioso della storia del marxismo e del movimento operaio, ha dedicato alla storia di Rifondazione (P. Favilli, In direzione ostinata e contraria, DeriveApprodi 2011). Favilli è, nello stesso tempo, uno studioso accademico di storia contemporanea e un militante di Rifondazione, e quindi il suo accingersi ad un'opera del genere appare quasi una predestinazione. Il libro vuole rivolgersi a tutti coloro che sono interessati ad una ipotesi di trasformazione radicale dello “stato esistente delle cose”, ed è quindi agile e gradevole, senza rinunciare in nulla al rigore professionale dello storico. E' interessante prendere spunto da un tale testo proprio perché esso non nasce da un puro intento scientifico di ricostruzione dei fatti, ma piuttosto dall'esigenza di riflettere sugli errori e i fallimenti del passato, per tentare di mantenere aperti gli spazi politici e sociali di una alternativa al presente. Vale dunque la pena di provare ad interrogare questo testo e di discutere le sue risposte alla domanda fondamentale: perché quel tentativo è fallito? Cosa non ha funzionato, nella storia del Partito della Rifondazione Comunista? Si tratta di questioni che nel libro di Favilli non sono poste esplicitamente, ma lo attraversano in maniera più o meno sotterranea. Anche le risposte ad esse non vengono esplicitate in un luogo preciso, ma si possono ricavare da ciò che Favilli ci dice sui punti di forza e di debolezza del PRC. I punti di debolezza del partito, che alla lunga lo hanno portato all'esito attuale, sembrano individuati da Favilli in una combinazione di fattori interni ed esterni. Fra i primi è fondamentale la struttura bipolare che la politica italiana si è data dopo Tangentopoli: si tratta di una situazione nella quale un partito come Rifondazione corre continuamente il rischio di essere schiacciato su uno dei due poli. Non c'è dubbio, infatti, che il bipolarismo e la divisione degli italiani fra berlusconiani e antiberlusconiani hanno contribuito a togliere spazi di autonomia politica ad un partito come Rifondazione.

venerdì 10 gennaio 2014

Esposito sul neoliberismo

Segnalo un articolo di Roberto Esposito su "Repubblica" di qualche giorno fa. Mi sembra interessante soprattutto il passaggio sul fatto che il neoliberismo, nel giro di pochi decenni, ha plasmato l'intera società. E' un'osservazione che vanno facendo in molti, usando magari linguaggi diversi. Assieme a Massimo Bontempelli, io ho parlato in vari scritti di "capitalismo assoluto". Qualunque sia l'espressione usata, si tratta a mio avviso del punto di partenza per iniziare a capire come mai l'attacco dei ceti dominanti ai diritti, ai redditi, alla democrazia, incontri così scarsa resistenza da parte dei ceti subalterni.
(M.B.)

mercoledì 8 gennaio 2014

Elezioni europee/1

Si avvicinano le elezioni europee e si moltiplicano le iniziative della sinistra doc per formare una lista elettorale. Di alcune di queste iniziative ha già riferito Leonardo Mazzei.
I lettori possono immaginare la nostra opinione a riguardo: si tratta di iniziative meramente  elettorali basate sul nulla. Il nulla in questione è l'idea di una Europa democratica, solidale, antiliberista. Un'idea priva di qualsiasi fondamento nella realtà contemporanea, di qualsiasi prospettiva concreta. L'unico risultato che questo tipo di iniziative possono ottenere, indipendentemente dalla coscienza che ne hanno militanti ed elettori, è quello di tenere a bada alcune fasce sociali che senza le ninna-nanne di sinistra potrebbero magari svegliarsi e ribellarsi. E' tutto ciò che, nei decenni passati, ha realmente fatto la sinistra radicale in Italia.
Un buon modo per rendersi conto di tutto ciò è l'esame del vuoto intellettuale che sta dietro a questo tipo di posizioni. Un esempio fra i tanti è  questo appello pubblicato sulla rivista “alfabeta2”.
Fin dalla prima lettura appare un dato macroscopico: in un appello dedicato all'Europa, ai suoi problemi, alle future elezioni, non compaiono mai le espressioni “Unione Europea” ed “euro”. Al massimo si arriva a parlare di “Unione”, ma di UE no, l'autore proprio non ce la fa. E non si tratta di un lapsus, ovviamente. Ma di una precisa scelta di lettura della realtà. Tale scelta la si capisce bene se si guarda alla ricostruzione del passato fatta dall'autore. Egli nota come l'attacco ai diritti e alla democrazia sia stato acuito dalla crisi economica degli ultimi anni, e sottolinea come l'attuale "Europa" (ma intende la UE, ovviamente) si contrapponga alle linee ispiratrici europee del trentennio 1950-fine anni Settanta, “quando la politica aveva cercato di democratizzare il capitalismo.” S'impone allora la domanda: cos'è successo fra la fine degli anni Settanta e il 2007/08, quando inizia la crisi attuale? La risposta a questa domanda cruciale è che nei “maledetti trent'anni successivi” si impone il “neoliberismo” che attacca la democrazia sostanziale. È un punto davvero centrale, e occorre sottolinearlo, perché è in passaggi come questi che sta tutta la differenza fra una analisi intellettualmente rigorosa e la fuffa. Una fuffa nella quale naturalmente si può citare la “baumaniana modernità liquida”, oppure la “jüngeriana mobilitazione totale”, oppure il “meta-nichilismo implicito nel tecno-capitalismo”: tutti ingredienti che servono a insaporire il nulla. Parlar male del “capitalismo” o del “neoliberismo” fa fine e non impegna. Il punto, se si è seri, è capire che “capitalismo” e “neoliberismo” sono astrazioni, e quello che succede nella realtà di un Paese, di una società, non consiste nel fatto che a un certo punto arriva il signor Neoliberismo e toglie le pensioni. Succede che i ceti dirigenti fanno determinate scelte politiche, economiche, istituzionali che hanno determinate conseguenze sulla vita delle persone concrete, e il cui insieme configura una linea di tendenza che chiamiamo, perché no?, “neoliberismo”. Ma è di queste scelte, di queste costruzioni istituzionali che bisogna parlare, se si vuole attaccare il “neoliberismo” nella sua realtà effettuale. Qual è allora la vera risposta alla domanda fondamentale che abbiamo sopra enunciata? Cosa succede in Europa fra la fine degli anni Settanta e la crisi del 2007/08? Succede che le oligarchie europee decidono, fra le altre cose, la creazione dell'Unione Europea e più tardi dell'euro, e in questo modo realizzano appunto quel passaggio al neoliberismo che Demichelis astrattamente deplora. La conseguenza di questa semplice verità è, ovviamente, che la "lotta contro il neoliberismo" non può che essere (anche) la lotta contro UE ed euro. E allora dovrebbe essere chiaro, a questo punto, perché Demichelis dimentichi di nominare UE ed euro e la loro creazione: perché egli è un buon rappresentante di quella sinistra che, radicale a parole, non può e non vuole rompere i ponti con le oligarchie europee, nella loro versione “di sinistra”, e quindi non vuole e non può mettere in questione euro e UE. 
Chi critica il neoliberismo e i suoi guasti nei paesi europei ma non nomina né l'UE né l'euro sta semplicemente friggendo l'aria. E se lo scopo di questa frittura è la proposta di una lista per le elezioni, sappiamo già in anticipo a cosa tutto questo porterà: a qualche ammucchiata di declamatori che produrranno un po' di discorsi radicali seduti sui loro scranni parlamentari. Che è stato, concretamente, il ruolo della “sinistra radicale”, annessi e connessi, nei due decenni in cui è esistita. Non c'è davvero niente da aggiungere a quanto abbiamo scritto più volte in questo blog e altrove. Abbiamo già dato.
(M.B.)

sabato 4 gennaio 2014

Screpanti su imperialismo e crisi

Ernesto Screpanti, L'imperialismo globale e la grande crisi

(liberamente scaricabile all'indirizzo
http://www.deps.unisi.it/it/ricerca/pubblicazioni-deps/collana-del-dipartimento/14-limperialismo-globale-e-la-grande-crisi  )


Ripubblico qui una mia recensione al libro di Screpanti apparsa nell'ultimo numero di "Alternative per il socialismo" (n.29, dicembre 13-gennaio 14, pagg.207-209). Aggiungo alla fine della recensione ulteriori brevi considerazioni che per motivi di spazio non ho potuto inserire nella recensione stessa.
(M.B.)


Ernesto Screpanti ha scritto un testo ambizioso ed estremamente ricco, che suggerisce molti sentieri di indagine. Al suo interno si possono trovare, fra le altre cose, una discussione delle teorie moderne dell'imperialismo, una ricostruzione/interpretazione della recente crisi economica (nei suoi aspetti sia fenomenici sia sostanziali), una accurata critica di alcuni dei luoghi comuni del “pensiero unico” neoliberista.
Nell'impossibilità di approfondire tutti questi aspetti, cerchiamo di evidenziare la tesi centrale del libro. Essa è apertamente dichiarata dall'autore: si tratta del fatto che “con la globalizzazione contemporanea sta prendendo forma un tipo d’imperialismo che è fondamentalmente diverso da quello affermatosi nell’Ottocento e nel Novecento” (pag. 7). Screpanti individua vari aspetti di questa novità dell'attuale “imperialismo globale”. La principale innovazione, fra quelle individuate da Screpanti, mi sembra essere il venir meno del legame fra capitalismo e Stato-nazione. Il grande capitale si pone al disopra dello Stato nazionale, e ha con esso una relazione strumentale ma anche conflittuale. Cerchiamo di capire entrambi i lati di questo rapporto. Il rapporto è strumentale in quanto il capitale cerca pur sempre di piegare lo Stato ai propri interessi.  Gli Stati hanno ancora delle funzioni importanti da svolgere, nello schema teorico proposto da Screpanti. Si tratta della funzione di banchiere globale (colui che produce “moneta internazionale in quantità crescente, in modo da sostenere un continuo aumento del volume delle transazioni reali e finanziarie”, pag.82), di motore dell'accumulazione globale (“una grande economia nazionale capace di trascinare, con le proprie importazioni, le esportazioni e la produzione di tutti i paesi“, ibidem) e di sceriffo globale (“per far sì che i processi bellici servano a sottomettere i paesi periferici recalcitranti alla penetrazione del capitale senza acuire le rivalità tra i paesi avanzati, è necessario che le forze armate di un paese dominante abbiano sviluppato una potenza tale da scoraggiare ogni velleità vetero-imperiale degli altri paesi”, ibidem). Gli USA hanno assolto queste tre funzioni per tutta una fase storica, e appare facile capire, come Screpanti sottolinea, che le sempre maggiori difficoltà incontrate dal paese egemone nell'assolverle sono una della radici profonde delle tensioni geopolitiche attuali.
Nell'analisi di Screpanti il grande capitale utilizza i grandi Stati-nazione essenzialmente per assolvere queste funzioni. Non si ha dunque, nella sua impostazione, la dissoluzione degli Stati ad opera di un Impero mondiale. Si ha però, come abbiamo detto, un rapporto conflittuale.  Infatti, nel nuovo capitalismo globale “i soggetti dominanti sono le grandi imprese multinazionali e le leggi di regolazione dell’equilibrio sociale sono quelle del mercato” (pag.231). Ma questa realtà si rivela incompatibile con il ruolo di “capitalista collettivo nazionale” svolto in passato dallo Stato-nazione, ruolo che implica qualche tipo di compromesso di classe fra ceti dominanti e ceti subalterni. L'esempio ovvio è rappresentato dalla fase “keynesiano-fordista” del secondo dopoguerra. La crisi del “compromesso fordista”, che si protrae lungo gli anni Settanta del Novecento, porta alla configurazione attuale del capitalismo “globalizzato”, nel quale la libera circolazione dei capitali e la concorrenza di tutti contro tutti nel mondo del lavoro hanno come inevitabile conseguenza l'abbattimento di tutte le conquiste ottenute dai ceti subalterni nella fase “keynesiano-fordista”. Ma con la riduzione della quota-salari nei paesi avanzati si abbatte la domanda aggregata e quindi, secondo le classiche analisi keynesiane, si deprime l'economia.