lunedì 29 luglio 2013

E' estate

Il blog va in vacanza fino a settembre. Fino ad allora verrà aggiornato saltuariamente.

venerdì 26 luglio 2013

Amici del futuro (e un'appendice su Hayek)

Ne “La lettura”, l'inserto del Corriere della Sera, di domenica scorsa, un articolo di Maurizio Ferrara ci informa su un interessante dibattito, svoltosi recentemente in Germania, fra W. Streeck, affermato sociologo, e J.Habermas, il celebre filosofo. Il primo ha scritto un libro nel quale sostiene, fra l'altro, la necessità di "smantellate" l'euro, il secondo lo ha criticato sulla stampa tedesca. Non leggo il tedesco, quindi non posso discutere le tesi di Habermas. Per fortuna, invece, il libro di Streeck è stato rapidamente tradotto.
Si tratta di un testo di grande interesse. Streeck riesce infatti a offrire una ricostruzione chiara, sintetica e organica di ciò che è successo nei paesi avanzati a partire dalla crisi del keynesismo negli anni Settanta. Dopo aver ricordato rapidamente gli aspetti fondamentali di tale crisi, Streeck discute le varie fasi della risposta neoliberista ad essa. Egli prende in esame quelli che giudica come tentativi per “guadagnare tempo” da parte dei ceti dominanti, come tentativi cioè di mediare fra la necessità di smantellare le strutture dello Stato sociale, che avevano assicurato la pace sociale nel “trentennio dorato”, e la necessità di conservare un minimo di consenso e di coesione sociali. L'inflazione degli anni Settanta, la crescita del debito pubblico negli anni successivi ed infine la finanziarizzazione dell'economia, che ha permesso un indebitamento di massa capace di sostenere almeno in parte i consumi, sono fasi lette da Streeck nel modo che s'è detto. Nel frattempo però si consolidava l'organizzazione istituzionale neoliberista che a poco a poco distruggeva sia i diritti conquistati dai ceti subalterni, sia la democrazia, che viene vista come una fastidiosa ed erronea intromissione nelle leggi dell'economia.
Una delle cose più interessanti di questo libro è che Streeck non ha il minimo dubbio sul fatto che Unione europea ed euro siano semplicemente le forme concrete con cui si attua in Europa la dinamica neoliberista di distruzione dello Stato sociale e della democrazia, come appare evidente da passaggi come questo

chi rifiuta la “globalizzazione” perché essa sottomette il mondo a un'unica legge di mercato, obbligandolo alla convergenza, non può decidere di rimanere ancorato all'euro dato che impone proprio questo modello all'Europa (pag. 215)

o questo

Chiedere di smantellare l'Unione monetaria in quanto progetto di modernizzazione tecnocratica socialmente spericolato, che espropria politicamente e divide economicamente i popoli dello stato che compongono il vero popolo europeo, appare una plausibile risposta democratica alla crisi di legittimazione di cui soffre la politica neoliberista (pag.216)

(per intendere quest'ultima citazione, occorre sapere che per “popolo dello stato” l'autore intende il popolo dei cittadini dello Stato-nazione, contrapposto al “popolo del mercato” che trova il suo piano naturale di azione nella dimensione della finanza globalizzata).

giovedì 25 luglio 2013

Dallo Stato sociale allo Stato penale

Nell'ambito del diritto internazionale si definisce la sovranità come l'elemento giuridico costitutivo di quell'entità che chiamiamo Stato.
 "Sovrano" significa, etimologicamente, "che sta sopra". Per essere precisi, ciò che sta più sopra di tutto. La sovranità è un potere supremo, nel preciso senso che, per definizione, non può riconoscere nulla ad di sopra di sé, pena lo smarrimento della propria natura.
Si usa distinguere tra sovranità interna ed esterna. La prima definisce la relazione tra il potere supremo di cui sopra e i soggetti radicati in un territorio: questi devono essere, appunto, soggetti (sub-iecti) a quello, altrimenti non sussiste sovranità. La seconda invece definisce la relazione tra il potere supremo e gli altri poteri supremi, le altre sovranità. Tra di esse deve essere vigente un rapporto di reciproca indipendenza e autonomia, altrimenti non si può davvero distinguere tra le diverse sovranità.
 La manifestazione più evidente della sovranità esterna è la sovranità militare (con la sua propaggine diplomatica). La sovranità interna è più complessa. Si compone della sovranità politica, della sovranità giurisdizionale, della sovranità amministrativa... ma le due modalità di espressione più evidenti della sovranità interna sono quella economica e quella punitiva.
Con la sovranità economica lo Stato interviene nelle questioni economiche, ridistribuendo ricchezze e redditi tra le classi, dando impulso alla produzione, rimuovendo storture e inefficienza, dirigendo e indirizzando lo sviluppo del sistema.
Con la sovranità punitiva (o penale) lo Stato si arroga il diritto di infliggere sanzioni ai consociati,  privando loro della libertà personale, dei loro beni, in casi estremi della vita stessa.
Non c'è dubbio che la sovranità punitiva sia quella che ha maggiori probabilità di ferire e traumatizzare i consociati. Essa è una manifestazione di forza, e anche quando non trascende in violenza manifesta il volto duro e temibile dello Stato. È senz'altro una forza da mitigare, una prerogativa statale da limitare il più possibile.

Questo in teoria. In pratica, la sovranità punitiva dello Stato non fa che estendersi da almeno trent'anni, in apparente controtendenza con la crisi della sovranità economica. Per rendersi conto della dimensione del fenomeno basta procurarsi Iperincarcerazione, arricchita dalla prefazione di Patrizio Gonnella. Nelle carceri del mondo occidentale assistiamo ad un movimento speculare a quello del Welfare State: più questo si ritira, più quelle si riempono. Siamo ormai passati dallo Stato Sociale allo Stato Penale. E Loiq Wacquant spiega bene il senso del fenomeno: l'espansione carceraria serve da un lato a contenere l'esuberanza degli esiliati dal Welfare State, e dall'altro a rendere appettibile, con l'alternativa della galera, la prospettiva del lavoro precario e sfruttato ai ceti operai e emarginati delle grandi realtà urbane. 

Ovviamente il contesto USA, principale focus dell'opera, ha delle sue specificità introvabili nella situazione europea, non foss'altro per le diverse dimensioni del fenomeno. Ma la tendenza è evidente. Lo sgretolamento della sovranità economica lascia il posto ad un incremento tentacolare della sovranità punitiva. Lo Stato nazionale si lascia svuotare delle sue prerogative in campo economico, ma mantiene saldamente la presa sullo strumento repressivo e carcerario, ponendolo al servizio degli interessi delle élites finanziarie che prosperano su quello svuotamento.

Coloro i quali temono, in buona fede, le manifestazioni più ruvide della sovranità, dovrebbero riflettere su questo fenomeno. La sovranità non viene annientata dalla globalizzazione: cambia solamente di segno. Da strumento della emancipazione dei subalterni diventa mezzo per imprigionarli tra i meccanismi della restaurazione neo-liberale. Riflettano quelli che temono il ritorno sulla scena degli Stati nazionali (come se ne fossero mai usciti): l'alternativa non è tra Stato e non-Stato, ma tra Stato Sociale e Stato Penale. La de-nazionalizzazione porta semplicemente all'esaltazione dell'uno a spese dell'altro.

O riconquistiamo la sovranità economica, ripristinando la rete di sicurezza sociale che impedisce di scivolare nella miseria e nel crimine, oppure non ci sorprendiamo che la sovranità punitiva dilaghi e assuma proporzioni gigantesche. (C.M.)

mercoledì 24 luglio 2013

La sinistra rivelata/5

Con questo post concludo la pubblicazione del capitolo 2 de "La sinistra rivelata". Ricordo che il testo risale al 2007, e che è stato scritto da Massimo Bontempelli e da me.
 Fra pochi giorni, il 31 luglio, saranno due anni che Massimo è mancato. Dopo due anni, ancora non riesco a trovare le parole per spiegare, a chi non l'ha conosciuto, cosa abbia significato, per me e tanti altri, l'incontro con un uomo così eccezionale. Come potesse cambiarti la vita, come potesse aprire la mente e l'anima di chi sceglieva di accogliere quello che aveva da dare. Per questa mia difficoltà, che spero in futuro di superare, ho rinunciato a scrivere qualcosa di più articolato di queste semplici righe. L'unica cosa che riesco a fare, in questo momento, è cercare di allargare la conoscenza delle cose che ha scritto, come appunto i vari testi che ho ripubblicato in questo blog.
(M.B.)


Alla parte precedente


La crisi dello sviluppo come opportunità
Lo sviluppo, cioè l’accumulazione su scala sempre più larga del plusvalore attraverso la crescita ininterrotta del prodotto interno lordo sospinta dalla competizione economica tra le imprese, è in crisi nel mondo. Tale crisi non deriva certo dal fatto che lo sviluppo sommerge il mondo di rifiuti, ne scardina gli equilibri ecologici e ne altera il clima: l’economia odierna è infatti regolata soltanto delle prospettive di profitto a breve termine, che non sono toccate dalle devastazioni biologiche
e antropologiche, e neppure da danni rovinosi sul terreno stesso dell’economia, se essi sono lontani nel futuro. Lo sviluppo è in crisi perché esso produce ormai le condizioni di un suo continuo rallentamento, e le più aspre contraddizioni tra i suoi elementi.
A prima vista, questo quadro può sembrare non conforme alla situazione di fatto. La Cina, che rappresenta un quarto della popolazione mondiale, mantiene da anni un tasso di sviluppo attorno all’8% annuo, che è davvero molto alto. Gli Stati Uniti d’America, il paese di maggior peso nel mondo, hanno avuto nell’età clintoniana un tasso di sviluppo medio del 3,5%, che è ragguardevole [1]. Dopo il forte rallentamento da marzo 2001 al dicembre 2003, lo sviluppo americano ha ripreso slancio. Basta, dunque, per parlare di una crisi dello sviluppo, il fatto che il suo tasso sia inchiodato al 2% in Europa e in America Latina (lo sviluppo praticamente azzerato dell’Africa subsahariana non fa testo, perché quel continente è disertato dagli investitori internazionali)? Oltretutto, anche in queste zone di basso sviluppo vi sono eccezioni: in Europa, ad esempio, l’Irlanda sta da anni mantenendo un ritmo di sviluppo annuo del 6%.
Se però cerchiamo di comprendere ciò che accade al di sotto della superficie dei fenomeni, la crisi dello sviluppo risulta chiara nonostante questi dati. Innanzitutto, se si passa da questi dati frammentati a quelli complessivi dell’intera popolazione mondiale, emerge senza incertezze un progressivo rallentamento dello sviluppo complessivo concomitante alla diffusione del neoliberismo [2]. Per quanto riguarda lo sviluppo prodigioso della Cina, esso risulta meno prodigioso quando si viene a sapere che contabilizza gli incrementi della produzione di merci dell’intero paese ma non i decrementi dei prodotti di sussistenza fuori mercato assai notevoli nella Cina contadina interna. Lo sviluppo della Cina riguarda quindi essenzialmente la Cina marittima, non tutta la Cina con la sua quarta parte della popolazione mondiale.
Soprattutto, poi, è uno sviluppo che ha in se stesso le ragioni di un futuro suo rallentamento in tempi non lunghi [3]. Senza contare che già, così com’è, lo sviluppo della Cina non fa alzare di molto lo sviluppo complessivo mondiale, perché da un lato lo incrementa con i suoi incrementi di prodotto, ma da un altro lo frena con le sue esportazioni che riducono spazi di mercato per altri, e con le sue domande energetiche che rialzano il costo dell’uso di energia della produzione mondiale. Per
quanto riguarda lo sviluppo degli Stati Uniti, si tratta ormai di uno sviluppo parassitario, il cui parassitismo, sostenuto da una potenza militare e politica prevalente su ogni altro paese, consiste nel fatto che la sua condizione è il rallentamento dello sviluppo di altre aree del mondo, e cioè dell’Europa, dell’America Latina e dell’Asia orientale. La politica monetaria costantemente restrittiva della Banca centrale europea, sulla base dei famosi parametri di Maastricht, rallentando
lo sviluppo europeo con una domanda interna insufficiente ad alimentarlo, è la condizione dello sviluppo americano. Una maggiore circolazione monetaria in Europa, se da un lato promuoverebbe lo sviluppo dell’Europa stessa, dall’altro ne svaluterebbe la moneta rispetto al dollaro, facendo collassare l’economia americana sotto il peso del suo gigantesco deficit commerciale con l’estero. Proviamo a capire meglio.

martedì 23 luglio 2013

Il rischio connesso ad avere Cècile Kyenge come ministro


 Manifesto elettorale del Fronte Nazionale. Questo partito salda in maniera efficace la polemica contro l'austerità economica e la difesa dei ceti operai con l'affermazione di valori razzisti e omofobi.

La scelta di nominare Cecile Kyenge come ministro all'integrazione non dovrebbe essere giudicata, di per sé sola, negativamente*.

A parere di chi scrive, nemmeno l'idea di introdurre anche in Italia una forma di Ius Soli, pur temperata, sarebbe da rigettare, se il contesto dell'Unione europea ce lo permettesse**.

Il sottoscritto è d'altronde convinto che l'immigrazione non sia un fenomeno negativo, da contrastare, e che di solito chi vi polemizza contro è animato da sentimenti genuinamente razzisti (prova ne sia la classica excusatio non petita che, immancabilmente, apre simili discorsi: "io non sono razzista, MA...").

Detto ciò, affermo che la presenza di Cecile Kyenge nella compagine governativa può rappresentare un gravissimo pericolo proprio per i valori che si vorrebbero affermare con quella presenza.

lunedì 22 luglio 2013

Purtroppo Casaleggio non è un comico

L'intervista del leader del M5S Gianroberto Casaleggio, resa al giornalista Nuzzi, non può che lasciare delusi molti di quelli che hanno riposto, e ripongono ancora,  speranze nell'irruzione del movimento sulla scena politica. Su questo blog non abbiamo risparmiato osservazioni e critiche al M5S (ad esempio qui, oppure qui), sempre nell'ottica che questo rappresentasse un interlocutore, e comunque una realtà con cui fare i conti. Tra i limiti del movimento che emergono nell'intervista si possono annoverare la volontà di introdurre l'elezione diretta del candidato su base circoscrizionale (un modo elegante per riferirsi al maggioritario uninominale), e la diffusione di messaggi che lasciano alquanto perplessi ("A me non interessa la politica, a me interessa l’opinione pubblica" e amenità del genere). Ma non è questo che lascia quasi sconcertati dell'intervista, bensì il seguente passaggio: 

Nuzzi: I limiti di Napolitano?
Casaleggio: Credo soprattutto l’età e poi il fatto che insieme a molte altre persone che oggi sono in politica è in politica da molti anni. 

Il fondatore del maggior movimento di opposizione in Italia si trova a dovere dare un giudizio sul Presidente eversore della Costituzione, e non trova di meglio che denunciarne il dato anagrafico.

Una frase a suo modo illuminante. Si può pensare ad una battuta. Putroppo Casaleggio, a differenza di Grillo, non è un comico. (C.M.)

domenica 21 luglio 2013

Sinistre che ragionano e sinistre che sragionano

E' opinione diffusa che del crollo dell'euro si avvantaggeranno in termini politici soltanto le destre, meglio se estreme. Tale risultato non era scontato, e lo si sarebbe scongiurato se solo le varie sinistre europee si fossero decise a dire la verità e a difendere gli interessi dei loro ceti di riferimento. Non lo hanno fatto, e forse è ormai troppo tardi. Questo è stato il tipo di ragionamento diffusa a sinistra negli ultimi anni. Ammesso che qualcosa che tenda a ridurre tutto il dibattito a una scelta tra Martin Schulz e Viktor Orban sia assimilabile ad un ragionamento. Il peana finale al PSE non deve far sorridere, perché è perfettamente coerente con i presupposti teorici del discorso. Non bisogna dimenticare che prima di trasformarsi in agenzia di collocamento di funzionari delle grandi banche d'affari la Socialdemocrazia era una forza politica di ispirazione marxista. Secondo una nutrita branca di questa scuola di pensiero, il progresso dell'intera società coincide, prima dell'inevitabile approdo socialista, con il progresso dello sviluppo capitalistico. Ne deriva una visione meccanicistica dei rapporti sociali e politici, per la quale a un certo grado di sviluppo delle forze produttive deve corrispondere un certo ordine di rapporti sociali. Ciò emerge con evidenza nel discorso di Achilli: siccome (a suo dire) oggi le imprese per fare investimenti profittevoli devono raggiungere certe dimensioni di scala, e queste si ottengono solo operando mercati di dimensioni sempre più grandi, allora fa parte del progresso della società la costruzione di mercati sempre più grandi; quindi bisogna difendere l'UE (che è innanzitutto un grande mercato). Come dire, c'è una logica in questa follia.

Gli unici marxisti "di successo" della storia sono esattamente quelli che hanno negato tale dinamica meccanicistica, anteponendo la sfera delle decisioni politiche a quella dei meri rapporti di produzione come vero "motore" della dinamica storica. A chi sosteneva che una rivoluzione in Russia era possibile solo dopo che le forze produttive (capitalistiche) avessero raggiunto un certo livello di sviluppo, e che perciò questo sviluppo era da assecondare pedissequamente, Lenin affermava che l'unico vero requisito della rivoluzione era la presenza di un partito politico in grado di entrare in sintonia con le masse, di difenderne le istanze fondamentali, di rappresentarle. Per aversi questo, è indispensabile coltivare un punto di vista autonomo sulle dinamiche sociali, che non sia subalterno a (e in sostanza determinato da) quelle del capitalismo.

Un buon esempio è questo articolo, nel quale oltre a denunciare la minaccia rappresentata dall'accordo di libero scambio USA-UE (lo avevamo già fatto qui), si riconosce chiaramente la natura "imperialista" dell'aggregazione europea, tappa della costruzione di un "polo occidentale" che contrasti e combatta contro le potenze emergenti. In questa posizione si trova l'esortazione a difendere gli interessi dei ceti popolari contro ciò che li minacca (oggi l'euro, domani l'euro e l'accordo di libero scambio), senza soffermarsi su fantasmagorie geopolitiche e pseudo-economiche tese a dimostrare che ormai non c'è alternativa all'UE.
Ritornando a coltivare un proprio punto di vista, libero da condizionamenti, la sinistra può (forse) tornare a fare politica. Fare politica significa catalizzare le istanze dei propri rappresentati con proposte valide per l'intera società. Se vuole svolgere un qualche ruolo, la sinistra dovrà spiegare con cosa intende rimpiazzare l'euro. Ed ecco qui un inizio di riflessione, timido ma promettente. Timido, perché la proposta è ancora troppo moderata. Ma promettente, perché indica la strada "in positivo" del superamento dell'euro. La prospettiva di costruire un sistema monetario europeo su basi keynesiane (e perciò del tutto opposte a quelle dell'euro) potrebbe assumere un ruolo nel ritorno dei progressisti sulla scena politica. Ne avevamo già parlato qui. Non è detto che sia la soluzione migliore. L'importate è che sia possibile continuare a ragionarci liberamente, senza che il dibattito venga bloccato da considerazioni quali "indietro non si torna", "ormai questi sono i tempi", "gli stati nazionali non esistono più", "non c'è alternativa". (C.M.)

P.S. La proposta di una European Clearing Union comincia a fare breccia anche nel campo degli euro-entusiasti. In questo documento a proposito delle possibilità di superamento dell'euro si dice: "Tra queste opzioni vi è anche quella di una trasformazione dell'euro in moneta di conto internazionale, sottraendogli la natura di moneta merce, e utilizzando i sistemi di clearing per regolare i rapporti del commercio interno europeo e quelli tra area euro e sistema internazionale". Sono soddisfazioni.



sabato 20 luglio 2013

È forse un film dell'orrore?

Il vice-presidente del Senato dice che il primo ministro di colore della storia d'Italia gli ricorda un orango, mentre il commissario giudiziario degli stabilimenti ILVA di Taranto afferma che i tumori non sono stati provocati dalle polveri tossiche, ma dal tabacco e dall'alcol e il ministro dell'economia annuncia all'estero (e in inglese!) che ora ci vendiamo ENI, ENEL, Finmeccanica e le Poste. L'ambasciatore del Kazakhstan (c'è da chiedersi di quale potere disponga quello USA) entra negli uffici del ministero degli Interni e fa il bello e il cattivo tempo, volgendo le iniziative della polizia alla cattura di un dissidente politico di quel paese, e ottenendo la cattura della moglie e della figlia di questi (ora ostaggi in Kazakhstan). Il ministro responsabile dice di non essersi accorto di nulla, tre quarti del Senato gli credono, e durante le dichiarazioni di voto il presidente dell'assemblea Grasso intimidisce il 5 stelle Morra, proibendogli anche soltanto di nominare Giorgio Napolitano.

Non è uno scenario da Basso Impero, ma da avvenuta calata degli Unni. Ormai ogni ritegno, ogni pudore è stato superato. Questo l'unico vantaggio del vincolo esterno: messo sotto pressione, il sistema è costretto a mostrare il suo vero volto. La classe dirigente di questo paese mostra tutta la sua inadeguatezza, la sua codardia, la sua perfidia verso i deboli, la sua violenza, la sua schifosa mediocrità. È la notte della Repubblica. Speriamo arrivi preso l'alba. (C.M.)

venerdì 19 luglio 2013

Anche il Sud ha i suoi Quisling

Il Presidente Napolitano è intervenuto per "blindare il governo", ci spiega il Corriere della Sera. Ci sembra possibile osservare, anche sottovoce e "moderando i toni", per carità, che essendo l'Italia una repubblica parlamentare e non una repubblica presidenziale, il Presidente della Repubblica non ha nessun titolo per blindare o far cadere governi. Se n'è accorto perfino Civati, non precisamente un bolscevico. Ma ovviamente nessuno farà  obiezioni sostanziali. Sappiamo perché. Giorgio Napolitano è, al momento attuale, uno dei principali pilastri del processo di colonizzazione del nostro paese. E' uno dei Quisling scelti dalle élite europee per garantire che il processo di riduzione dei paesi PIGS a colonie, a Terzo Mondo di un qualche nuovo tipo, proceda senza intoppi e senza fastidiose proteste popolari.
L'unica risposta possibile a queste élite che ci hanno dichiarato guerra è la creazione di forze politiche in radicale e totale contrapposizione all'insieme dell'attuale ceto politico, di destra, di centro o di sinistra, e al suo massimo rappresentante, Giorgio Napolitano.
(M.B.)

martedì 16 luglio 2013

Clamoroso! Anche Noam Chomsky lavora per la CIA

Uno degli intellettuali più influenti nella sinistra internazionale, il celebre linguista Noam Chomsky, ha rilasciato questa intervista sulla Rivoluzione Siriana. Chomsky non può certamente essere sospettato di nutrire un pregiudizio anti-iraniano, e in questi anni ha espresso più volte vicinanza e solidarietà al movimento Hezbollah.

Eppure in questa intervista egli afferma:

1) che il regime di Assad è destinato a cadere

2) che la rivolta armata era inevitabile, visto che il regime ha risposto alle legittime istanze del popolo con una sanguinosa repressione

3) che l'intervento di Hezbollah sul terreno siriano è un errore ingiustificabile

4)  Che né l'Occidente né Israele hanno fatto alcunché per favorire la caduta del regime

5) Che né l'Occidente né Israele hanno alcun interesse a far cadere il regime

6) che la "cospirazione imperialista" contro il regime di Assad è frutto della fantasia di persone che credono che gli USA sia onnipotenti, e di conseguenza vedono le loro mani dietro ogni cosa

Somiglia soprendentemente a quanto detto finora su questo blog, non trovate?

Qualche tempo fa, un simpatico commentatore affermò che io ero un salafita, e dei più pericolosi in circolazione. Per questo tipo di persone, dalla spiccata mentalità paranoica,  l'unica spiegazione possibile delle parole di Noam Chomsky è che questi sia diventato, in tempi recenti, un agente della CIA. (C.M.)

lunedì 15 luglio 2013

Quello che i marxisti non dicono

1. La migliore proposta politica possibile.
Uno degli aspetti più sorprendenti delle discussioni sull'euro è il ritardo o la reticenza nell'assumere la proposta politica dell'uscita da euro e UE da parte del variegato mondo della sinistra radicale, dei marxisti e dei comunisti. Su tratta di un tema sul quale io credo valga la pena di spendere qualche pensiero. Si potrebbe obiettare che occuparsi di un tale mondo, stante la sua residualità e ininfluenza, non serve davvero a nulla. Nonostante la verità di questa osservazione, ritengo lo stesso che le riflessioni che seguono possano essere utili. E' evidente infatti che in Italia e in Occidente stenta moltissimo a coagularsi un movimento di opposizione e contestazione nei confronti della deriva distruttiva e barbarica dell'attuale “capitalismo assoluto”. D'altra parte l'esperienza prova che un tale movimento, che sappia dar vita ad autentiche forze politiche di opposizione, è condizione necessaria per poter contrastare la barbarie incipiente. Ma visto che da anni o decenni ci sono stati, in Italia e probabilmente un po' dappertutto, i più vari tentativi in questo senso, e tutti sono falliti, è probabile che occorra una riflessione non banale sulla natura di questi fallimenti, per sperare di costruire qualcosa che possa sottrarsi a questo destino.
Un esempio eclatante di un tale fallimento è proprio quello del variegato mondo della sinistra radicale, comunista, marxista, che pure aveva ed ha il vantaggio di una tradizione culturale di grande spessore. Se da questo mondo continuano infatti ad arrivare analisi teoriche generali interessanti e utili, manca completamente la capacità di elaborare una proposta politica sensata. E manca perfino la capacità di riconoscere una proposta politica sensata (come quella dell'uscita da euro e UE) quando ci si imbatte in essa. Nel caso appunto dell'uscita da euro e UE, si tratta di una situazione paradossale, perché, per i motivi che cercheremo adesso di spiegare, essa è realmente la migliore proposta politica che un anticapitalista possa assumere nella situazione attuale.
Prima di provare ad argomentare quest'ultima affermazione, sono necessarie due precisazioni.
In primo luogo, parlando del mondo della sinistra radicale che non prende una posizione chiara di uscita dall'euro non si intende negare, ovviamente, l'esistenza di qualche realtà che invece ha preso una posizione di questo tipo: fra questi, a mia conoscenza, ci sono i Comunisti-Sinistra Popolare di Marco Rizzo, il Campo Antimperialista, il Movimento Popolare di Liberazione, la Rete dei Comunisti (che fa riferimento alla rivista Contropiano), il gruppo che gestisce il sito Marx XXI. Possono ovviamente esserci altre realtà. Il punto è che quelle che ho elencate sono in sostanza eccezioni, almeno fino ad ora, mentre la maggioranza del mondo della sinistra radicale non sembra aver  compreso quello che ho affermato sopra, il fatto cioè che la proposta politica di uscita da euro e UE è la migliore proposta politica che possa essere fatta, oggi in Italia, dal punto di vista di un anticapitalismo radicale.
In secondo luogo, l'affermazione che ho appena fatto, e che nel seguito argomenterò,  necessita di una premessa, cioè del fatto che non è possibile oggi in Italia (e in generale nei paesi avanzati) un progetto politico di rivoluzione, presa del potere e abbattimento del capitalismo da parte di un proletariato rivoluzionario. Se fra i miei lettori c'è qualcuno che non condivide questa premessa, e crede quindi che una rivoluzione comunista sia oggi una concreta possibilità storica, lo prego di interrompere la lettura a questo punto: si tratta di una persona che ha una cosa molto importante da fare, appunto concretizzare la possibilità di una rivoluzione comunista, e non sarebbe giusto che perdesse tempo a leggere un articolo che non gli fornirà nessun aiuto per questo importante compito. Vada a fare la rivoluzione, si abbia i nostri migliori auguri, e quando ci sarà riuscito ci faccia sapere.

Veniamo ora a quanto sopra affermato a proposito di una concreta politica anticapitalistica. Quali dovrebbero essere le caratteristiche di una seria proposta politica di questo tipo, nella situazione attuale?

domenica 14 luglio 2013

C'è chi ha il dono della sintesi

Questo articolo di Alberto Bagnai riassume nel migliore dei modi le conseguenze della nostra permanenza nell'euro, e le misure adottate dal PUDE per impedire che i cittadini italiani mettano in salvo il proprio paese. Il nostro futuro, nell'euro, è diventare colonia. Ma come sa chi ha minime nozioni di storia del colonialismo, il dominio dei paesi colonizzatori si è sempre fondato, in primo luogo, sulla collaborazione di una parte della popolazione colonizzata; la parte più servile e degradata, e spesso anche la più ricca, grazie ai servigi resi al dominatore. Ecco cos'è il PUDE: è l'élite coloniale che conserva le sue rendite di posizione trasformandosi in maggiordomo (e spesso secondino) delle potenze colonizzatrici.
Per questo dobbiamo rovesciare euro e UE, per riconquistare la nostra libertà e la nostra dignità; e ciò vale anche al di là della discussione tra uscita "da destra" oppure "da sinistra" dall'euro (benché io sia convinto che l'uscita "da sinistra", oltre che preferibile, sia anche necessaria; ma sull'argomento tra poco interverrà Marino Badiale, con un suo importante articolo).
L'ottimo articolo di Bagnai non dice ovviamente nulla di nuovo ai nostri lettori, molti dei quali sono abituali frequentatori del suo blog. Esso rappresenta invece un prezioso insegnamento per i tanti nostri concittadini che ancora, purtroppo, non hanno ancora compreso la situazione nella quale tutti ci troviamo. E' nostro preciso dovere far sì che queste nozioni e questi ragionamenti siano diffuse anche al di fuori delle nostre cerchie abituali. La conoscenza è l'arma più importante nella lotta contro l'oppressione, che nel nostro caso specifico consiste in una lotta di liberazione nazionale. Prepariamoci. (C.M.)

sabato 13 luglio 2013

L'esempio della Lettania

Secondo il Nipote di Suo Zio, attuale nostro Presidente del Consiglio, l'euro è una storia di successo, e il caso della Lettonia, che tra poco vi entrerà, lo dimostra.

L'ultima volta che un uomo politico italiano aveva cercato di individuare un paese che incarnasse il successo dell'euro si era finiti a parlare di Grecia. Riguardiamolo ancora una volta.


Oggi invece è il turno della Lettonia. Il problema è che se si cercano su google parole come "Latvia" e "success" vengono fuori risultati come questi:

Latvia's economic disaster as a neoliberal success story

la cui interpretazione dovrebbe essere facile anche per chi non padroneggia l'inglese. Per questi ultimi ecco una versione italiana di un articolo molto simile. Può sorgere il dubbio che questi autori siano degli inguarabili complottisti. A questi dubbi può rispondere Forbes. E, sempre per par condicio linguistica, anche Krugman.

Non credo che ci sia molto da commentare. Dobbiamo essere grati a questo governo, perché con i suoi atti e le sue dichiarazioni ci fa provare l'ebrezza momentanea di sentirci esperti di fatti economici. Probabilmente la cosa migliore l'ha detta Claudio Borghi su Twitter, sempre all'insegna del ridere per non piangere: "e che modello poteva indicare Letta se non la Lettonia? Fosse stato Bersani avrebbe indicato la Bersania". (C.M.)

venerdì 12 luglio 2013

Il demenziale liberoscambismo della Sinistra: Brancaccio VS Revelli

All'indomani delle elezioni europee del 2009, la rivista Micromega organizzò una tavolta rotonda sulle sorti di una sinistra radicale che non riusciva ad eleggere nemmeno un deputato. Partecipavano il sociologo Alessandro Dal Lago, il politologo Marco Revelli, e l'economista Emiliano Brancaccio. A quest'ultimo si deve lo spostamento della discussione attorno a temi concreti, più che su rimpianti e vane formule ideologiche. La sua proposta di una concreta politica economica per la Sinistra, imperniata sul blocco dei movimento di capitale, viene respinta da Revelli con soprendente fermezza. Chi conosce Revelli sa che certi toni non gli appartengono. Eppure la semplice proposta di Brancaccio viene bollata di nazionalismo, di ritorno al passato, di essere di destra, di occhieggiare a valori e simbologie razziste... insomma, se sei per il blocco dei movimenti di capitale sei xenofobo. 

Questa chiusura a riccio, da parte di un intellettuale che ha avuto e ha una non trascurabile influenza negli ambienti della Sinistra, aiuta a capire perché quest'ultima è morta e sepolta. Queste persone hanno completamente perduto ogni riferimento "di classe". Non sono in grado di percepire cosa minaccia i lavoratori (nel caso, l'apertura dei mercati), non sono comunque disposti a farvi fronte, e di conseguenza i lavoratori non li votano più. As simple as that. Al posto dell'analisi dei rapporti di forza tra le classi, e della difesa politica degli interessi dei ceti di riferimento, la Sinistra ha abbracciato vuoti concetti, parole d'ordine astratte, dimostrando anche una sorprendente rigidità (per non dire pigrizia) intellettuale.

Ha vinto Revelli insomma, e la Sinistra è morta. Si vede che era destino. Certo, se avesse "vinto" Brancaccio... ma ora godetevi questo scambio. Vi assicuro, è imperdibile. Ho ritagliato le parti più interessanti. Chi vuole leggere l'originale lo trova qui. (C.M.)

mercoledì 10 luglio 2013

Die Elenden


 "I Miserabili", in tedesco. Questo articolo parla dei miserabili in Germania. Buona lettura. (Claudio Martini)


Lo abbiamo già detto molte volte: la crescita della povertà in Germania ha conosciuto un autentico boom negli ultimi anni. Sappiamo inoltre che il modello economico tedesco è fondato sui bassi salari, e che è proprio questo modello ad aver sprofondato i paesi della periferia europea nella crisi.


Per anni la Germania si è comportata come un'idrovora di risorse: accumulando surplus commerciali costanti, ha drenato liquidità e risorse dai paesi che le stanno attorno. Il drenaggio è stato “coperto” dal ricorso all'indebitamento, che ha regalato un'effimera e illusoria crescita alle periferie, e un continuo flusso di profitti al centro. Flusso che, ovviamennte, è andato ad arricchire esclusivamente il 10% più facoltoso della società tedesca, essendo il modello di sviluppo di questa fondato sull'impoverimento del restante 90%.
Di fronte ai nostri occhi vediamo una Germania imperante, in grado di farsi obbedire dall'intero continente, e periferie europee in piena tragedia sociale. Ma è importante ricordarsi che l'incubatrice della miseria che ora affligge i PIIGS è stata proprio la Germania. Mentre i paesi del sud si illudevano di essere approdati al Bengodi (le Olimpiadi del 2004 rappresentano l'apice dell'illusione), al centro dell'eurozona si sperimentavano misure, di stampo thatcheriano, capaci di far esplodere povertà e disuguaglianze; misure che, di lì a pochi anni, sarebbero diventate legge in tutti i paesi europei. Attraverso l'euro e la UE, la Germania ha esportato miseria nei suoi vicini, merce nella cui produzione non teme rivali.
Questo triste ruolo di avanguardia nella povertà poteva essere riconosciuto anche il 3 aprile del 2008. Perché questa data? Perché in quel giorno l'Università di Genova organizzò un seminario intitolato alle “Politiche sociali per la Nuova Città Europea”, tra i cui relatori vi era Christine Labonté-Roset*. La docente parlava del “caso tedesco”. Siamo nel 2008. Eccone alcuni estratti. Ammirate il quadretto che ne viene fuori**:

martedì 9 luglio 2013

L'Italia è un gigante economico. Lo sapevate?

 Claudio Martini

Qualche giorno fa abbiamo denunciato lo spudorato terrorismo di due marescialli del PUDE, Eugenio Scalfari e Giovanni Floris. Costoro spaventavano il pubblico dicendo che fuori dall'euro l'Italia avrebbe perso qualsiasi peso economico.  Usarono espressioni come "finiremmo come il Marocco, o l'Egitto, quei posti lì". Sorvoliamo sul retroguso razzistoide di frasi del genere, e andiamo alla sostanza.

Questo genere di argomenti può fare presa solo su chi ha una totale ignoranza della realtà economica del nostro tempo, e in particolare sul peso specifico del nostro paese nel contesto internazionale. L'Italia è un paese molto importante, lo sappiamo. Ma è sopratutto un paese molto ricco. Tuttavia, nell'immaginario di tanti suoi cittadini l'Italia è una provincia piccola e marginale, che presto sarà scalzata dalla Thailandia (sentito con le mie orecchie), che comunque non può reggere il peso dell'avanzata dei paesi emergenti, e che perciò deve "fare gruppo" con i cugini europei per resistere alla preoccupante ascesa dei negri membri dell'ex "terzo mondo". Corollario: se si esce dall'esclusivo club euro si finisce come il Nord Africa.
Qui non c'è di mezzo solo il classico auto-razzismo degli italiani. Qui gioca un ruolo la mancata consapevolezza dell'incredibile divario che separa i paesi ricchi da quelli poveri.

Prendiamo il Marocco. Utilizzando i dati del Fondo Monetario Internazionale aggiornati al 2012, si può affermare che il reddito nazionale lordo del Marocco è di 97 miliardi e mezzo di dollari, mentre quello italiano assomma a 2014 miliardi.
Avete letto bene. Il Pil marocchino è meno di un ventesimo di quello italiano. E non pesa qui il divario di popolazione, visto che i residenti in Marocco sono grosso modo i 3/5 di quelli in Italia (38 milioni contro 59).

E l'Egitto? Inserire questo paese nel novero di quelli "che crescono" sembra davvero improprio, visto che il caos politico seguito ai fatti del febbraio 2011, unitamente all'illuminata amministrazione dei Fratelli Musulmani, ha portato alla rovina l'economia egiziana, tanto che forse è il caso di parlare di "paese sprofondante" più che di "paese emergente"... In ogni caso, il Pil egiziano nel 2012 era di 256 miliardi di dollari. Grosso modo un decimo del Regno Unito, e un ottavo dell'Italia- con una popolazione che, secondo stime recenti, supera i 90 milioni.

Il divario tra le due sponde del mediterraneo rimane abissale. Ma il discorso si può generalizzare. Ora facciamo una serie di confronti "Paese europei VS Paesi emergenti".

domenica 7 luglio 2013

Egitto: un golpe saudita (che potrebbe rivelarsi salutare)

Man mano che passano le ore la nebbia si dirada, e la situazione in Egitto diventà più decifrabile. A quanto pare il colpo di stato che ha portato alla destituzione e all'arresto di Mohammed Morsi è stato appoggiato, se non proprio organizzato, dai servizi segreti sauditi e degli Emirati Arabi Uniti. Lo dimostrano, al di là dei rumores, il fatto che i primi (e praticamente gli unici) paesi ad aver dimostrato apprezzamento per il cambio di regime ed essersi congratulati con il nuovo presidente Mansour sono stati proprio UAE e Arabia Saudita. Il nuovo Emiro del Qatar ha espresso le stesse congratulazioni in un tempo successivo, e a denti stretti: il Qatar infatti aveva puntato tutto sulla Fratellanza Musulmana, in Egitto come altrove, ed è considerato il soggetto politico che più ha da perdere dalla caduta di Morsi. Turchia e Tunisia protestano apertamente, temendo che lo scenario si riproponga anche da loro. Gli USA sembrano stati colti alla sprovvista, e appaiono in preda a un certo disorientamento. Dal canto suo, il ministro degli Esteri israeliano italiano, Emma Bonino, esprime costernazione e dice che l'Egitto "è a un punto di non ritorno".

Si tratta certamente di un colpo di stato, ed è certo che la reazione di molti islamisti sarà il ricorso alle armi; mossa che non sembra del tutto illegittima, visto che quanto è accaduto negli ultimi giorni è la dimostrazione patente che una "normale" dinamica democratica non può semplicemente aver luogo in Egitto. Tuttavia, non bisogna dimenticare che a rompere la legalità costituzionale è stato lo stesso Morsi, con la sua dichiarazione del 22 novembre 2012, con la quale:
  • cancellava il principio del ne bis in idem per i soggetti, sospettati di essere stati uomini di Mubarak, e che erano usciti prosciolti dai processi seguiti alla caduta del regime, e che perciò avrebbero dovuto essere ri-processati;
  • dotava se stesso di pieni poteri per la "salvaguardia della rivoluzione";
  • concedeva a se stesso una piena immunità giurisdizionale per i suoi atti;
  • negava che un qualsiasi suo atto legislativo potesse essere messo in discussione da una autorità giudiziaria, fosse anche la Corte Costituzionale.
Quindi i militari non hanno deposto un presidente democratico, ma una sorta di Faraone.  In questo senso il fato di Morsi assomiglia molto a quello di Mubarak, anch'esso estromesso dai militari in seguito a grandi manifestazioni di piazza. Se noi consideriamo quello che ha colpito Morsi un golpe, allora anche quello del 2011 lo è stato; se noi vediamo nei fatti del 2011 una rivoluzione, allora anche quella che ha rovesciato Morsi lo è.
Con una differenza non di poco conto.
Mubarak era sicuramente un autocrate con mille difetti, ma governava l'Egitto (e l'economia non andava malissimo). Morsi lo sgovernava. L'incompetenza e la sciatteria dimostrata dai Fratelli Musulmani nel loro periodo di governo non ha eguali nella storia recente del mondo arabo. Conseguentemente, l'economia è colata a picco.

Oggi le uniche cose che possono salvare gli egiziani dalla carestia (non esagero) sono la stabilità politica, e un forte afflusso di capitali esteri a fondo perduto. Entrambe le condizioni possono avverarsi con l'intervento dell'Arabia Saudita, che però non può tollerare di sostenere finanziariamente un governo retto dalla Fratellanza (il cui fine ultimo e strategico, lo ricordiamo, è proprio "liberare" la "terra santa" islamica, ossia Medina e la Mecca, dall'usurpazione dei Saud). C'è solo da sperare che l'Egitto non precipiti in una guerra civile in stile algerino, che darebbe luogo a una tragedia ancora più orribile di quelle occorse al Libano, all'Iraq, alla Siria.

In ogni caso si tratta di tempi duri per la Fratellanza. Il loro punto di riferimento teorico e spirituale, Yusuf Al Qaradawi, è stato appena espulso dal Qatar, da cui attraverso l'emittente Al Jazeera lanciava sermoni estremisti e pro-Fratellanza; e il movimento ha anche perso la guida dell'opposizione siriana all'estero a favore del candidato filo-saudita (la cui fazione, giova ricordarlo, è guidata da un cristiano marxista, Michel Kilo). Il 2011 è stato l'anno di grazia della Fratellanza, grazie all'aiuto e al sostegno del Qatar e degli USA (e in certi casi anche dell'Iran). Il 2013 sembra davvero che possa rappresentare il loro annus horribilis. (C.M.)



venerdì 5 luglio 2013

La sinistra rivelata/4

Continuo la pubblicazione del capitolo 2 de "La sinistra rivelata".
(M.B.)


Alla parte precedente                                                                      Alla parte seguente


Sinistra e competitività.
Su “La Repubblica” del 16 marzo 2005 è  comparsa una vignetta di Bucchi in cui si vede un uomo che prega il suo dio e che conclude la sua preghiera dicendo “e rendi competitivi me e la mia famiglia”. C’è più verità in questa sola vignetta che in tanti degli articoli che compaiono quotidianamente sulla stampa. La verità che essa manifesta è che la competitività universale come principio regolativo della vita sociale è oggi il postulato comunemente condiviso di ogni giudizio e di ogni interpretazione delle vicende del nostro tempo. Sindacati operai e organizzazioni padronali concordano nella richiesta di “più competitività del sistema”, destra e sinistra si rimproverano reciprocamente di non promuovere abbastanza la competitività. Nessuna epoca ha avuto un postulato o un mito insieme così poco intelligente e così dannoso. La competitività, infatti, può effettivamente migliorare le prestazioni in qualche campo particolare [1], ma in tutti gli altri risulta generatrice di inefficienza, di danno sociale, di corruzione morale, di umiliazione del merito vero, di ascesa degli incapaci ai posti di comando, e anche di ridicolo. L’accecamento mentale prodotto dall’ideologia neoliberista rende sorprendenti queste ovvietà, perché un ossessivo imbonimento dei cervelli fa credere che la logica della competizione faccia emergere i più capaci, selezioni le competenze, promuova l’efficienza. E’ facile rendersi conto che queste affermazioni sono false: l’agricoltura competitiva è quella che droga e avvelena i suoli con fertilizzanti chimici e pesticidi; l’allevamento competitivo è quello che produce carni gonfiate, prive di sapore, piene di antibiotici; i trasporti competitivi sono quelli che riducono il personale, la manutenzione e quindi la sicurezza del servizio; le banche competitive sono quelle che licenziano impiegati e rifilano titoli spazzatura ai propri clienti; la medicina competitiva è quella che rifiuta di far arrivare i farmaci salvavita agli ammalati dei paesi poveri; le scuole competitive sono quelle dove si moltiplicano le attività di pura immagine e non si insegna più nulla di organico.

mercoledì 3 luglio 2013

Granelli

L'articolo che segue è stato pubblicato sull'ultimo numero de "Il granello di sabbia", rivista elettronica di Attac-Italia. Qui trovate la rivista.
(M.B.)


Come difendere i beni comuni? Uscendo dall'euro e dalla UE
Marino Badiale, Fabrizio Tringali

Da oltre trent'anni, nei Paesi occidentali, è in corso un processo di smantellamento dei diritti e dei livelli di vita conquistati dai ceti subalterni nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale.
Nel nostro Paese tale processo ha recentemente subito una drammatica accelerazione.
Purtroppo manca ancora una diffusa consapevolezza sulle ragioni della crisi che stiamo vivendo e quindi stenta a prender forma una resistenza popolare adeguata.
Non ci addentriamo qui in una riflessione generale sulla fine del “compromesso fordista-keynesiano” e sul passaggio al capitalismo “neoliberista” e “globalizzato” (tutto ciò è già stato sufficientemente chiarito, almeno nelle linee generali, da una vasta pubblicistica).
Ci preme piuttosto sottolineare questo: il compito che sta di fronte a chi oggi voglia difendere i diritti e la democrazia, è quello di individuare gli strumenti concreti con i quali, nei diversi Paesi e nelle diverse situazioni, viene portato avanti l'attacco che stiamo subendo, e di elaborare idee e azioni politiche di contrasto.
La nostra convinzione è che, nella specifica realtà dei paesi del sud-Europa, in questa precisa fase, lo strumento fondamentale per tale attacco è rappresentato dal binomio euro/UE, e che ogni seria politica di difesa della democrazia e dei diritti sociali deve assumere come punto ineludibile la fuoriuscita dalla moneta unica e dall'Unione Europea.

lunedì 1 luglio 2013

I cento caffè del Dottor Letta

Alessandro Guerani, che senz'altro i lettori del blog Goofynomics conosceranno, è inventore di un modo efficace per illustrare la differenza tra gli economisti che guardano solo al lato dell'offerta (i supply-siders) e quelli che considerano centrale il ruolo della domanda (genericamente, i keynesiani). L'"offertista" considera economicamente efficiente il barista che, nello spazio di un mattino, è in grado di preparare 100 caffè. Il "domandista" considera bravo il barista che, nello stesso periodo, vende 100 caffè. Tra questi due punti di vista c'è tutta la differenza tra una teoria economica che si preoccupa solo delle condizioni di efficienza in cui l'impresa opera (e che quindi è a favore di bassi salari, se ciò serve per la competitività) ed un approccio che invece cerca di capire se e in che misura i prodotti saranno venduti (e che perciò non si oppone all'innalzamento dei salari, così da creare maggiore domanda).

Enrico Letta dimostra, con il suo striminzito "piano per il lavoro", di essere un rigoroso supply-sider. Il piano prevede sconti fiscali per le imprese che assumono giovani disoccupati con un basso titolo di studio. Che non sia granché lo dimostrano le reazioni negative, del tutto bipartisan: ecco due critiche di sinistra, qui e qui, e una di "destra", o quantomeno liberista. Senza contare la gragnuola di critiche che il piano ha raccolto sul web: si potevano aiutare i lavoratori cinquantenni, è un meccanismo che disincentiva a studiare*, si continuano a dare soldi alle imprese...

Ma è tutto il senso dell'operazione che non sembra adeguato alla bisogna. Letta si preoccupa di rendere più economica la produzione, ma non dà segni di immaginare dove quella produzione potrà essere assorbita. Il piano incoraggia le nuove assunzioni. Ma gli imprenditori aumentano l'organico delle proprie imprese con lo stesso criterio con cui fanno investimenti in capitale fisso: quando e se c'è prospettiva di vendere di più. In un quadro di recessione come l'attuale, quale prospettiva "espansiva" c'è per gli imprenditori?

E' facilissimo prevedere che il piano, pur nella sua limitatezza, andrà incontro a un fallimento. Il che dimostra l'inadeguatezza innanzitutto scientifica e culturale di chi ci governa. Non sono solo cattivi. Sono anche mediocri. (C.M.)



* Immaginate un giovane studente di un istituto tecnico o alberghiero alle prese con l'esame di maturità. Egli sa (o potrebbe venire a sapere) che il suo contratto di lavoro costerà tot all'imprenditore se riuscirà a diplomarsi, e costerà meno se invece fallirà nell'impresa. Geniale.

Bene!

Bene! Anche Andrea Ricci, docente di Economia internazionale all'Università di Urbino, ex-responsabile economico nazionale di Rifondazione, ha preso posizione per l'uscita dall'euro, scrivendo anche un interessante articolo sul "cui prodest" dell'euro. Non abbiamo molto da commentare sulle parole di Ricci, perché le cose che egli dice sono quelle che andiamo ripetendo fin da quando abbiamo aperto questo blog. Magari, se Ricci riuscisse a spiegare quelle due cosette a Ferrero, Rifondazione avrebbe qualche speranza di uscire dalle catacombe in cui si è cacciata.

(M.B.)